Vigili o ortolani?

di Simonetta Gallucci

Illustrazione di Francesco Dell’Acqua

«Signorina, la fermata non è più qua» mi dice un ragazzo biondo, capelli a spazzola, mentre sto fumando una sigaretta via l’altra sulla banchina.

«Da quando?» chiedo.
«Da stasera».
«Difatti, mi pareva».
Quando sono arrivata, alle sei di stamattina, sono scesa proprio su questo marciapiede dove ora pesto la cicca con la punta delle sneakers.

«Dovete girare l’angolo, è là dietro» continua il ragazzo.
L’uso del “voi” mi commuove. Lo guardo meglio: sulla giacca a vento colore blu autista ha il logo ricamato della compagnia di autobus leader nella tratta degli emigrati come me. Posso fidarmi. 

Il controesodo è già iniziato, siamo agli ultimi giorni di agosto.
Alla luce gialla di un lampione ci siamo soltanto io e una famiglia, padre madre e una bimbetta, a fare da all you can eat per le zanzare.
Recupero dalla borsa delle salviettine repellenti mezze asciutte: me ne passo una sul collo, sulle braccia, sulle caviglie. La madre mi guarda come gli affamati davanti alla vetrina di una pasticceria: «Tenga» le dico «non so quanto siano ancora efficaci, ma ci proviamo».
Lei sorride e fa: «Danke».

L’autobus arriva, consegniamo i bagagli: due valigie alte quasi quanto me per loro, un trolley mezzo vuoto per me. Ho avuto soltanto il tempo di sistemare, in frigo, in freezer e nella dispensa, le scorte di amore edibile per l’inverno: formaggi, carne e pacchi di taralli mezzi polverizzati, ma piuttosto che sprecarli sarei disposta a sniffarmi le briciole.
Non l’ho disfatta stamattina perché ero troppo stanca dal viaggio; avrei voluto farlo più tardi, poi le cose sono andate diversamente e, anziché svuotarla, l’ho chiusa e mi sono rimessa in partenza.

Scelgo il posto finestrino, e vedo le luci di Milano scorrere e sfocarsi man mano che l’autobus prende velocità. Anche i miei pensieri si sfaldano, si fanno liquidi; provo a rincorrerne uno finché riesco ad acchiapparlo: è uno di quei ricordi che, quando tornano, mi fanno spuntare un sorriso di tenerezza.

Abitavo ancora al paese, un posto così immobile che anche una giornata ventosa fa notizia.
Figurarsi un incidente.
Ero a casa della nonna quando qualcuno citofonò con tanta insistenza che lei, alzando lo sguardo da una federa sulla quale stava ricamando le iniziali per il corredo di chissà quale nipote (si portava avanti, anche se il più grande di noi poteva avere sì e no diciott’anni), mi disse: «Questo ha trovato la colla sul campanello. Apri tu, fammi la cortesia».

Era mio zio, col fiatone per la corsa e la rampa ripida di scale che portava su.
«Cos’è tutta ‘sta premura?» gli chiese la nonna.
«Ma’, Michele è andato a sbattere con la macchina».
«Michele chi?» domandai io.
«A chi appartiene?» domandò lei.
«Il figlio di commara Franceschina» rispose a entrambe lo zio.
«Dov’è successo?» chiesi io.
«Quand’è successo?» chiese lei.
«E quante ne volete sapere, tutte e due!» fece lui. «Manco la creanza di darmi un goccio d’acqua, prima».

Scambiai uno sguardo con la nonna e lei assentì con la testa: per educazione, prima di toccare qualsiasi cosa, chiedevo il permesso.
Presi un bicchiere dal pensile e dell’acqua.
«Ti faccio l’orzata» disse a lui, e a me: «Prendi pure i uafer».
Non si capiva la ragione, ma d’estate a casa sua erano immancabili i wafer stantii tenuti in frigo.

Mio zio bevve d’un fiato, prima di continuare il racconto: «L’ho sentito in piazza. Dice che ha preso male la curva degli stramurali e si è cappottato con la macchina».
«E come sta?» chiese la nonna.
«L’hanno portato all’ospedale».

Michele lo conoscevo, suo figlio era un mio compagno di classe.
«Ma è vigile?» domandai allo zio ma, prima che lui potesse rispondere, intervenne mia nonna, con la sicumera dell’anziana saggia che corregge la gioventù: «No! Ha sempre fatto l’ortolano!»

Quell’involontario sketch era passato di bocca in bocca e, a ogni ricorrenza, veniva ripetuto da uno qualsiasi dei commensali: era uno dei copioni condivisi di quella tragicommedia intitolata “memorie famigliari”.

Mi muovo sul sedile.
Provo a chiudere gli occhi, mi forzo per tentare di dormire. Ma nulla; non mi resta altro che giocare con uno degli elastici che porto al polso.
Quand’è successo?, mi chiedo.
Quand’è che sono invecchiati?
Quest’estate, quando sono tornata per i cinque giorni di autonomia che ho prima di mostrare segni di insofferenza, li ho trovati tutti più acciaccati di come ricordavo: mio padre si lamentava per il mal di schiena, mia madre per i denti e la nonna era stranamente inappetente. Non aveva rinunciato però al suo piacere: il vino. Al pranzo di Ferragosto lei era a capotavola, e io al suo fianco; le avevano versato soltanto due dita di rosso allungato con l’acqua: lei mi ha dato di gomito e si è fatta passare la bottiglia, con gli occhi lucenti di furbizia.
Cosa mi sto perdendo?
È una domanda che mi faccio da un po’, ma non l’avevo avvertita mai con l’urgenza di questo viaggio interminabile nella notte, accartocciata sul sedile di un autobus che sta tagliando l’Italia. E che vorrei sorpassasse a sinistra, ma pure a destra, che passasse sopra o sotto, che si mangiasse l’asfalto, i camion, le auto, che bruciasse gli autogrill.

Purché arrivi in tempo.

La prima telefonata l’ho ricevuta intorno a mezzogiorno: era la nonna.
Mi aveva fatto una videochiamata, voleva salutarmi e chiedermi com’era andato il viaggio, ma teneva il cellulare troppo vicino alla faccia, di lei vedevo soltanto la dentiera.
Ho provato a dirle di allontanarlo, ma non capiva, allora mi sono innervosita e l’ho liquidata, dicendole che ci saremmo sentite presto.

La seconda era una chiamata, invece, verso le quattro, da parte di mia madre: «Tutto bene il viaggio?»
«Al solito» le ho detto. È restata in silenzio.
«E voi tutto a posto?». Ancora silenzio.
«Oh, allora?» le ho chiesto.
«Ascolta, la nonna non si è sentita bene».
«Come sta?».
«L’hanno portata all’ospedale.»
E io, ora come allora: «Ma è vigile?»

Ho sentito dall’altra parte un singhiozzo represso: «Fa l’ortolana» e poi, quasi sussurrando: «Torna».