Viaggio breve

di Antonio Sutera

Illustrazione di Eleonora Loiodice

Ora di pranzo.
La mia abitudine è di mangiare poco e presto, in un caffè molto buono ma discreto.
Il luogo è frequentato solo da noi pochi, persone di gusto e di rango; qui mi conoscono tutti.
Sì, mangio da sola, lo facevo anche prima che mio marito morisse: quando si ascoltano chiacchiere tutto il giorno, fa piacere avere dei momenti di silenzio per sé.
In altri posti la gente fa così tanto baccano! Ma deve essere entrato qualcuno. Tutti si sono voltati verso l’ingresso, dallo sconcerto è chiaro che i nuovi arrivati non devono essere del solito giro. No, non sono qui per mangiare. Li intravedo mentre si dispongono ai lati del mio tavolo, abbastanza da farsi notare. Di qualunque cosa si tratti, il tempismo è degno della peggiore maleducazione. Il locale sta tutto con il fiato sospeso, le forchette mezz’aria. Passa ancora qualche momento e mentre spezzetto una brioche (il medico mi ha detto di fare bocconi molto piccoli), si decidono infine e si piazzano davanti a me, ostruendomi la vista degli altri tavoli. 

«Buongiorno, signora». Sto ancora masticando, buon dio.
Sono maleducati e hanno anche fretta. Non sarei certo scappata a stomaco pieno: è terribile per la digestione. Finisco il boccone, sospiro e mi alzo lentamente; poso il tovagliolo sul tavolo, faccio strada verso l’uscita. Lo sguardo degli altri clienti seduti è di compassione e di silenzioso supporto.
Questo breve tragitto è un oltraggio alla mia dignità che sembra non finire mai.

Fuori mi aspetta un sole forte che paro dietro le lenti scure.
La vettura è sicuramente quella, si capisce anche prima che aprano la portiera da dentro. Come se fosse un segnale convenuto, e forse lo è, i due mi lasciano andare da sola ed entro.
La carrozza è spaziosa, foderata in verde limone. Sembra di stare dentro un agrumeto dei paesi del sud. Anche le tende nere e spesse mi ricordano latitudini non mie. La chiusura dello sportello, da parte credo di uno dei due omoni in blu, mi riscuote. Passano alcuni momenti di attesa nel silenzio totale.
«Può partire!» grido al cocchiere. 
Mi sento di riprendere in mano il controllo di questa situazione iniziata male. Ma non parte, anzi un attimo dopo entra qualcuno. È un uomo maturo, alto, magro, con capelli e barba precocemente bianchi e lui stesso vestito di bianco, anche se di un bianco logoro, spento. Si sistema di fronte e dà due colpi col bastone allo schienale dietro di sé, sulla cornice di legno marrone scuro.
Adesso il viaggio può cominciare.

È un viaggio lungo, interrotto quattro volte dall’ingresso di altre tre persone e dall’uscita del secondo arrivato, poco prima della fine del viaggio, azione che considero una vigliaccata bella e buona. Insomma, arriviamo in quattro: io, il signore bianco, due ospiti.
Una è una bambina bruttina, di circa dodici anni e il vestito con gonna alle ginocchia. La seconda una signora sui sessanta. Ma andiamo con ordine.

L’arrivo del signore bianco non mi diede, come invece avrebbe dovuto, l’idea del rapimento; questo perché, nonostante sia chiaro che è lui il padrone della carrozza, e dev’essere anche ricco, da come è vestito, non ha detto una sola parola da quando è entrato, e un rapitore dovrebbe immediatamente vantarsi della buona riuscita del piano o del suo potere, tanto più in una operazione cristallina, alla luce del sole, come questa. Avrebbe potuto almeno minacciarmi di conseguenze vaghe e terribili lungo tutto il viaggio; ridere di gusto della mia impotenza, mostrare un’arma, anche solo per scoraggiare la fuga. Niente, la sua espressione è soddisfatta, ma proprio non intende parlarne.
Eppure sento che ci deve essere un motivo grosso dietro al fatto che sono stata privata di una parte del pranzo e interamente del dessert. Gli appuntamenti non sono così bruschi; si manda un invito con giusto anticipo. Mi sento sinceramente offesa, ma poiché è ragionevole che non mi sarà concesso scendere prima di arrivare a destinazione, devo trovare un diversivo. Per fortuna mi distraggo facilmente. Le tende sono di seta, morbidissime. Dietro di esse scopro un paesaggio traslucido disegnato sul vetro del finestrino: un paesaggio campestre dipinto a toni accesi e in modo grossolano. Il volto del taglialegna, ad esempio, è tutto indistinto. Le pecore lasciano intravedere, sotto il bianco troppo debole della lana, il vero paesaggio fuori, con l’effetto che le pecore sembrano avere viscere trasparenti e cangianti. Il disegno è abbastanza invadente da impedirmi di farmi un’idea delle vie che attraversiamo, ma senza dubbio siamo ancora in città.

Non troppo tempo dopo ecco la nostra prima ospite.
Il signore bianco ha aperto un orologio a cipolla piuttosto largo e piatto e battuto il bastone una volta.
La carrozza si è fermata all’istante.
La bambina è bassina, bionda più di me, con l’aria imbronciata. Anche da lei sembra che non possa aspettarmi una conversazione brillante. Ha in mano un taccuino da disegno e carboncini e guarda al vetro, forse per imprimere nella mente il rozzo paesaggio disegnato e ricrearlo sul foglio.  A sorprendermi è invece il secondo ospite, che ci lascerà poco prima dell’arrivo. Non si toglie il cappello entrando, e sembra esagitato e sorridente. Dopo due minuti di permanenza accanto al signore, decide di sdraiarsi sul fondo della carrozza, tra le gambe di tutti (quelle della bambina non arrivano che a metà sedile). Così rimane, col sorriso sul volto e le mani incrociate. Potrebbe anche sembrare che lo stiamo vegliando, messi così, ma il suo sguardo vivace passa da uno all’altra dei passeggeri, in modo proprio indecoroso.

È chiaro che sta per esplodere.
«Signorina» dice alla bambina, «Signora» dice a me. «Signore» dice con un sorriso ancora più largo al signore in bianco, che si guarda intorno con fare seccato. Passano due secondi di silenzio.
«Allora, dove andate?»
«Da dove viene lei?» contro chiedo io: «A che altezza è salito?».

L’uomo in bianco lo prende per un colpo basso e si mostra dispiaciuto, come avessi detto una parolaccia. Il signore sdraiato, invece, è raggiante. «Piacere, signora, sono felice che voglia parlare con me. Mi sembra che i nostri altri due compagni di viaggio cercheranno di evitarmi il più a lungo possibile». «Lo credo bene» ribatto io «sta tra i piedi a tutti quanti qui. Io stessa parlo con lei solo per dare fastidio al mio rapitore, sa, l’ometto in bianco che finora non mi ha dato lo straccio di una motivazione di quanto sta succedendo. Di lei, mio caro, mi importa poco. Della bambina, ancor meno. Ma non se ne abbia a male, piuttosto risponda alla mia domanda».

«Nessun’offesa» ribatte lui. «E se crede che io stia qui in basso a dare fastidio, giusto per rimanere in tema, ecco! No, sono qui giù per il motivo opposto: non farmi notare. Anche lei, non si preoccupi di guardarmi, o le verrà il mal di strada. Può fare finta che io non esista».
«La domanda, mio caro» insisto guardando il finestrino istoriato.

«Certo, certo. Ero uscito a comprare qualcosa, non ricordo cosa, mi scusi. Per conto di mia moglie e dei miei figli. Sa, sono impiegato in una media azienda, sono contabile, ma non l’unico, no. Ce ne sono altri. Comunque, il lavoro non manca lo stesso, anzi direi che vedo la mia famiglia assai poco. Ho spesso il timore che un giorno mi rinfacceranno…».
«Le assicuro di no, stia tranquillo. Quindi, cosa è uscito a comprare?»

«Patate, credo».
«Patate? Morite di fame in famiglia?».
«No. Oddio, non credo» risponde lui turbato.
E smette di parlare, ma sento che tra sé mormora qualcosa su dei bambini affamati.
«Non si turbi, la prego! Allora, non sono patate. Oggi è domenica ed era ora di pranzo. Si trattava di piante, ma non di patate. È uscito a comprare dei fiori». Azzardo.
Il suo volto preoccupato si chiarisce di colpo.
«Vero, signora! Lei ha del talento!».
«Può darsi» dico io. «Ma ora si concentri sul colore e la qualità dei suoi fiori, il posto dove contava di trovarli e ci lasci in pace». Funziona.
l’individuo rimane sul fondo della carrozza ma con gli occhi al soffitto, e sembra beato.

Devo avere qualità ipnotiche, penso.
Ma sono sempre stata molto convincente. 

Il viaggio prosegue nel silenzio, adesso. Noto con piacere che il signore in bianco sembra indispettito della mia chiacchierata. È il caso di rincarare la dose. Mi forzo quindi a fare qualcosa di insolito.
«Cara bambina, come ti chiami? Conosci il signore lì accanto a te?» dico melliflua.
La bambina continua a guardarmi col broncio.
«Ah, ho capito, è il tuo papà. Avete le stesse abitudini, vedo».
«No, signora, il signore non è mio padre. Non l’ho mai visto finora, ma come vede siamo tutti nella stessa situazione e non ne capirà di più finché non saremo arrivati».
Il discorsetto ha rianimato alquanto il nostro rapitore. Ha preso colore.
Consegna alla bambina un dolcetto a stecco ancora incartato che lei tiene in mano passivamente: è troppo impegnata a contemplare il paesaggio.
«Comunque, può sempre guardare fuori, non è tenuta a fissarmi tutto il tempo». «Mia cara, dal mio finestrino non vedo quasi niente, è del tutto decorato da queste figure parecchio rozze, se mi permette il nostro buon signore. Mi ascolti: lei sembra avere delle buone risorse. Londra è piena di artisti sfaccendati, sa? Potrebbe renderne felice qualcuno».

«Non saprei, signora, ma il mio è del tutto trasparente» si intromette la bambina. «Be’, ecco una buona notizia! Posso dare un’occhiata?».
Faccio per alzarmi, ma il signore in bianco mi punta contro il bastone e mi rimette al posto. Poi toglie con stizza il dolcetto dalla mano della bambina. In tutto questo ho quasi calpestato il secondo viaggiatore lì per terra, di cui ci siamo completamente dimenticati. «Scusi, lei, laggiù» dico.
Ma il signore è del tutto immerso in colori e forme di fiori.
Sarebbe molto utile sapere qualcosa di più sul nostro percorso.
«Signorina, mi puoi descrivere con precisione cosa vedi al finestrino?».

«Sono Margarethe, signora, e lei non si è ancora presentata. Vedo campi arati, pecore gonfie di lana, e lì giù c’è un paesino». «Quale paesino? È importante per capire dove andiamo. Lo riconosci?».
Ora si volta verso di me. «Sono tedesca, signora» mi dice gelida «Non so niente dei vostri pittoreschi villaggi». Il silenzio torna pesante, la bambina si immerge nella visione dal finestrino. «Grazie, comunque, cara» dico tra i denti.

Si sente dagli scossoni che il fondo stradale è cambiato.
Conosco questa strada, stiamo andando a ovest. Mi sembra una buona notizia, ho alcune amiche fuori Londra e mi sembra di riconoscere la prima parte del tracciato. Non siamo usciti molto dalla città, se è così. Dal finestrino il sole è ancora alto.

Dopo appena un altro po’ di noia insopportabile, ecco infine arrivare la nostra terza compagna. Una signora sui sessanta, gioviale. »Buondì” esclama entrando. L’atmosfera all’interno è quella che sapete. «Oddio!» esclama subito «Cosa ci fa lei laggiù? Si è fatto male?» dice rivolta sul signore in basso. «Non si preoccupi, signora, è una sua precisa scelta. Non lo guardi troppo, o le verrà il mal di strada.” intervengo io per evitare lungaggini.
«È ben strano, non si è neanche tolto il cappello» e poi, guardandomi: «Io sono Bettie, signora, e lei mi dà l’impressione di essere una gran dama.” «E lei, signora, mi dà l’impressione di essere l’unica persona in sensi di questo viaggio strampalato. Sono Anne. E mi dica, signora, dove è salita a farci compagnia, cosa di cui le sono profondamente grata? Forse dalla parti di Shifstenton?»

«Oh no, mia cara! Devo andare a Milbury street, qui a Londra. Sono salita a Battery.” «A Londra? Non siamo usciti dalla città?» Sono furibonda. «Bambina, perché mi hai detto che vedevi la campagna? Perché mi hai mentito?».
«Che accade, signora?» Dice Bettie «È solo una bambina impertinente, ne può trovare due così anche a casa mia».
«Signora» dico chiaramente «le sembra un viaggio normale, questo? Sono stata prelevata, dico prelevata, quasi di peso, dal mio ristorante, e mi ritrovo in questa compagnia, senza alcuna informazione, con quest’uomo muto come una tomba, il signore che vede qui sul pavimento, Dio sa perché, e una bambina tedesca. E saremmo ancora a Londra? Che razza di rapimento è questo, in pieno giorno? Lei non parlerà mai, eh?» Dico infuriata all’uomo in bianco.

«Signora, la prego. Da fuori questa sembrava una normale carrozza pubblica, non c’è motivo di allarmarsi. Non penso che ci sia di mezzo un rapimento».
«E perché non riesco a vedere fuori, se non per impedirmi di sapere dove stiamo andando?» quasi grido. La mia disperazione ha ammutolito tutti, mi viene quasi da piangere.
«Mi scusi, cara, per un attimo mi era balenato in mente che stessimo andando tutti in visita da una delle mie amiche, sa? Due mie grandi amiche abitano fuori Londra, verso Ovest. Poteva…poteva essere una bella idea, e avrebbe spiegato tutto».

«E in che modo, cara? Come potremmo noi quattro, dico io, il signore in bianco, la bambina, il signore peculiare qui sotto, essere con lei in una carrozza che la portasse in visita a un’amica, di cui noi nulla sappiamo?” “Perché sarebbe stato uno scherzo non male, mia cara!» dico con voce sottile.
«Il signore, qui, in bianco, sarebbe l’incaricato dello scherzo. Il signore in basso, lo vede da sola, è un attore consumato. Lei e la bambina potreste essere altri figuranti, oppure…una cuoca, delle parenti».
Bettie si era un po’ adombrata: «Mi scusi se le do della serva, ma il suo abito…».
«Non si preoccupi, lei è molto scossa, lady Moorgrove».
«Grazie per la sua comprensione. Come sa il mio nome?».

Ma non ci fu tempo.

«Grosvenor!» urla il signore sul pavimento: «Ecco dove scendere. Un mazzo di mughetto e tre rose. Signore!».
L’uomo in bianco batte una volta col bastone, la carrozza si ferma, vedo l’uomo stravagante uscire dalla carrozza, nell’aria polverosa e accecante. Poi lo sportello si richiude. La desolazione cala su di me.
Una vera vigliaccata, come vi dicevo.

Mi sento stanca, avvilita da questa colossale congiura.

«Bettie, da Grosvenor a Milbury non c’è molta strada. Tra poco scenderà anche lei».

«Oh, credo scenderemo tutti, signora».
«Non capisco».
«È per lei che siamo venuti».
«Per me?».
«Sì. La sua esecuzione. Lady Moorgrove, non può non saperlo. Le hanno anche trovato il veleno in casa. Povero suo marito! Tutta Londra verrà a vedere. A Milbury, alle tre».
«La mia…» guardo i miei compagni uno a uno.
La bambina stringe il suo taccuino da disegno.
Disegnerà me, lassù sul patibolo, per qualche giornale tedesco?

La mia esecuzione. Me ne ero completamente dimenticata. Sapete che mi perdo facilmente nei miei pensieri. In effetti sembra quadrare. «E perché il signore qui in basso, invece, è appena sceso?».
«Sarà un po’ matto, ecco tutto» mi dice Bettie con un sorriso.

«Millbury!» grida Bettie entusiasta.
Da lì in poi sento tutto ovattato.
Il bastone del signore in bianco, le mani che mi spingono fuori, non so più di chi, la forca che si staglia lassù contro il sole in un cielo assurdamente limpido.