di
Annalisa Maniscalco
Non rifletteva più nessuna faccia,
nessuna mano a ravviare chiome,
nessuna porta dirimpetto,
nulla cui possa darsi il nome
«luogo».
Proprio quando il 409 sta per lasciare il capolinea (Tiburtina FS, annunciano i led sul parabrezza), dall’hangar di legno che credevo abbandonato si precipita fuori un ragazzo. Ha un turbante scomposto intorno al viso e un involto discinto tra le braccia; si lancia contro la porta anteriore del bus e la picchietta di colpi decisi, ravvicinati. L’autista lo fissa in silenzio, poi soffia in un sospiro la sua magnanimità.
Con un movimento fluido, il ragazzo sale sul bus, aggira l’obliteratrice e si arrampica in cima a una ruota, in quello spazio senza sedile né dignità che resta deserto anche all’ora di punta. Sistema l’involto ai suoi piedi, pasticciando un po’ con le pezze che lo avvolgono, e una lama di luce accende il soffitto del bus.
Il tempo di un’istante; poi un aereo passa davanti al sole e il fagotto di pezze si smorza di colpo.
Batto le palpebre. L’avrò visto davvero?
Il 409 guada la Tuscolana e defluisce lungo via di Porta Furba. Sembra di passare un varco dimensionale, come quello dell’arco di Coppedè, il tunnel di graffiti tra Quadraro vecchio e nuovo, l’arcano di laterizi del Mandrione. Il ragazzo incrocia le gambe e, senza aggiustarsi il turbante che gli pende di lato, si volta verso il finestrino. Seduto così, le mani grandi sulle ginocchia, il profilo severo contro la luce del vetro, l’involto di stracci ai piedi come un mistero disseppellito, ricorda l’eroe di una fiaba mediorientale: un principe persiano in tuta acetata e sandali di plastica. La luce sbriciolata dagli ailanti in fiore irrompe nel bus e si concentra tutta intorno al fagotto di coperte — ma forse è solo la mia curiosità che ne sottolinea le forme, ne esalta i contorni.
Il bus approda a Torpignattara: qui sopravvivono le cabine telefoniche, i muri non nascondono le rughe dell’intonaco né i capelli bianchi dei cavi volanti. Salgono in molti, dai colori di spezie e terre bruciate; un uomo, più pallido e nostrano degli altri, avvista il ragazzo sul suo trono di ruota e lo punta deciso.
Lo avrà scambiato per qualcuno — Sindbad? Aladino? —: si sporge verso di lui e dalla maretta delle spalle capisco che lo sta apostrofando, con voce affilata ma sommessa. Un platano da fuori rabbuia l’aria, il riflesso sul finestrino si ottunde mentre il ragazzo si gira a rispondere, in un sussurro che è poco più che silenzio.
Ma ecco: l’albero tramonta e l’involto di pezze manda un altro lampo, che oscura il fondale convulso della Casilina.
L’uomo pallido sobbalza, si ritrae verso la porta di mezzo e scalpita, come su un ponte di legno, finché il bus non si ferma davanti ad un pronto soccorso; allora, senza voltarsi indietro, l’uomo svicola tra le porte e caracolla via.
Da qui in poi, il sollievo: la strada è più ampia, con i suoi alti e bassi di condomini e catapecchie. Questo settore di città appare anonimo, a chi ci passa e basta; ma da qualcosa — forse i germogli sui balconi — si avverte che chi ci vive ama questi intonaci, e fa sentire estranei quanti ne attraversano l’intimità.
Per un po’ non succede nulla; dopo Largo Preneste, altra via consolare, altro incrocio decisivo, con le iscrizioni Per grazia ricevuta, altro passaggio in mezzo al niente fino a un accostamento bizzarro: da un lato il Qube, dall’altro la locomotiva del deposito RFI. Poi il bus inciampa in una radice di pino: uno scampolo dell’involto appassisce, si sfoglia e, per la terza volta, una luce sventaglia le pareti.
Il ragazzo si illumina e si china a coprire quell’improvvisa nudità, ma ormai l’ho visto: lo spigolo di uno specchio con la cornice intarsiata.
È allora che, all’altezza di Casal Bertone, sul bus sale una ragazza slava, carica di sacchetti — pannoloni per anziani, pannolini per neonati.
Si ferma vicino alle porte centrali, il viso rivolto al principe persiano; ha la sua età ma colori opposti ai suoi — che però, per qualche ragione, parlano di lui: sabbia e cielo terso, sandalo e maiolica. Il 409 avanza a stento e la ragazza per tutto il tempo guarda il principe, con insistenza.
E lo fissa finché, nei pressi dell’Archivio di Stato (qui si stampavano i fotoromanzi), lui percepisce il suo sguardo; esita, poi si decide e, alla fine, le sorride: un sorriso di sbieco, timido e regale insieme.
La ragazza non risponde, ma nemmeno distoglie gli occhi: immobile, il ritratto di un paesaggio boreale.
Continua a scrutarlo, ancora, fredda e ostinata come un vento d’inverno, fino al deposito ATAC di Portonaccio, e la cosa si fa insostenibile persino per me che li osservo a distanza. Allora il principe imbraccia lo specchio, se lo aggiusta sulle ginocchia e si rannicchia tra cornice e finestrino. Un lembo delle coperte scivola e scopre la crepa che sfigura la superficie antica dello specchio.
La ragazza si guarda, si vede, e la crepa del vetro le apre nel riflesso un taglio sul cuore.
Quella vista la smuove e la spinge via, gli occhi duri e pungenti come le infiorescenze di ghiaccio alle finestre; e, voltandosi, mi sorvola col suo sguardo smarrito, equivoco, strabico: bellissimo.
Il ragazzo, dietro il suo scudo, le cerca gli occhi e non li trova più.
Ma il 409 rallenta, è la mia fermata: e finisce così, almeno per me, all’incrocio con un’altra via consolare, gli specchi della stazione Tiburtina a incorniciare l’orizzonte. Supero la ragazza slava, scendo dal bus, non resisto: mi guardo indietro, incontro gli occhi del principe — neri e diritti come due pozzi — e la vedo.
La vedo, e capisco il drappeggio sbieco del turbante, il sobbalzo dell’uomo pallido, la reticenza del sorriso e la cura con cui il ragazzo tratta lo specchio, nonostante la crepa — o forse proprio per la crepa, che gliela raddoppia e gliela nasconde.
Che gli raddoppia e nasconde una brutta, recente cicatrice sulla guancia.
Finisce così?
La ragazza slava si affaccia alle porte che stanno per chiudersi, fa un respiro profondo e dirotta intorno lo sguardo: esita, poi si decide e, alla fine, non scende.
Non rifletteva più nessuna faccia,
nessuna mano a ravviare chiome,
nessuna porta dirimpetto,
nulla cui possa darsi il nome
«luogo».W. Szymborska, Lo specchio