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di
Sabrina Sciabica

 

«Il 2 arriva, stia tranquilla. É che dopo le 21 il servizio è ridotto…».

«Speriamo! Prima che piova di brutto» rispose la signora corrucciata che sembrava guardare una partita di ping-pong tra il suo orologio e la linea del tram.

Doveva essere una turista, dedusse il vecchietto con la bombetta di colore nero, in contrasto col bianco dei capelli, che aveva iniziato la conversazione dopo un’osservazione silenziosa. Doveva aver camminato tutto il giorno, con scarpe impolverate stile ortopedico, punta larga e tacchetto basso, continuava a dedurre l’acuto osservatore.

«Calabresi dunque, i signori, e l’udienza è stata piacevole?»

A quel punto la donna smise col ping-pong e, come battendo un servizio con la racchetta da tennis, voltò rigidamente la metà superiore del busto grassoccio e, sbalordita verso l’uomo distinto che l’aveva interrogata: «Ma lei come lo sa?»

«Signori miei, così stanchi e spazientiti, sapete quanti ne ho visti di pellegrini quando impettito resistevo ore e ore, alternando mani congiunte alla tenuta della lunga alabarda, sempre indossando l’elegante basco da Guardia Svizzera!? In più oggi è mercoledì, e voi portate un rosario ad anello. Suo marito, poi, è così stanco che fissa il vuoto».

«Complimenti» disse ridendo il signore a fianco, che fino ad allora era stato immobile con le braccia conserte dietro la schiena.

«Uhhh vuoi un passaggio baby?» fece il vecchietto indicando i binari.

«Matri Matri ma cos’è?» urlò lei.

«Signora cara – un attimo di sospensione e con voce suadente riprese – un succi i cunnuttu, una zoccola, volgarmente detto topo, altresì ratto o topo di fogna, da non confondere con quello di campagna, che ha appena attraversato i binari. Ma non prende il tram. Mi ha appena risposto che preferisce andare a piedi. Eccolo, su, saliamo!»

Un attimo dopo l’attraversamento del topo, i tre salirono a bordo.

«E dove alloggiano i signori?» aveva chiesto con allegria il vecchierello.

«Al “b&b del Ponte” a Ponte Milvio» risposero.

Flaminio recitava, intanto, la voce registrata del tram.

«Tre stelle, prezzo medio, non brilla per pulizia ma per il personale cortese. Scusate… deformazione professionale, ero un valutatore della Novotel

«Ma non faceva la Guardia Svizzera?» Sussurrò lei, preoccupata per le condizioni della residenza prescelta.

«Ponte Milvio è il ponte più antico di Roma, risale al 200 a. C.» continuò l’anziano. «Ho un amico che vi abita. La sua zona si chiama Villaggio Olimpico, perché fu costruito poco prima del sessanta in previsione delle Olimpiadi, come alloggi per gli atleti. Dovete sapere che ci fu un inverno particolarmente piovoso, era il 2008 e il Tevere, che passa sotto Ponte Milvio, quell’anno straripò più volte».

Ministero Marina recitava, intanto, la voce registrata del tram.

La coppia si era seduta nei sedili a due mentre l’anziano signore, mantenendo teatralmente la sua bombetta in testa, si era seduto di fianco e guardava un po’ la strada e un po’ gli altri passeggeri che ascoltavano curiosi. A ciò si aggiungeva il tic di sollevare la spalla destra abbassando contemporaneamente il collo, come volendo ammiccare a qualcuno.

«Saprete sicuramente che Roma fu costruita su sette colli ma oltre ai sette famosi, anche le periferie sono piene di sali e scendi e proprio qui vicino c’è un dislivello notevole a distanza di pochi chilometri. E questo, lo insegnavo ai miei studenti, quando ero titolare di cattedra di Storia e Filosofia, alla Sapienza».

E qui la coppia sussurrò con aria interrogativa «Ma come, era valutatore di hotel?!».

«Anche questa zona del Villaggio Olimpico, vicinissima al vostro b&b, è più bassa rispetto al livello del fiume».

Flaminia Belle Arti recitava, intanto, la voce registrata del tram.

«Dunque era l’inverno del 2008» continuò l’eccentrico vecchietto «e il mio amico era tornato a casa verso le 8.30 di sera, dopo aver aspettato un’ora questo tram che, per via della pioggia, era stato rallentato. Era fradicio, si era spogliato e tolto i calzini zuppi lanciandoli in aria e camminando a piedi nudi da una stanza all’altra. A un certo punto, confuso e stanchissimo, si buttò sul divano per riprendersi».

Ankara Tiziano recitava, intanto, la voce registrata del tram.

«Fu proprio dal divano che sentì quello strano rumore. Oltre al rumore, percepiva una presenza, sebbene non fosse un suono proveniente da fuori, di questo era certo. Anzi, non era affatto un suono, più un fruscìo. Poi il silenzio e poi di nuovo fruscìo, insieme a rumore di acqua che si muove. Si alzò, perché lui viveva a casa da solo e le finestre erano chiuse, ne era sicuro, non era entrata acqua in casa. Ancora a intermittenza il rumore continuava e lui lo seguì sempre più attento per capire da dove provenisse. Si era aggiunto anche un rantolo lamentoso e indescrivibile che, anch’esso, a tratti, svaniva per poi ripetersi. Il mio amico camminò quatto quatto fino al corridoio e… prima stanza nulla, seconda stanza nulla, si avviò verso l’ultima, il bagno. Poiché proveniva proprio da lì».

Apollodoro recitava, intanto, la voce registrata del tram.

Dopo due secondi di sospensione, con voce più profonda, l’oratore riprese: «Una creatura della grandezza di una mano con due occhi microscopici e una coda sottile che sembrava lunga mezzo metro. Con le zampe scure si teneva aggrappato al water, dopo aver risalito le condotte degli scarichi o le vie sotterranee del fiume, e ne usciva, mentre il mio amico entrava nel bagno. Si guardarono negli occhi per qualche istante, dopodiché la creatura, portandosi appresso acqua lurida sgocciolante dal suo pelo irto, strisciava viscidamente nel pavimento a pochi millimetri dai suoi piedi nudi».

E a quel punto l’arzillo uomo scattò in piedi facendo sobbalzare gli spettatori e, piroettando verso le porte, urlò: «Buona serata signori miei, scendete alla prossima fermata e mi raccomando… richiudete il water dopo l’utilizzo!».

Scese con aria soddisfatta mentre la signora tratteneva a stento il disgusto stringendo nervosamente il braccio del marito che, intanto, rideva a crepapelle.

 

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di
Federico Cirillo

 

23- Fermate Pincherle/Marconi – Marconi/Pincherle

Quella partita non fu una partita qualsiasi, fu una partita che lasciò agli spettatori il compito di stabilire dov’era il confine tra la memoria e la leggenda…
(Edson Arantes do Nascimento, Pelè)

1942 – La guerra imperversa, l’Italia è divisa, lacerata, ferita ma non ancora morta. L’Italia calcistica, soprattutto, è bloccata dagli eventi: i combattimenti, infatti, hanno imposto il cessate le partite, strappando via sogni e speranze di cuoio vestite. Eppure vi era ancora, nascosta e celata, voglia di calcio, quello vero che sbuccia le ginocchia, quello che rompe le tute e le toppe sopra le tute. Quello fatto di terriccio e pali delle porte che sono felpe ammassate a sei passi le une dalle altre… quello della partita Pincherle/Marconi – Marconi/Pincherle per intenderci.
Così, proprio mentre dalla Patagonia soffiavano voci di un mondiale fantasma, ai piedi dell’Ostiense, Roma, c’era aria di derby…
Bombe in lontananza, il ventre, anzi i ventri di Roma si aprono ovunque. Aerei che sfrecciano, radiogiornali che riportano bollettini del conflitto.
Lorenzo, Pietro, Paolo, Sebastiano e Andrea Marconi sono i cinque fratelli più piccoli della numerosissima famiglia Marconi.
Claudio, Giulio, Adriano, Augusto e Cesare, invece, sono rispettivamente i tre gemelli Pincherle e i loro due cugini.
Il teatro è il campetto di fango, terra molliccia e polvere di una zona nascosta dell’Ostiense, ai piedi della Basilica di San Paolo. In palio il pallone di pezze e stracci confezionato da mamma Rosa e mamma Letizia, le due donne delle due rispettive case, sarte entrambe. Chi vince avrà pallone e Gloria, la ragazzina più bella del quartiere della quale i due rispettivi capitani (Lorenzo e Claudio) sono follemente innamorati (lei non lo sa e magari alla fine non li degnerà comunque di uno sguardo, ma chi vince può provare a chiederle di tenerle la mano mentre l’accompagna a casa dopo che è scesa dal 23…).
L’allarme di una bomba caduta, probabilmente poco lontano, dà il via al match. Tira vento freddo e il pallone ne risente: le due donne hanno usato indumenti e stracci estivi, sacrificabili in inverno, tanto il piccolo Marco Marconi indossa sempre lo stesso maglione: tre anni e mezzo, scampato alla poliomelite, osserva un po’ sbilenco la partita mentre si gusta il sapore acro e salato del suo indice.
Lorenzo prende in mano le redini del gioco, macina il campo come aratro fa con le messi; scarta come un fulmine gli avversari e sembra un giovane Silvio Piola. A 9 anni ne dimostrava già 12, ora che ne ha 10 ne dimostra 11, sembra infermabile, irraggiungibile da tutti, un Girardengo del pallone… per tutti ma non per Claudio Pincherle, lo stopper/libero dei Pincherle appunto. È il più esperto di tutti perché da giovane ha giocato per due mesi nella squadra locale, poi un infortunio al piede ne ha limitato la crescita, tanto che non può più tirare d’esterno e, da allora, fa il difensore: con Lorenzo è sfida aperta, lo blocca e riparte come baio selvaggio.
Le ali Adriano e Augusto sono mingherline – la pellagra li ha fortunatamente solo sfiorati – e rapide e anche se perdono tutti i contrasti hanno nel lancio la loro arma migliore: spesso insieme al pallone parte una scarpa senza lacci e per l’avversario sono dolori. Il cross di Augusto è perfetto, Cesare si traveste da Levratto tira e… gol?
«’N’ ce prova’ a Ce’, è passata troppo sopra, è fori!»
«Maddechè, ahò quello sei te che hai le braccia corte…»
«Vabbè decidiamo a morra, vinci tu, rigore pe’ voi, vinco io palla nostra».
La morra: Cesare ha nel sasso il suo punto forte, d’altronde la mano destra ha solo 3 dita, 2 saltarono con un petardo scagliato lo scorso capodanno troppo in ritardo; Sebastiano, il portiere prova il tutto per tutto con la forbice «magari scaglio, che me vo’ frega’»: rigore per i Pincherle, gol, Cesare non perdona.
Lorenzo rosica; Claudio se la ride e dà uno sguardo veloce a Gloria che passa di lì insieme a Bianca e non se li fila di striscio; Lorenzo rosica ancora di più; Sebastiano accenna uno «scusa»; Marco continua a succhiarsi l’indice.
Palla al centro 1-0. Il capitano Marconi non ci sta, scambia con Pietro, triangola con Paolo e prima di entrare in area, sbraca letteralmente di fisico Claudio e tira ‘na pezza: Giulio ci prova, ci mette la mano, si spezza un’unghia, s’accavalla il medio, la mano si piega… gol 1-1. Palla al centro. Gloria di nuovo in bilico.
Fiati sospesi, il sole, opaco e bianco latte, inizia a dare i primi cenni di ombratura. Il freddo diventa più pungente, ma le tute servono per i pali. Fango, polvere, scarpe rotte che volano, ginocchia sbucciate, gambe incrostate, toppe. La sirena… lunga, lunghissima, interminabile. L’aereo, vicino, basso, grigio e rumoroso. La bomba, vicina, troppo vicina…
…il confine tra memoria e leggenda: Pincherle/Marconi 1-1.

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di
Federico Cirillo

 

Freddo. Sonno. Sonno, freddo e poca voglia di vivere: come ogni giorno dopo la domenica, è di nuovo il lunedì più lunedì dell’intera settimana. Potevo rimane a letto, mi inventavo ‘na febbre, un malanno, la tosse, ‘na meningite. Ce credevano pure – sbadiglio – considerando che a Garbatella c’è stato il caso della scuola che…ah il 23. Freddo, pure sul 23.
Quanto è lunga Ostiense stamattina. Ancora dobbiamo affacciarci a Piramide che già c’è un po’ di traffico che blocca la circolazione e dà semaforo verde alle bestemmie. «…man, you’ve got to be sincere…If you’re really sincere (parara) If you’re really sincere (parara) If you feel it in here Then it’s gotta be right Oh, baby! Oh, honey Hug me, suffer… che dicono questi?». Via le cuffie; via Birdie dalle orecchie (peccato mi stavo a fomenta) e via, proiettato nell’ennesima puntata de I cazzi degli altri:
«… che l’ha detto davvero!» chiosa l’anziano con la coppola.
«Ma ne è sicuro?» chiede il ragazzo con il Montgomery blu, aggiungendo «Magari ha sentito male…».
«No, no – rincara la vecchina con due buste in mano – l’ho sentito pur’io, ma tanto io scendo a Piramide, che me frega».
«L’ha detto davero, l’ho sentito bene. È come dice il signore» rincara un omone grassoccio dagli zigomi arrossiti dal freddo e un naso troppo schiacciato che lo rende buffo data la stazza.
«Ma che ha detto? – domanda una ragazza incuriosita, come me, dal vociare insolito e preoccupato.
«Me sa che ha detto… quella cosa, quella dell’Isi» specifica l’anziano con la coppola, abbassando lo sguardo e il tono di voce. Il capannello si scuote – insieme al 23 che si immette sulla sfilza di Lungoteveri – e diventa tutto uno scattar nervoso di teste alla ricerca dell’eventuale ayatollah.
«Ma chi? Chi è stato?» «Oddio mo’ esplodemo»
«Signò ma lei non doveva scenne?»
«E mo’ so’ curiosa de capi’ chi è! Famme un favore giovino’, se sposti un po’ così guardo meglio in fondo, so’ bassina sa…io nun vedo…manco un arabo».
«Ma no, no, non vi fate sgama’… me pare è uno un po’ tarchiatello… scuretto, occhiali da sceicco tipo… parla tutto strano ma quella cosa l’ha detta so sicuro»
«E se se fa esplode davvero?? Che famo??»
«Eh, e che famo? O scennemo o morimo… io però devo arriva’ al Vaticano, mortacci sua, ma proprio sul 23? N’s’è mai sentito su»
«Noo, e quello sicuro – colpo di genio del giovane studente targato Lumsa – se fa esplode al Vaticano cazzo. Sicuro» «Allora scennemo alla fermata prima… così io vado a lavoro tranquillo e famo pure du foto a… no vabbè meglio non pensacce».
«Oddio, oddio… – la ragazza adesso è bianca come un cencio – l’ha ridetto, ad alta voce, al telefono… l’ho… l’ho sentito bene. Fatemi scendere… accosti – bussando sul vetro dell’autista –accosti».
«Sì, scendo anche io, non voglio mori’ sull’atac, già è ‘na bara nei giorni normali, figurati se la voglio come ultima immagine».
«Sì, andiamo e fammi di’ su facebook che sto bene, sennò si preoccupano».
«Su che?».
«Su facebook signo’, il social che…» e scendono ad uno degli innumerevoli lungotevere.

Mi giro e mi guardo intorno. Il 23 si è svuotato, c’è pure posto a sedere. Intanto dal fondo un uomo tarchiato, scuretto di carnagione, ampie e folte sopracciglia e dei Rayban neri, concitato parla al telefono mentre si avvicina alla porta del bus. L’attentatore, l’ayatollah! penso e adesso ce l’ho davanti e riesco ad ascoltare perfettamente la sua voce, la sua cadenza e il suo tono: «…allà, t’aggia ritt’ allà! ALLÀ A’O BBAR ce verimm uagliò, quante volte te l’aggia spiega’?» e preso dalla stizza di chi non riesce a farsi capire al telefono, Salvatore Ascione, docente di letteratura anglo americana alla John Cabot University, originario di Ercolano, scese con passo svelto ostacolato dal lungo giaccone nero.