di Cristi Marcì
Illustrazione di Redazione
Una volta atterrato non sapevo cosa aspettarmi, ricordo soltanto che dall’oblò dell’aereo che mi stava riportando da te, un sole splendente sembrava divertirsi con i suoi raggi e i suoi giochi di luce. Quasi a voler rendere un po’ più luminoso quel sentiero che in cuor nostro ignoravamo dove avrebbe portato.
Sin dalle prime ore della mattina, quel giorno di ottobre sembrava non finire mai, eppure mi hai sempre detto che “proprio nella stasi risiede il movimento, con la differenza che non sempre siamo disposti a coglierlo”.
Volendo omaggiare quella che per te era una tra le tante regole, la numero 125 se non vado errato, posso confermarti che sono in piedi dalle 7:00, in movimento dalle 8:00 e che la mia corsa non si è mica conclusa alle 18.30 (ora locale) come annunciato dallo steward di bordo di questo volo Ryanair. Il quale, continuando con i soliti rituali, dà il benvenuto a noi passeggeri in una delle città più belle e al contempo più brutte dalla quale non sei mai riuscito a decollare.
Un termine che a pensarci bene ci ha accompagnato in tanti momenti durante questi ventotto anni; quando ad esempio sei venuto a trovarmi con la mamma la prima volta a Bucarest; oppure ancora quando mi hai trasmesso l’importanza dei viaggi puntualmente fatti ad agosto, rimarcando come “ci rendessero liberi”. Per poi a volte scendere in picchiata durante le mie paure dei vent’anni che a differenza di quelle adolescenziali erano una vera palestra di vita.
Mentre maneggio con cura tutti questi ricordi, in maniera automatica e senza che me ne sia reso conto, mi trovo già sul pullman diretto verso il centro città, che come sempre è ben lieto di farsi trovare sporco e trasandato. Puntuale biglietto da visita di una metropoli sporca e caotica dalla quale tantissime volte mi hai ammonito di scappare, perché ricca di quella futile cultura e tuttavia sempre pronta a farsi vanto di un’arte sempre più in declino.
Appoggiato al finestrino del pullman, con impresso a caratteri cubitali il logo Prestia e Comandè, mi sento cullato seppur in lontananza dal nostro mare azzurro, che a più riprese mi hai insegnato ad osservare, ad ascoltare e a svuotarsi gentilmente dei suoi tesori, dei suoi ricci e delle sue splendide conchiglie.
Ora, in questo preciso istante è un po’ mosso: il vento che lo accarezza non sembra dei migliori, eppure è del tutto in sintonia con questa nuova trama alla quale abbiamo affidato l’ingrato compito di raccontare e raccontarci nel mentre che io ero a Milano e tu prigioniero a Palermo.
Sentendoci come sempre, prima per messaggi e poi a voce, ti ho percepito felice e forse (è un azzardo) un po’ sereno. Ma non voglio sbilanciarmi più di tanto, perché voglio essere cauto.
Soprattutto con le parole che sembrano avere esaurito il loro potenziale.
A dirla tutta credo che a poco siano servite e che difficilmente abbiano scongiurato le mie paure e le tue preoccupazioni. Perché in una situazione del genere come si può pensare di non averne? Di non esserne invaso e a volte perfino soffocato?
Tante, troppe parole che però non mi hanno impedito di tornare da te.
Nel frattempo, ti abbraccio papà, forse per l’ultima volta.