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di
Federico Cirillo

Come ogni sera, il 23 riportava stralci di umanità alle proprie case.
Come ogni sera verso le 21, affreschi di vita incrociavano momentaneamente i propri destini dentro quell’autobus. Come ogni sera, sul 23 salivano ritratti di esistenza che arrivavano precisi ad un appuntamento con gli altri: un appuntamento mai preso e per questo spesso rispettato.

Ma quella sera era San Valentino, la festa dell’amore, anche se i passeggeri avevano più l’aria del santo nel momento del suo martirio. Mattia odiava quella festa: che palle portarla sempre fuori a cena per forza (“Ma è San Valentino amore!” diceva sempre). Almeno st’anno me so’evitato la cena, pensava all’altezza di Marmorata/Galvani, Mattia, continuando a toccarsi la gamba dolorante per il post-partita.

 «Mortacci Cla’, ancora me fa male la gamba: quel pezzo demmerda m’è caduto addosso pesante!», disse strattonando Claudio che aveva da poco chiuso gli occchi.

Claudio si girò con la bocca impastata di sonno: «Uhm, guarda che sei te che sei uscito “a valanga”, je stavi quasi a rompe la tibia a quer poraccio».

 «Che cazzo dici? Me pari l’arbitro! Quello m’è piombato addosso quando il pallone ce l’avevo già io, era carica a Cla’, altro che fallo».

«Sè vabbè, Matti’, era fallo…l’abbiamo visto pure noi, dai. Ma poi che cazzo t’ha detto la testa de usci’ così fori dall’area? Pure tiro libero contro ci hai fatto prende. Te devi da’ una calmata Matti’. ’St’anno so già 5 ammonizioni che te pijii, o pe’ fa’ ste uscite o perché devi sbrocca’ all’arbitro. E abbiamo fatto 8 partite. Da quando te sei… vabbè su, lascia sta’».

 «Da quando me so’ cosa?» scattò Mattia. Si conoscevano dall’infanzia e Claudio sapeva di aver toccato un nervo scoperto. «A parte il fatto che de quelle 5 ammonizioni, 3 so’ molto contestabili…non ho capito, finisci la frase: da quando me so’?».

 «Dai Matti’ lo sai, da quando te sei lasciato co’ Valeria sei strano, nervoso. Sbrocchi pe tutto e co tutti: hai attaccato ’na polemica con l’arbitro prima dell’inizio per il fatto che se dovevamo mette noi le casacche…che poi te sei il portiere e manco te la mettevi. E su!».

«Ma che c’entra Cla’, quello è perché me dà fastidio che ‘n se vede lo sponsor de papà. Ma poi che cazzo c’entra Valeria? Che me frega de Valeria? Quella stronza. Anzi proprio oggi so contento che nun devo anna a quella cazzo de cena de San Valentino der cazzo».

 «Appunto» chiosò Claudio, rigirandosi verso il finestrino «e smettila de magnatte le unghie, che schifo» aggiunse irritato.

Il silenzio, accompagnato dal rosichìo nervoso di Mattia, si impossessò nuovamente del 23, lasciando spazio ai rumori di fondo.

Fu allora che Mattia la vide.

«Ao, ma quella?» fece Mattia, ridestando di nuovo Claudio con una gomitata mentre il bus rallentava sull’Ostiense «Guarda che gnocca, Cla’!»

Indicò fuori dal bus un finestrone ben illuminato della palestra che, sul lato opposto della strada, pullulava di vita fitness. Claudio si girò di scatto.

 «Ma chi? La bionda? A Matti’ ma me sa che…».

 «Sì, sì… la bionda! Davanti alla finestra, attaccata alla colonna. Guarda Clà! M’ha visto, me sta a guarda’! Guarda che canottierina che c’ha, co’ tutta la panza de fori! La devo conosce Clà, questo è un segno del destino, proprio stasera che sto da solo dopo…beh…dopo tutti l’anni co Valeria, quella stronza. J’assomija pure, però ammazza se è più fica de Valeria, aoh me guarda Clà…dai scendiamo, scendiamo cazzo, la devo vede’ da vicino, la devo conosce, dai dai». Il viso gli si era tutto acceso e si era spostato verso le porte centrali spingendo freneticamente la richiesta di fermata.

 «Ma che scende Matti’, è fica, ok ma è…» disse Claudio tentando invano di trattenerlo.

«Bella! No fica Cla’, bella!» lo interruppe Mattia offeso «Ti pregherei di sciacquarti la bocca quando parli della donna mia! Dai scendiamo, daiiii».

 «’A donna tua? Ma te sei scemo. Dai che palle Matti’ ma non lo vedi che è…vabbè vaffanculo scendiamo ma ce vai da solo! E pijate la borsa tua, cazzo!» disse Claudio sbattendogli la borsa del calcetto che aveva trascinato fino alle porte.

«Ok, come sto?» chiese tutto eccitato Mattia aggiustandosi i capelli alla fermata e appoggiando i guanti da portiere sul borsone «vabbè ’sti cazzi, tanto è sudata pure lei.  Guarda quanto è bella, me continua a guarda’, sicuro che non vieni?»

 «None! Te credo che te guarda, è na f… »

«Ho detto che non devi parla’ così della donna mia! Fata, si dice è una fata, ok?»

 «No Matti’, intendevo, che è ’na f…»

Mattia già attraversava tutta l’Ostiense preso da un fomento innaturale: «Me lo dici dopo, guardame la borsa» urlò a Claudio correndo «20 euro che me dà il numero?»

Dall’altra parte Claudio urlò di rimando «20 euro che fai ’na figura demmerda?»

 «Annata!» sputò fuori Mattia entrando nella palestra.

Fu tutto rapido e (non) indolore. La ragazza bionda attaccata alla colonna che guardava fisso verso l’esterno. Claudio attaccato di schiena al palo della fermata, in attesa del successivo 23. Mattia che arriva in sala accompagnato da un istruttore. Mattia che arriva accanto alla ragazza. L’istruttore che ride. I frequentatori della sala che ridono indicando Mattia. Mattia che abbassa la testa, si gira sconsolato e torna sui suoi passi. La ragazza bionda che, sempre attaccata alla colonna, guarda sempre fisso all’esterno. Mattia che torna da Claudio, lemme lemme.

«Me devi 20 euro» fece Claudio, secco.

 «Te li do domani. Però me lo potevi di’ che era ‘n poster, ’na cazzo de foto pubblicitaria».

 «C’ho provato, nun m’hai fatto parla’, stavi infojato. Ultimamente ‘n te se pò di’ gnente, da quando…vabbè famo che me ne dai 10. Sali va.».

In silenzio, risalirono sul 23 successivo che, ancora più vuoto di quello di prima, li ospitò senza giudicare.

«Che poi Valeria» disse Mattia con un filo di voce «era pure più fica».

 «Beh, di certo era più in HD».

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di
Matteuccia Francisci

 

Micol Mezzanotte

Sesso: F

Età: 28 (al momento della scomparsa)

Corporatura: normale

Statura: 170 cm

Occhi: verdi

Capelli: neri

Scomparsa da: Roma

Data della scomparsa: 01/11/2018

Data pubblicazione: 19/11/2018

Micol Mezzanotte, 28 anni, viveva a Roma, da sola. Il 1 ottobre 2018 stava andando al lavoro, ma non ci è mai arrivata. Il suo numero di telefono risulta non essere mai stato attivo e la compagnia telefonica non sa spiegarsi la cosa. Una testimone afferma di averla vista a Piazza Vittorio con un uomo nei pressi della Porta Alchemica, ma non è in grado di fornire una descrizione dell’uomo che era con lei. Gli amici, trovando il numero di telefono sempre staccato, come se non fosse mai esistito, si sono allarmati e hanno chiamato le forze dell’ordine. Le indagini sono ancora in corso, ma la donna sembra letteralmente svanita nel nulla. Chiunque abbia notizie o creda di averla vista, è pregato urgentemente di mettersi in contatto con la trasmissione.

Federica Sciarelli, con il consueto tono serio serio che ben si confà all’infinita serie di potenziali disgrazie e mancati approfondimenti di indagini di cui si occupa quotidianamente, parla al telefono con un uomo. Lui dice di averla vista, che sta bene, ma non vuole dire dove sia. La sua voce è bassa, stentorea, la Sciarelli è spesso costretta a chiedergli di ripetere quanto ha detto.

Seduto al buio, davanti alla televisione, Tommaso sorride impercettibilmente e dice a bassa voce: «Tempus ridet, brevi rodet», poi riaggancia e spegne la tv.

«Andiamo, Kebab, è ora di dormire». Un grosso micio tigrato, con un orecchio mangiucchiato e la coda mozzata, apre pigramente gli occhi verdi, si tira su e si stira.

«Miao?»

«No, non ti troveranno mai

 

[torna al Capitolo #02]

 

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di
Matteuccia Francisci

 

Piazza Vittorio è sporca di brutto e i giardini sembrano abbandonati a sé stessi da troppo tempo.

«Una volta l’Esquilino era il luogo dove le streghe si procuravano i cadaveri per i loro filtri e altre diavolerie. Qui ci stavano le fosse comuni» dice l’uomo camminando, anzi quasi saltellando. «Del resto a Piazza del Popolo facevano i sabba infernali. Tutti pensano che Torino sia una città magica, ma Roma non ha nulla da invidiarle

«Questione di marketing» dico io, passando accanto a una serie di personaggi improbabili, nessuno dei quali sembra avere mai avuto una casa, dei genitori, dei parenti o degli amici. E neppure dei vestiti puliti. Lui guarda verso l’alto, passa saltellando in mezzo a questa umanità disperata come se non gli interessasse. O non esistesse.

«Questione di saper custodire i segreti» mi dice voltandosi, e sorride.

«Io mi chiamo Micol, tu?» mi decido a dire mentre cerco di stargli dietro.

Che cavolo ha da correre così, e perché diavolo lo sto seguendo?

«Tommaso. Perché sei scesa?»

«Voglio venire alla porta.»

«Perché?»

«Forse, per andare di là.»

Ma la porta è circondata dalle sbarre, non si può entrare.

«Che peccato, eh?» dice Tommaso guardandomi dall’alto in basso con i suoi occhi azzurri, che ora mi sembrano vagamente folli. «Solo i gatti e le gattare possono entrare, ci sta una colonia là dentro.»

Vedo una donna che sta armeggiando con ciotole e bottiglie di plastica piene di acqua, circondata da una ventina di gatti circa.

Anche io sono una gattara, penso. Mi sporgo dalle sbarre e le chiedo se posso entrare a guardare i gatti, le racconto della colonia che mi sono ritrovata appioppata come la santità di Padre Maronno. Poi, facile facile, le chiedo il nome del gatto più brutto che sta lì. Mi dice che si chiama Kebab, perché va sempre a mangiare dal kebabbaro lì vicino. E mi dice di fare il giro.

Tommaso mi sorride e dice: «Molto brava», quasi fosse stato un esercizio svolto.

Entriamo e, dopo aver accarezzato Kebab per bene, cammino verso la porta. Non so bene cosa fare, ho letto su Wikipedia la storia del Marchese Palombara, i simboli incisi e i motti che li accompagnano. La porta mi domina col suo occhio che non vede e tutto il suo corredo di misteriose allusioni. Cerco di leggere i motti, so qual è il verso in cui vanno letti ma li intravedo appena, il tempo li ha quasi cancellati. Mi guardo intorno, è tutto così poco suggestivo: l’erba alta, le foglie cadute, e oltre le sbarre la sciatteria della città, dell’anima di chi la abita. Eppure continuo a guardarla.

«Che ne pensi?» mi chiede Tommaso.

«Boh, mi aspettavo qualcosa di più…non so…»

«Magico?» suggerisce lui.

«Sì, forse. È bella, ma qui è tutto così mal tenuto che sembra quasi una cosa buttata là e dimenticata.»

«Tutte le cose importanti stanno così. È in questo modo che si conservano. Nel nascondimento

«Tu sei mai entrato?»

«No. Vuoi provare tu? Si sedes non is

[continua – Capitolo #03]

[torna al Capitolo #01]

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di
Matteuccia Francisci

 

«È un bel libro, vero?»

La voce alla mia destra ha una lunga barba bianca e due occhi azzurri. Sembra Donald Sutherland.

«Sì, molto bello» rispondo, per niente sorpresa. Non sono molti quelli che leggono Arthur Machen, e meno che mai sulla Metro A alle otto e trenta di mattina. Anche io mi metterei a parlare con qualcuno che lo stesse leggendo accanto a me.

PROSSIMA FERMATA LUCIO SESTIO. USCITA LATO, SINISTRO

Cioè, stava tutta agitata che non aveva studiato Eraclito allora j’ho detto:scialla, entriamo alla seconda ora…

«Ma secondo lei Machen cosa farebbe succedere a chi dice“scialla”? Gli manderebbe gli Angeli di Mons?» dico guardandolo sorridendo, e a lui brillano gli occhi appena dico“Mons”.

«Pensa che agli angeli di Mons potrebbe interessare occuparsi di simili cose?»

PROSSIMA FERMATA PORTA FURBA. USCITA LATO, SINISTRO

«No, non credo. Magari li potremmo mandare in Siria».

«Mah, forse lì sarebbe meglio mandarci direttamente il dio Pan».

«Un sano ritorno al paganesimo non ci farebbe male, lei che dice?»

Stasera pensavo di cucinare l’arrosto però non so se riesco a passare in macelleria, sennò forse ho della pasta sfoglia in frigo potrei fare una torta salata veloce con gli spinaci che sono avanzati ieri, ah ricordati di passare in tintoria a prendere il piumone…pronto? Mi senti? Pronto?!

PROSSIMA FERMATA RE DI ROMA. USCITA LATO, DESTRO

«Qualcuno diceva che quando abbiamo smesso di credere nel soprannaturale siamo caduti nelle nevrosi.»

«È come stare in questo vagone per sempre

«Per fortuna abbiamo Machen.»

PROSSIMA FERMATA VITTORIO EMANUELE. USCITA LATO, DESTRO

«Io scendo alla prossima. È stato un piacere conoscerla.»

«Anche per me» e poi aggiungo, sorridendo: «Va alla Porta Magica

Mi guarda veloce da sotto gli occhiali con un sorriso sbieco nascosto dalla barba, si aprono le porte e poi mi dice: «Ci vediamo di là».

Scendo anche io.

[continua – Capitolo #02]

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di
Stefano Pupazzi

Faccio petizione, Signora Sindaca, urgente e accorata petizione.

Mica contro gli immigrati, Signora Sindaca; non contro gli sbevazzoni della movida.
Io faccio petizione contro i ciccioni, ecco.
Sì, perché il problema è diventato pesante (è il caso di dirlo).

Che fastidio mi danno le trippe? Glielo spiego subito, e credo che Lei potrà trarne profitto: se non sbaglio ha qualche grana con l’azienda dei trasporti… Mi chiede che ci azzecca il lardo con gli autobus, vero? Mi faccia esporre i miei argomenti con calma e saprà.

Lei forse non immagina quale squisita esperienza estetica sia per me prendere i mezzi la mattina. Ogni giorno io prendo il 20 e mi ritrovo immerso nell’arte: mi si fanno dinnanzi ridondanti matrone, veneri callipigie; vedo le pance fiamminghe dei piccoli borghesi e i visi incitrulliti dei putti di Botero. E soffoco, fra seni felliniani e cosce elefantiache. Tutto ciò, Signora Sindaca, mi capita quando riesco a salire; non è raro, però, che un muro adiposo mi costringa ad attendere l’autobus successivo.

Dunque? Dunque c’è un problema di spazio: perché le persone normali come me devono arrivare tardi al lavoro o, comunque, rischiare l’asfissia? Non Le dico poi l’olezzo di stallatico emanato da alcuni dei nostri ben pasciuti amici.

Tutto qui? No, Signora Sindaca, io non penso solo a lamentarmi; io ho in mente qualcosa di grande per la nostra azienda di trasporti. E allora mi ascolti: offriamo ai cicciabomba una bella cura dimagrante. Forzata, ovviamente. Si tratterebbe di fare una liposuzione obbligatoria a chiunque sia in sovrappeso (scelga Lei i parametri per definire che cosa si intenda per persona in sovrappeso: un aficionado di Pitran, un frequentatore seriale di fast food ecc.).

Vedrà allora che lo spazio negli autobus sarà di nuovo sufficiente: questo vuol dire che non ci sarà bisogno di aumentare la flotta (son paoli sparambiati, badi bene) e che tutti arriveremo puntuali al lavoro (con conseguente aumento del PIL). Ma siccome non si butta niente, io ho un’altra proposta da farLe: usiamo il grasso raccolto per lubrificare i motori degli autobus, così magari non prenderanno fuoco dopo una settimana di utilizzo (nessuna polemica, per carità).

Ecco perché faccio petizione, Signora Sindaca: perché io voglio trasformare i problemi in opportunità.

Cordialmente Suo,

Stefano Pupazzi

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di
Matteuccia Francisci

 

L’uomo in giacca e cravatta è molto stanco. È venuto a Roma per chiudere un contratto e non c’è riuscito. Piove ed è già buio, quando arriverà a casa sua a Rovigo sua figlia starà dormendo.

«Mi sto perdendo gli anni migliori di mia figlia» pensa.

«Però è vero che Roma è bella quando piove, come dice la canzone» dice al tassista che lo sta portando alla stazione Termini.

«Roma è bella sempre» gli risponde il tassista «Come dice il gladiatore? Roma è la luce».

«Eh, a proposito di luce, ieri sera camminavo per i vicoli del centro storico e mi hanno detto che hanno sostituito le luci con le lampadine a led»

«Lassamo perde, ha visto quanto so’ brutte? Sembra de sta’ in discoteca. Oppure all’obitorio. La notte deve essere buia, se illumini tutto cosa ti resta da immaginare?»

Addirittura, pensa l’uomo in giacca, ho incontrato il tassista filosofo.

«Beh, però con la luce uno si sente più al sicuro no? E poi con le lampadine a led si risparmiano un sacco di soldi» tenta di controbattere.

Errore, a quel punto il tono del tassista si alza.

«Ma al sicuro de che? Ma risparmia de che? Qua se so’ magnati tutto e mo’ vonno risparmia’ du sordi illuminando la città come fosse Tokyo? Ma qua mica stamo ‘n Giappone, qua ce camminavano imperatori, pittori, scultori, regine. Ma come fai a mettere il nuovo in una città che è storia in ogni sasso? Come fai a immaginatte de cammina’ vicino a Michelangelo se stai sotto ‘na luce che pare n’interogatorio de polizia? E ‘nnamo su. E poi le lampade del centro storico se le rivendono sulle bancarelle. Robba da chiodi.»

L’uomo in giacca è stanco, l’uomo in giacca abita a Rovigo. Che è proprio brutta, si dice tra sé e sé.
L’uomo in giacca sa che ora deve prendere un treno e tornare in un posto brutto. Dove vive bene, e dove troverà i grandi amori della sua vita, sua moglie e sua figlia, ma che è proprio brutto a confronto di Roma.

Quando a Rovigo piove, l’uomo in giacca si sente marcio dentro, mentre adesso che passa per le strade bagnate di Roma, pur stando dentro al taxi si sente come parte di un tutto.

«Ma nessuno dice niente?» chiede al tassista.

«Certo, tutti si sono ribellati, come al solito qua non è colpa de nessuno, nun se sa chi ha ordinato cosa. Roma è ‘na caciara dotto’. Ma è abituata, de qua so’ passati tutti e tutto, Roma sopporta».

«Certo, certo» l’uomo in giacca è sempre più stanco e si è ricordato perché non si è mai voluto trasferire a Roma pur dovendoci venire molto spesso per lavoro. È questa prosopopea romanesca che gli ha sempre dato fastidio, questo vivere nel passato, in una gloria ormai passata. E basta, pensa l’uomo in giacca, siamo nel 2017 e Michelangelo è morto da un sacco di tempo. Le lampadine a led fanno risparmiare e magari riuscite a tappa’ qualcuna di queste buche che il tassista sembra conoscere una per una visto che le prende tutte.

«Che poi, dotto’, er buio è il fondamento dell’amore» continua il tassista, ormai inarrestabile nei suoi filosofeggiamenti.

«In che senso?» chiede l’uomo, mentre si slaccia la cravatta a pois. Sta pensando di non metterla più, sta pensando che porta sfortuna, che avrebbe dovuto mettere quella rosa. Con quella sì che avrebbe chiuso il contratto.

«Ma lei lo sa quante pischelle me so’ caricato nei vicoli bui de Roma quann’ero ragazzo? Quelli de oggi che fanno, je fanno la visita odontoiatrica co ‘ste luci bianche da ospedale?»

L’uomo in giacca ride. Una risata larga, liberatoria, che gli distende il diaframma. E si ricorda perché ama venire a Roma. Qualunque cosa succeda, si diverte sempre, si fa sempre un sacco di risate con i romani.

«Voi romani siete come le donne, non puoi vivere con loro ma neanche senza».

«Se ride pe’ nun piagne, dotto’. Ecco, semo arrivati, so’ 35 euro».

Eh, fate piangere gli altri con queste tariffe, pensa l’uomo in giacca.

«Arrivederci, la prossima volta che vengo voglio andare a vedere queste bancarelle, magari riesco a portarmi un po’di luce romana a Rovigo»

«Quanno vole dotto’, c’ho un cugino che lavora all’ACEA, m’ha detto che se ne volevo una me la procurava senza problemi, le lascio il mio numero».

L’uomo in giacca si rimette a ridere, mentre prende il biglietto dell’uomo che gridando allo scempio della sua città ne fa merce allo stesso tempo.

Ma forse ha ragione lui, Roma è ‘na caciara ma è abituata.

 

Questi sono gli articoli che hanno ispirato il racconto: 

Se le lanterne storiche (rimpiazzate dai led) vanno a Porta Portese

Le «Lanterne Roma» sostituite da anonime lampadine a led. La consigliera dei Radicali Naim: «Roma è Città storica e patrimonio Unesco, nessuno ha chiesto pareri»

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di
Leonardo Vigoni


Come al solito
, sali sull’autobus delle 7:35 e, come al solito, siedi al tuo posto (è uno dei quattro in fondo all’autobus, meglio se nel verso di marcia).

Poggi il piede destro tra i due sedili davanti a te e sfili l’iPod dalla tasca sinistra con la mano opposta.
Lo fai scivolare dall’alto sotto la maglietta tenendo le cuffiette ai lati del collo – ognuna nel verso giusto – e lo accendi. Come al solito, conti i quattro secondi e mezzo che impiega per accendersi, resetti il brano in esecuzione, alzi il volume di due, mandi in play come al solito dal tasto laterale, alzi nuovamente il volume – questa volta fino al massimo – e, come al solito, lo riponi nella stessa tasca con il jack rivolto a sinistra.

Come al solito, sistemi lo zaino davanti a te, cinghie allo schienale.

La lampo più grande è chiusa simmetricamente rispetto alle altre? Sì.
Le stringhe scendono dritte ai lati? Sì.

Lo hai posizionato esattame … Diavolo! Possibile che quel tipo al posto dietro l’autista con i capelli rasati e un neo a due terzi tra l’orecchio e l’asta destra dei suoi occhiali blu notte poggiati sulla testa non sia in grado di non ripetere io ogni otto parole (tredici quando il tono della voce è più basso)?! Dannazione, ti ha pure distratto.

E per non farti mancare nulla, una goccia di condensa è caduta dal sistema di areazione dritta sul tuo maglione marrone, creando una macchia più scura larga almeno cinque fibre. Considerando la forza con cui è caduta e risalendo alla sua probabile dimensione originaria, prevedi che si allarghi di almeno due fibre per lato.

Quell’uomo seduto al posto dei disabili che è salito tre fermate prima non si è nemmeno accorto che la sua cravatta ha una piega a sinistra del nodo. Deve essere un principiante; probabilmente è anche destrorso. Sì, le unghie della mano destra lo confermano. Sono tagliate in modo disgustoso.

Finalmente l’egoista ha interrotto la chiamata. Deve aver commesso qualcosa di grosso: non fa altro che sfregarsi la mano, ora.

E questa vecchia seduta davanti a te vicino al finestrino? Accidenti, capisco che non hai un’anima a farti compagnia e vuoi parlare “di tuo marito morto nella Battaglia di Vittorio Veneto il 26 ottobre durante i festeggiamenti per aver respinto gli invasori”. Peccato che tu soffra di demenza senile e sia fuggita da una casa di cura. Il braccialetto al tuo polso ne porta anche il nome. Ah, tanto per la cronaca: la battaglia è terminata il 4 novembre, dunque cercati un’altra storia.

E quei tre alle porte centrali? Andiamo, che urto i fidanzatini talmente innamorati da non rendersi conto di come la propria compagna sia invece innamorata di un altro – proprio del terzo della compagnia, a quanto pare… fratello di lui? In fondo lo spessore delle labbra è lo stesso e le sopracciglia sono uguali; entrambi, poi, hanno gli occhi azzurri chiazzati di rosso, sintomo di un albinismo oculare difficile da scambiare per coincidenza.

Dio… ancora dieci fermate! Questa mattina è un’agonia. Quella donna accanto alle porte se non chiude immediatamente quella borsetta che lascia intravedere quell’assorbente rosa, farà una brutta fine.

E quell’idiota dell’impiegatuccio annodatore-incapace che ha dimenticato il portafogli sul sedile?
Andiamo, Cristo, è troppo facile così! E quando è troppo facile non ti diverti, ma piuttosto cazzo ti imbestialisci!

Oh sì, se ti imbestialisci… e lo sai cosa succede quando accade, sì?!

Devono tutti ringraziarti, però… l’assassino-per-caso egoista che ha finalmente mostrato i calzini bianchi macchiati di sangue ancora fresco… la signorina adultera che tradisce il compagno addirittura con il fratello, il quale – mi dispiace, tesoro – è un omosessuale con tendenze suicide (i tagli sui polsi ti eccitano? Che pervertita!)… per non parlare di quella lì, che va al lavoro fingendo di avere il ciclo per salvarsi dalle ramanzine del capo! Ci vai già a letto, vero bellezza? O vuoi dirmi che quella cravatta nella borsa è tua?! La nonnina, poi, non la devi nemmeno considerare: dal colorito della sclera le puoi dare un’altra settimana prima che il tumore le mangi il cervello e cada in coma, se la fortuna è dalla sua parte.

Beh, almeno una ricompensa ce l’hai: è il portafogli dell’impiegatuccio. Ora ti alzi e lo prendi, così scopri dove abita. Ma guarda… il documento è di un altro! Divertente…

Facciamo così: appena torniamo a casa, io e te, e riprendiamo la pistola che da idiota hai lasciato all’ingresso, prenderò io il controllo e farò una visitina al fortunato che si è fatto derubare da qualcuno che con quelle mani farebbe meglio a farsi un nodo scorsoio attorno al collo con la cravatta …

Un caricatore sarebbe bastato, se l’avessimo avuta con noi fin dall’inizio?

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di
Annalisa Maniscalco

 

«Lasci stare la ragazza.»

Ha la stessa età di mia figlia, realizzò Morelli, e strinse di più la presa.

L’uomo lo fissò interdetto, lo sguardo colmo di una strana, smisurata dolcezza. Morelli, di colpo dubbioso, lo lasciò andare, ma non si arrese: «È passato senza biglietto, devo farle la multa».

«Ho l’abbonamento, solo che… l’ho lasciato a casa

Morelli sbuffò, ma l’uomo pareva sincero.

«Facevo due passi sotto al mio vecchio liceo» spiegò. «Sono andato in pensione un mese fa, e avevo, non so dirle, nostalgia».

Morelli, impietoso, compilava il verbale.

«A volte andavo a scuola a piedi, specie in una giornata così, ha visto che sole?» tentò l’uomo, invano. «Ma oggi, fuori da quel cancello, per la prima volta mi sono sentito… stanco. Così ho deciso di prendere la metro; e quando sono arrivato qui ho scoperto di non avere la tessera».

Alcuni ragazzi rallentarono, cincischiando ai varchi e ridacchiando fra loro.

«Sono solo quattro fermate» mormorò l’uomo.

«Non c’entra» ribatté Morelli, a voce alta per farsi sentire dagli studenti. «Una, quattro oppure cento, lei ha commesso una violazione. Avanti» abbaiò ai ragazzi, «passate e liberate quei tornelli.»

«Non se la prenda» gli bisbigliò l’uomo, «ce l’hanno con me: il vecchio professore colto sul fatto

Morelli lo guardò. Quell’uomo era in pensione da un mese e ancora non si rassegnava. Qualcosa, all’improvviso, glielo avvicinò: specie ora che la sua vita ricominciava, a cinquant’anni suonati, neanche Morelli osava pensare al giorno in cui avrebbe dovuto lasciare il lavoro.

«Senta» concesse infine «io non posso non farle la multa. Ma se lei va a prendere l’abbonamento e me lo porta qui entro due ore, vedrò di annullarle il verbale».

Un sorriso minuto si insinuò tra le rughe dell’uomo. Dichiarò le proprie generalità senza esitare, e un paio di studenti, salutandolo, ne confermarono il nome.

 

Il nome che campeggia sul verbale della multa.

Il 502 percorre un viale Don Bosco fitto di automobili. Morelli, che da ragazzo frequentava quel quartiere, ricorda quando la linea A della metro era ancora in costruzione, e il tram sferragliava dove ora s’aggrumano i parcheggi. Il tram: lo aveva preso con una ragazza, lungo la stessa direzione, in un giorno di gennaio 1980; erano le ultime corse di quella linea, lui era giovane e non lavorava ancora per l’Azienda.

Sorrise tra sé e sé, perché quel giorno erano saliti senza biglietto.

L’aveva incontrata davanti agli studi di Cinecittà: lei sognava di diventare attrice, e nel frattempo faceva la comparsa. Morelli aveva finto di riconoscerla, di averla vista in un film di Comencini, e lei, lusingata, si era lasciata offrire un caffè.

Si chiamava Marina. Avevano parlato a lungo, sempre più vicini, poi lui l’aveva convinta a farsi accompagnare a casa. Sul tram avevano giocato a indovinarsi le battute dei film, e Morelli si divertiva a depistarla perché il sorriso di lei, dopo il cruccio, era come il profumo del pane quando si svolta un angolo. A piazza dei Tribuni erano scesi saltando dal predellino, e la gonna di Marina si era sollevata per una folata di vento

 

«Attento…!»

Morelli si sbilancia in avanti e sente il vuoto nelle budella. Poi, all’ultimo, uno strappo, e si ritrova tra le braccia polverose di un operaio.

Ai suoi piedi, una voragine oscura lo attira dal cuore dell’asfalto.

«Per poco non s’ammazza» esclama l’operaio.

Il sangue di Morelli si diluisce, disertandogli il volto. Si rimette sui suoi piedi e si allontana incespicando.

Marina, pensa per calmare il cuore, Marina! Ma ha la vertigine nelle viscere e il sudore nel colletto. Abbiamo vagato per il quartiere, ripete tra sé, cercando un panorama che non esiste più. Davanti alla sua porta l’ho baciata come in un film, ricorda, le labbra secche. Cinque anni dopo ci siamo sposati, si consola invano, annaspando.

E ora, Marina se n’è andata via.

 

Morelli batte le palpebre per mettere a fuoco il verbale, insegue il civico del multato, si arena davanti a un gradino. Nulla più di una ruga di pietra, ma è il primo di una scala che si inabissa verso un seminterrato.

Le mani di Morelli tremano senza scampo. È per la pensione, si incoraggia, ma dentro di sé si divincola: la scala gli sembra il buco in cui prima stava precipitando. Ho passato i miei migliori anni sottoterra, si ripete, ma quel pensiero, per la prima volta, gli suona nero: perché è per questo che Marina lo ha lasciato.

È per mia figlia, e per il suo bambino, tenta infine, stringendo i pugni, e si convince.

In fondo alla scala c’è un vecchio cancello, che cigola ma si lascia aprire. Poi, una porta socchiusa: Morelli bussa e spalanca il buio.

Il pavimento scricchiola di detriti; gli interruttori non rispondono. Morelli sblocca il tablet con dita malferme e la multa rischiara un disordine inerte, antico.

«Professore» chiama Morelli con voce che cede.

Silenzio. L’aria è spessa di deserto e d’abbandono.

Sul tavolo impolverato, qualcuno ha posato un mazzo di chiavi, come se contasse di riprenderlo di lì a poco.

Sul muro, un po’ sbilenco, un calendario del 2011.

Poi, dal buio emerge il profilo solido di un divano, con un’ombra immobile rannicchiata intorno a un bracciolo.

Un’ombra scavata, distorta, troppo ferma, con indosso un soprabito leggero: di quelli che si portano a primavera, nelle giornate di sole.

Tra le dita consumate, la ricevuta pallida di una multa, e un vecchio abbonamento della metro.

 

«È lei che ci ha chiamati?»

«Sì.»

«Lo conosceva?»

«Non proprio.»

Aveva l’età che ho io adesso, pensa di colpo Morelli, e si stringe nella giacca.

«Perché era a casa sua, allora?»

«Per quella multa. Per riscuoterla

Ma il professore è morto prima di pagarla. La scientifica, il giudice, il liquidatore: ci vorrà del tempo.

Molto tempo.

Il commissario lo osserva. «Si sente meglio, adesso?»

Morelli espira. La sua pensione può aspettare.

«Meglio, sì.»

Il commissario lo lascia andare. Morelli si è appena avviato quando il poliziotto lo richiama.

«Sa se c’è qualcuno che possiamo avvertire?»

L’auricolare di Morelli si mette a vibrare. È sua figlia.

Io sono l’ultimo che lo ha visto vivo, realizza Morelli, col ricevitore che gli trema insieme alle dita.

Io sono l’unico che è venuto a cercarlo.

Morelli scuote la testa e se ne va, il cuore vivo e spaccato in fondo al petto.

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di
Annalisa Maniscalco

 

«Resta solo una vecchia questione» dice l’impiegata, fissando il monitor.

«Come sarebbe a dire» esclama Massimo Morelli, controllore del trasporto pubblico cittadino.

«È quasi tutto a posto» lo blandisce la donna, «salvo…»

«Impossibile.»

«…una multa del 2011…»

«Il mio stato di servizio è impeccabile.»

«…mai pagata

Morelli sente che le sue mani hanno ripreso a tremare. Gli capita sempre più spesso, ultimamente. Per punirle, le sprofonda nelle tasche.

Inspira. «Lei saprà di certo suggerirmi la soluzione

«Non io» si schermisce l’impiegata, «ma le ultime direttive della sua Azienda. Il pensionamento viene approvato solo se non ci sono pendenze».

Morelli alza gli occhi al cielo: «Sono passati solo dieci anni, del resto».

«Ci sarà pure un ufficio di recupero crediti.»

«Ci sarebbe. Ma vede» ammette Morelli, e per la prima volta esita, «devo proprio andarci, in pensione

L’impiegata lo guarda di sottecchi e Morelli sente che, dopotutto, quella donna ha pietà di lui.

«Risolverò la cosa» annuncia, raddrizzandosi. «La riscuoterò di persona.»

 

«Ecco, lo sapevo.»

«Stai tranquilla, ti dico. Sto già andando a cercare il multato

In piedi a una fermata dei bus, l’auricolare ben calcato in un orecchio, Morelli sblocca il tablet, apre il verbale della multa, confronta l’indirizzo con i toponimi sulla palina e decide per il 502, direzione Tribuni.

«Si può sapere chi è questo stronzo?»

«Francesca, abbassa la voce» sibila Morelli nell’auricolare. «Chi vuoi che sia, un poveraccio. Il nome non mi dice niente.»

«Vabbè, mi chiamano per l’ecografia. Trovalo e sistema la faccenda, ti voglio libero e pensionato entro la trentaseiesima settimana. Papà» aggiunge, di colpo mormorando «almeno tu… ci conto».

Morelli si toglie l’auricolare, ignorando le dita che tremano. Il suo respiro si è fatto corto ma, pur di non ammetterlo, si convince che i lacci delle scarpe si sono allentati, e solo per questo si autorizza a sedersi sotto la pensilina. Quando lacci e respiro sono tornati a posto, Morelli si concentra sui dati del multato: nato a Roma dieci anni prima di lui, pensionato. Fin qui, tutti dati irrilevanti; ma è la data del verbale a colpirlo — un lunedì di primavera del 2011 — perché Morelli riconosce il primo giorno del suo reimpiego sul campo.

Stai a vedere, pensa, che questa è stata la mia prima multa.

 

Dieci anni prima, la carriera di Morelli aveva registrato una svolta. L’Azienda, in crisi profonda, aveva coinvolto fino all’ultima risorsa per risollevarsi: ogni multa comminata era un gradino della lunga scala che doveva portare tutti fuori dal burrone. Morelli, bloccato da anni nello stesso paludoso ufficio, inviso ai colleghi per la sua puntigliosità, aveva colto al balzo l’occasione per farsi reimpiegare; l’Azienda gli aveva affidato i varchi della metro e lì Morelli si era distinto grazie a doti fino ad allora inespresse: individuava con un’occhiata i contravventori, agiva con slancio e a dovere, mai stanco della missione, mai rassegnato al disordine. Così, giorno dopo giorno, ai tornelli di questa o quella stazione, affrontando la folla che sciamava nei tunnel, Morelli si era sentito come se gli avessero dato le ali, e gli avessero spalancato una finestra.

 

Arriva il 502; il controllore sale e, per deformazione professionale, cerca lo sguardo dei viaggiatori, per scoprire quel disagio un po’ umido con cui si manifesta il torto; ma il bus a quest’ora viaggia vuoto. Allora Morelli prende posto vicino al finestrino, apprezzando l’ampiezza del vetro, la luce che lascia filtrare, nonostante le impronte di pioggia fuori e, dentro, le tracce di fronti ignote.

La sua carriera era decollata quando l’Azienda lo aveva promosso ai mezzi di superficie, dove si annidano i furbetti più inveterati, quelli che contano sull’assenza dei tornelli per farla franca. Morelli, inflessibile con chi si ostinava a infrangere una regola tanto chiara — ma come si fa, pensava, a essere così cretini! — aveva dispensato multe senza appello, accettando i doppi turni al posto dei colleghi e arrivando ad aggiudicarsi un premio aziendale.

Ma ormai i contributi erano maturi, il bambino di sua figlia era in arrivo, e quelle maledette mani tremavano sempre più spesso, da quando sua moglie, stanca di aspettarlo, lo aveva lasciato per un collega meno zelante.

 

Morelli respinge quel pensiero, respira a fondo finché le dita si calmano un poco, e ricostruisce il suo primo giorno sotto la metro.

Quel lunedì i suoi colleghi, più per calcolo che per cortesia — l’Azienda prometteva il rinnovo del contratto ai controllori più rigorosi —, lo avevano messo a guardia degli ingressi, perché la sua presenza ricordasse agli utenti di munirsi del biglietto. Quando ormai Morelli disperava di poter dimostrare il suo valore, dai vicini licei si era riversata nei tunnel una turba di adolescenti sudaticci e famelici, disarmonici e ostili. Ma anche questi avevano tutti l’abbonamento, e lo esibivano con irriverenza, lanciandosi gridolini da un tornello all’altro.

«Ammazza aoh, i controllori pure oggi! Se vede proprio che stanno nella merda!» aveva bisbigliato un ragazzo biondiccio, ma in modo che Morelli sentisse, dando di gomito a un coetaneo irto di brufoli.

«’Sti morti de fame» aveva confermato il compare, che mostrava l’abbonamento con dita molli, tenendolo sottosopra.

Morelli soffiava dal naso e cercava una preda, per far vedere a quei mocciosi di cosa era capace. Fu allora che notò quell’uomo: attempato, dimesso, insospettabile, con un movimento sinuoso si era accodato a una studentessa e, il corpo incollato alla sua schiena, il naso premuto sulla sua nuca, le mani chissà dove, aveva eluso il tornello approfittando del passaggio di lei.

Lo stupore per un’infrazione così spudorata, l’imbarazzo per una scena che puzzava di viscido, e l’impressione che il tutto si fosse svolto sotto i suoi occhi, ostentatamente, nonostante lui, erano deflagrati, nell’animo frustrato di Morelli, in un impeto incontenibile di rivalsa. Aveva lasciato che l’uomo lo superasse, a occhi bassi e sulla scia della ragazza; poi, con uno scatto da leonessa, l’aveva ghermito per il gomito e l’aveva costretto a voltarsi.

 

[continua – Parte seconda]

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di
Sabrina Sciabica

 

«Mi ha tradito. Cristiano mi ha tradito» diceva in modo concitato Katia parlando con Debora, sul 60. «Dopo che ho lasciato Giuliano pe’ stare co’ lui, dopo che ho interrotto co’ Paolo per farlo felice, solo perché ieri sera ho rivisto il mio ex, Giovanni. E poi perché Giovanni aveva lasciato Maria e aveva bisogno di parlare co’ qualcuno… e così Cristiano mi ha fatto il dispetto».

«Dài, non puoi saperlo, Cì, anche di Giovanni lo dicevi e invece era rimasto a dormire da su’ sorella» cercava di calmarla l’amica. Io le ascoltavo attentamente e tenevo le cuffiette attaccate al cellulare per far credere che ascoltassi musica. Sapevo già di Giovanni, di Giuliano, ma di Cristiano non ancora! Le vedevo quasi tutte le mattine, belle, super truccate, artigli rossi e tacco 10, impiegate alle poste, brave lavoratrici, sempre puntuali, leggermente pettegole, decisamente istintive, vita sociale a mille.

«Da su’ sorella? Fino alle 3 del mattino? E col rossetto sulla camicia? E quel profumo, poi… era così stanco che me l’ha pure lasciata là sulla lavatrice e apposta stamattina ho capito tutto. Ma vedrà. Se ne pentirà. Nun ha capito che noi donne abbiamo mille poteri. Sta ancora a dormì, e quanno me chiama nun rispondo proprio. Mo’ ce penso io. Mo’ ce penso proprio io. Se lo sogna di stare ancora da me. Mo’ vedrai, vedrai. Vedraaaaaaaaai!» terminava, sottolineando la “a”.

«Ambè, se è così! Eppure, Cì, io da lui popo popo nun me l’aspettavo! Valli a capì st’omini. Ma che vogliono di più? La solita storia: anvedi che stronzi!»

E no! Porca paletta, stanno già scendendo a Regina Margherita, è venerdì, e domani non le becco, mannaggia!

Come ogni lunedì mattina aspetto il 60, triste più che mai perché Giacomo non si è fatto sentire tutto il week-end e il mio cellulare è stato silenzioso, a parte le chiamate di mamma per raccontarle che non ho fatto niente per ben due giorni di seguito. Vita sociale zero. Eccolo! Ed eccole! Salgo curiosa. Oggi è strapieno, devo schivare un po’ di ragazzini prima di avvicinarmi a loro e indossare le solite cuffiette. «E insomma, e lui?» chiede Debora mentre penso che peccato, devo aver perso un bel pezzo del discorso.

Katia è più vaporosa e contenta del solito: «Cristiano prima dice che è colpa mia che è andato male il colloquio, che doveva prendersi il vestito buono che aveva da me e io non mi sono fatta trovare apposta, e così ha perso il posto da buttafuori perché c’aveva i jeans e questi avevano specificato di vestirsi bene».

Risate fragorose. «E ieri invece?» chiede Debora.

Katia mette un ghigno malefico e ricomincia: «Ieri pomeriggio, verso le sette, me richiama e me dice: “A Ka’, ma perché te stai a comportà così? Ho capito che ho esagerato con la storia del vestito, per averti dato colpe, ma ti ho chiesto scusa mille volte! Non ho capito perché stanotte non mi hai voluto. Ma comunque, devi venire qua a prendermi! Sto ’nguaiato, amo’! Non sai che m’è successo: mi’ fratello, che mi doveva accompagnare ad Ostia pe’ l’altro colloquio al Lido del suo amico, c’ha la febbre e m’ha detto prendite er motorino mio. Arrivo là e trovo tutto chiuso! Ho chiamato e dice che c’ha provato ad avvisamme ma oggi non riesce a venire, rimandiamo a quanno non lo so, forse domani. Insomma co’ la santa pazienza me rimetto sulla Via del Mare e sento ’na puzza e un rumore… manco il tempo di rendermi conto, che sto coso se ferma e non riparte più. Viemme a prende amo’, nun so chi chiama’!”».

«Ammazza, Cì! Brutto su ’a Via der Mare! E quindi, tu ce sei annata?» chiede sconvolta Debora.

E l’amica continua: «Ma che stai a di’, Deb? Io je faccio: “Chiedilo a tu’ sorella… no scusa eh, me senti? So’ da mi sorella, ma siamo andati al lago a prendere un gelato coi regazzini, ammazza quanto mi dispiace! E prova a chiama’ l’amici tua, dài. A Cristia’, aspe’, ma nun facciamo che porti ’n po’ sfiga? Ma c’hai fatto quarcosa? Che c’è quarcuna che te vole male, ’sto periodo? Me sembra ’na sfiga continua!”.

Lui: “Amo’, sei sicura che non potete veni’?”.

E io: “Eh no, teso’, e come vengo da Bracciano a Ostia? Fai prima a chiama’ tu’ padre”.

E lui: “Vabbè, famme chiude e vediamo. Ahh no, senti, n’artra cosa. Se questo mi chiama per torna’ domani, mi lasci le chiavi della Punto di tuo fratello? Senza motorino come ce torno qui, porco cane?”.

E io: “Ennò, amo’, proprio domani è il giorno che Antonio va in tipografia a Cecchina, se la porta tutto il giorno la macchina”.

E lui, subito: “Vabbè dài, ne parliamo meglio stasera, vengo pe’ cena”.

E io: “Ah no no, stasera rimango da mamma, stiamo tutti insieme, pure coi ragazzini, ti ho detto. Dài, ci sentiamo ’sti giorni. Senti a me, fidate, chiama subito quarcuno prima che te ’nvestono sulla Via del Mare!”.

E ho chiuso».

Tra lo sbigottimento di Debora e il divertimento di Katia, Mira, Sofia sin tu mirada, sigo, la suoneria di Katia, che scuote il sedere tutte le volte che le squilla il cellulare.

«’Spetta Deb, me stanno a chiama’… ah ma è Max! Lui sì che ce tiene! M’ha chiamato ieri. Separato, niente figli. Soprattutto figlio unico, niente sorelle per rimane’ a dormì. Dai, je chiedo se c’ha n’amico…»

Ma rispondendo scendono dal mezzo, le perdo di vista e… non ho il tempo di chiedere… se ’sto Max c’ha n’amico anche per me!!!

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di
Annalisa Maniscalco

 

Non rifletteva più nessuna faccia,
nessuna mano a ravviare chiome,
nessuna porta dirimpetto,
nulla cui possa darsi il nome
«luogo».

Proprio quando il 409 sta per lasciare il capolinea (Tiburtina FS, annunciano i led sul parabrezza), dall’hangar di legno che credevo abbandonato si precipita fuori un ragazzo. Ha un turbante scomposto intorno al viso e un involto discinto tra le braccia; si lancia contro la porta anteriore del bus e la picchietta di colpi decisi, ravvicinati. L’autista lo fissa in silenzio, poi soffia in un sospiro la sua magnanimità.

Con un movimento fluido, il ragazzo sale sul bus, aggira l’obliteratrice e si arrampica in cima a una ruota, in quello spazio senza sedile né dignità che resta deserto anche all’ora di punta. Sistema l’involto ai suoi piedi, pasticciando un po’ con le pezze che lo avvolgono, e una lama di luce accende il soffitto del bus.

Il tempo di un’istante; poi un aereo passa davanti al sole e il fagotto di pezze si smorza di colpo.

Batto le palpebre. L’avrò visto davvero?

Il 409 guada la Tuscolana e defluisce lungo via di Porta Furba. Sembra di passare un varco dimensionale, come quello dell’arco di Coppedè, il tunnel di graffiti tra Quadraro vecchio e nuovo, l’arcano di laterizi del Mandrione. Il ragazzo incrocia le gambe e, senza aggiustarsi il turbante che gli pende di lato, si volta verso il finestrino. Seduto così, le mani grandi sulle ginocchia, il profilo severo contro la luce del vetro, l’involto di stracci ai piedi come un mistero disseppellito, ricorda l’eroe di una fiaba mediorientale: un principe persiano in tuta acetata e sandali di plastica. La luce sbriciolata dagli ailanti in fiore irrompe nel bus e si concentra tutta intorno al fagotto di coperte — ma forse è solo la mia curiosità che ne sottolinea le forme, ne esalta i contorni.

Il bus approda a Torpignattara: qui sopravvivono le cabine telefoniche, i muri non nascondono le rughe dell’intonaco né i capelli bianchi dei cavi volanti. Salgono in molti, dai colori di spezie e terre bruciate; un uomo, più pallido e nostrano degli altri, avvista il ragazzo sul suo trono di ruota e lo punta deciso.
Lo avrà scambiato per qualcuno — Sindbad? Aladino? —: si sporge verso di lui e dalla maretta delle spalle capisco che lo sta apostrofando, con voce affilata ma sommessa. Un platano da fuori rabbuia l’aria, il riflesso sul finestrino si ottunde mentre il ragazzo si gira a rispondere, in un sussurro che è poco più che silenzio.
Ma ecco: l’albero tramonta e l’involto di pezze manda un altro lampo, che oscura il fondale convulso della Casilina.
L’uomo pallido sobbalza, si ritrae verso la porta di mezzo e scalpita, come su un ponte di legno, finché il bus non si ferma davanti ad un pronto soccorso; allora, senza voltarsi indietro, l’uomo svicola tra le porte e caracolla via.

Da qui in poi, il sollievo: la strada è più ampia, con i suoi alti e bassi di condomini e catapecchie. Questo settore di città appare anonimo, a chi ci passa e basta; ma da qualcosa — forse i germogli sui balconi — si avverte che chi ci vive ama questi intonaci, e fa sentire estranei quanti ne attraversano l’intimità.

Per un po’ non succede nulla; dopo Largo Preneste, altra via consolare, altro incrocio decisivo, con le iscrizioni Per grazia ricevuta, altro passaggio in mezzo al niente fino a un accostamento bizzarro: da un lato il Qube, dall’altro la locomotiva del deposito RFI. Poi il bus inciampa in una radice di pino: uno scampolo dell’involto appassisce, si sfoglia e, per la terza volta, una luce sventaglia le pareti.
Il ragazzo si illumina e si china a coprire quell’improvvisa nudità, ma ormai l’ho visto: lo spigolo di uno specchio con la cornice intarsiata.

È allora che, all’altezza di Casal Bertone, sul bus sale una ragazza slava, carica di sacchetti — pannoloni per anziani, pannolini per neonati.
Si ferma vicino alle porte centrali, il viso rivolto al principe persiano; ha la sua età ma colori opposti ai suoi — che però, per qualche ragione, parlano di lui: sabbia e cielo terso, sandalo e maiolica. Il 409 avanza a stento e la ragazza per tutto il tempo guarda il principe, con insistenza.

E lo fissa finché, nei pressi dell’Archivio di Stato (qui si stampavano i fotoromanzi), lui percepisce il suo sguardo; esita, poi si decide e, alla fine, le sorride: un sorriso di sbieco, timido e regale insieme.
La ragazza non risponde, ma nemmeno distoglie gli occhi: immobile, il ritratto di un paesaggio boreale.

Continua a scrutarlo, ancora, fredda e ostinata come un vento d’inverno, fino al deposito ATAC di Portonaccio, e la cosa si fa insostenibile persino per me che li osservo a distanza. Allora il principe imbraccia lo specchio, se lo aggiusta sulle ginocchia e si rannicchia tra cornice e finestrino. Un lembo delle coperte scivola e scopre la crepa che sfigura la superficie antica dello specchio.
La ragazza si guarda, si vede, e la crepa del vetro le apre nel riflesso un taglio sul cuore.
Quella vista la smuove e la spinge via, gli occhi duri e pungenti come le infiorescenze di ghiaccio alle finestre; e, voltandosi, mi sorvola col suo sguardo smarrito, equivoco, strabico: bellissimo.

Il ragazzo, dietro il suo scudo, le cerca gli occhi e non li trova più.

Ma il 409 rallenta, è la mia fermata: e finisce così, almeno per me, all’incrocio con un’altra via consolare, gli specchi della stazione Tiburtina a incorniciare l’orizzonte. Supero la ragazza slava, scendo dal bus, non resisto: mi guardo indietro, incontro gli occhi del principe — neri e diritti come due pozzi — e la vedo.

La vedo, e capisco il drappeggio sbieco del turbante, il sobbalzo dell’uomo pallido, la reticenza del sorriso e la cura con cui il ragazzo tratta lo specchio, nonostante la crepa — o forse proprio per la crepa, che gliela raddoppia e gliela nasconde.
Che gli raddoppia e nasconde una brutta, recente cicatrice sulla guancia.

Finisce così?

La ragazza slava si affaccia alle porte che stanno per chiudersi, fa un respiro profondo e dirotta intorno lo sguardo: esita, poi si decide e, alla fine, non scende.

Non rifletteva più nessuna faccia,
nessuna mano a ravviare chiome,
nessuna porta dirimpetto,
nulla cui possa darsi il nome
«luogo».

W. Szymborska, Lo specchio

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di
Arundo Donald

 

Nel breve tratto di strada il metabolismo urbano produceva e consumava una notevole energia.
Affollate vetrine, incalzanti mendicanti vestiti abbondanti, bambini, anziani, tutti concorrevano nel gorgoglioso ribollio natalizio.

“Proprio oggi che è Natale”, pensò Marco scrutando attento la strada e spostando con la mano il grasso dalla fronte fin sopra i capelli.

La fermata era gremita di figure. A Roma d’inverno in un attimo è notte, e così, improvvisamente, tutti si ritrovarono avvolti dalla sera. I lampioni coloravano i grandi palazzi e le persone, accecate dal caldo carosello, spasmodicamente diventavano falene.

Lontano apparve un autobus. Marco sperò che fosse il suo. Andava per uno. Pensieroso lasciò cadere il corpo contro il vetro che delimitava la fermata sentendolo tremare. Prese una mezza cicca e la riaccese. Poi la fece ruotare tra le dita e per un attimo fissò il filtro annerirsi sotto la carta.

“Pesci storditi” pensò, rivolgendo lo sguardo alla massa abbagliata e sempre più frenetica.

Adorava i pesci, li trovava umani.

Pensò che avrebbe fatto tardi alla cena. Questa volta aveva dato la sua parola.

Come arterie, sottili tappeti rossi disegnavano i marciapiedi ripuliti e un fiume d’insegne luminose minacciava scorrendo i primi piani dei palazzi. Una goccia sfiorò il viso di Marco concentrato. Intorno a lui diversi ombrelli avevano fatto capolino aprendosi alla sera.

“Ci mancava anche la pioggia”, pensò. Poi fu un attimo.

Le gocce s’infittirono e cominciarono a bagnare ogni cosa, non risparmiando le persone ammucchiate alla fermata. La strada fu violentemente svegliata, le vetrine si svuotarono assieme ai lunghi marciapiedi. Le falene erano sparite.

Marco fece caso al rumore che la pioggia produceva, agli odori che riportava al naso e ai suoi capelli bagnati. Il “92” era arrivato, aveva fatto Tombola!

Mentre l’autobus, pieno da far schifo, svelava una calca straziata, la gente dalla strada spingeva e imprecava. Travolto da un denso fiume, Marco fu trascinato a bordo.
“È fatta”, pensò.

Ora anche lui era paralizzato quasi da non muovere il diaframma. Nel bel mezzo regnava il silenzio. La spessa condensa e le persone collose ne temperavano l’ambiente interno e in quel microclima tutti vivevano il medesimo supplizio.

“Pesci Neon” pensò. Allevati in cattività, con luci artificiali e in spazi troppo affollati, quei pesci sono più soggetti alla morte, più restii all’accoppiamento e meno abili nel procurarsi il cibo.
Le vetrine, gli affollati marciapiedi, gli autobus, gli uffici. “Che fosse questa la stupidità della gente perbene?” 

Mancavano quattro fermate ancora e sarebbe arrivato a casa. Marco era provato, voleva sedersi e respirare aria pulita. Voleva poter muovere le braccia e le gambe e soprattutto, voleva rivedere i suoi amici. Voleva abbracciare la sua gente e festeggiare.

Alla fermata successiva molte persone scesero dall’autobus, permettendogli di respirare nuovamente. Quando le porte si erano aperte, per pochi secondi aveva sporto il naso e si era immaginato altrove.  

A fine corsa l’autobus lo lasciò al capolinea. Dopo pochi minuti a piedi Marco arrivò all’accampamento e poté poggiare le pesanti buste con la spesa che tanta fatica gli erano costate.

Non c’era musica né luci ad aspettarlo. Non c’erano donne a ballare intorno ai fuochi né anziani né bambini. Un piccolo fuoco ormai esausto illuminava le roulotte dal centro del cortile e il pentolame tutt’intorno brillava riverso sui tappeti polverosi. 

L’accampamento era stato sgombrato. 

Marco prese un lungo respiro e si lasciò cadere sedendosi stanco intorno al fuoco. Stappò una birra. Poi un’altra.
Raggiunse il suo piccolo furgone e controllò il suo acquario. I pesci erano salvi. Ne fu contento ma non sorrise.  

Perché tutta l’energia si era esaurita.

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di
Arundo Donald

 

Quando Michela riprese coscienza si ritrovò sdraiata e disorientata.

La testa, infinitamente pesante, era quasi incollata al pavimento, e gli occhi gonfi e doloranti a malapena filtravano la luce tra le palpebre imbrattate.
Tutto ciò le dava un fastidio eccessivo eppure non riusciva a ricordare cosa le fosse successo. Ogni singola parte del suo corpo esitava a risponderle e tutto era un enorme forte dolore.
Qualcosa di certo doveva essersi accanita su di lei pensò.
Eppure non riusciva proprio a ricordare cosa fosse successo.
Sentiva il ferro in bocca, l’amaro, e cominciava a soffrire il freddo.
Ancora immobile e con gli occhi chiusi spronò i sensi ancora vividi tentando di intuire ciò che le stesse accadendo intorno. Dove fosse, chi l’avesse ridotta così, cosa avesse fatto per meritarsi tutto questo.
Provava a muovere il corpo. Ora un braccio, ora una gamba ma ogni singola parte non reggeva il dialogo. Era un continuo messaggio a senso unico. Doveva trovarsi su un autobus pensò e sperò che fosse notte.

Roma è bella la notte.

D’improvviso, come se il sole si facesse spazio tra le nubi scure, il freddo era caldo, il silenzio una musica soave e l’autobus si era animato. Su ogni sedile sedevano uomini e donne intenti a parlare, alcuni discutevano seri altri gesticolavano.
Le luci regalavano un tepore soffice e le persone intente a scambiarsi gesti e opinioni sembravano completare quel frammento felice.
Una bambina colpì l’attenzione di Michela. Era piuttosto magra, le braccia scoperte mostravano una pelle chiara del colore della Luna, ma le guance erano rosse e lasciavano intuire un senso di benessere. I capelli mori e morbidi le ricordavano i suoi. Erano lisci, di lunghezza modesta e sulla testa era posato un fermaglio di forma inusuale, ma non certo anomala.  Un cane era seduto dinanzi alla bambina. A Michela parve che la stesse fissando. Aveva il pelo burbero e il naso spigoloso.
Entusiasta si accorse che fuori dai finestrini era notte e ne fu felice.

Roma è bella vissuta di notte. Le capitava spesso.

Per un po’ rimase spettatrice di quell’evento. Per molto tempo in realtà.

Poi l’autobus fu di nuovo vuoto. La bambina con lo strano fermaglio e il cane irsuto erano scomparsi. Anche tutte le persone avevano smesso di parlare e le luci si erano fatte nuovamente livide.
Chissà quante fermate ancora avrebbe dovuto aspettare pensò, perché l’autobus si riempisse un’altra volta di gente tanto allegra. Chissà se mai sarebbe stato ancora così.

Ora tutto era buio e senza rumori.

Ora anche lei ricordava di essersi fatta un buco sull’autobus.

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di
Annalisa Maniscalco


Ancora sul 3, direzione Valle Giulia

L’uomo con il mazzo di rose sale sul 3 a via Carlo Felice. Lascia che gli studenti diretti alla Sapienza lo sorpassino sulla soglia del tram, proteggendosi i fiori contro il petto, poi guadagna la sua mattonella di spazio e si sistema in piedi vicino a me, ignorando un sedile libero.

«Scusi, non si siede?» gli chiede una ragazza, che ha le mani occupate di schiavitù: il cellulare e le cuffiette come rampicanti avvinti al polso, gli occhiali da sole inservibili in quest’ora aggrottata, il portafogli da cui sporge l’abbonamento. Fuorisede, deduco: non sa ancora che la metrebus può stare nascosta come un segreto tra le pieghe di un’abitudine.

L’uomo, ottant’anni circa e occhi molto azzurri, alza le spalle e le rose annuiscono permissive. La ragazza si siede e il cellulare le cade a terra con un rumore di sogni infranti. «Marò!»: l’uomo sorride, accenna a piegarsi su un ginocchio ma poi rinuncia al gesto e si limita a scostare il piede dal cellulare, e dalla ragazza china a raccoglierlo.

Le rose sono rosse, con del verde intorno e una spruzzata di gipsofila. Un bouquet senza profumo, quasi scontato nella sua elegante superfluità; e tuttavia spicca inedito sullo sfondo grigio del mezzo pubblico. Perché comprare dei fiori prima di salire sul tram, mi chiedo. La prima risposta è come le rose recise, banale e un po’ meschina: l’uomo è diretto al cimitero, non vuole piegarsi al ricatto dei fiorai, ne ha uno di fiducia sotto casa. O magari è fioraio lui stesso; e questa risposta, non so perché, mi convince di più, e mi avvicina quest’uomo dai calzoni un po’ corti e dalle unghie incartapecorite.

Il tram raggiunge Porta Maggiore e si ferma all’ombra dell’arco. Molti scendono a questa fermata, che è ancora oggi uno snodo di strade come un tempo era un nodo di acquedotti, e ancora prima un approdo di pellegrini venuti a sacrificare ad Spem Veterem. Ma quell’era è passata, il 3 riparte e quest’uomo non lascia i suoi fiori alla speranza, né alla prostituta che si affaccia annoiata da un platano in disparte.

Il 3 svolta a San Lorenzo, sotto un cielo di tangenziale. L’uomo ammicca a tutti i portoni, a tutte le finestre, come per rinfrescarsi una memoria che non aderisce più allo sguardo. Forse è stato bambino in queste strade, e le rose sono per una finestra che è esplosa in frantumi, o per un balcone che si è sbriciolato quel giorno di luglio in cui Roma è rimasta sgomenta e sfigurata dalle bombe — un giorno che ormai ricordano in pochi.

Il tram si ferma e l’uomo non scende; piuttosto, guarda sfilare via dei Reti passandosi il bouquet da un braccio all’altro: è già stanco ma non cede, neanche quando la ragazza di prima libera il sedile e scende alle Vetrerie Sciarra. L’uomo sta andando davvero al Verano, mi dico, e quei fiori sono per gli occhi di Alida Valli, o per lo spirito di Aldo Fabrizi, o per Rodari e le favole che l’uomo racconta a suo nipote; o magari per Eduardo, che qualche sera fa ha rischiato un brutto risveglio. Ma potrebbe darsi, banalmente, che le rose siano per sua moglie; eppure, l’uomo indossa la fede al dito, e mi scopro a sperare che non sia ancora vedovo. Ed ecco: il tram gira a via Regina Elena e l’uomo non si muove, se non per un distratto sussulto di rotaie.

Guarda fuori, l’uomo coi fiori, verso la Città Universitaria. Mi accorgo che lo spigolo di un libro fa capolino dalla tasca della sua giacca; chissà che non sia uno studente, e che non stia recuperando adesso un vecchio sogno: i fiori allora sarebbero per la docente che gli ha accordato la tesi, o per la segretaria che gli ha risolto un intoppo burocratico.

Poi anche la Sapienza scorre via, e l’uomo è sempre fermo, un po’ più curvo, un po’ più gualcito. A chi porti quei fiori, gli chiedo tra me e me con una tenerezza nuova; e realizzo che il 3 attraversa il quartiere doloroso del Policlinico. Ma le rose sono molto rosse, e gli occhi dell’uomo senza ombre; perciò, posso pensare che i fiori siano per la ginecologa che oggi va in pensione e che tanti anni fa ha fatto nascere il figlio dell’uomo — un parto difficile, in una notte di luna calante. Forse un giorno le intitoleranno una via del Policlinico.

Ma l’uomo lascia sbiadire la costellazione dell’Umberto I e le vie lattee del quartiere Salario, e continua a dondolare con il tram, sempre più appassito. Le sue mani, contro la iuta che avvolge le rose, sono spesse e terree, quasi grigie — gliele studio per cercare risposte e lui, stavolta, se ne accorge — ci concentriamo per caso sulla stessa rosa (ha un petalo color ruggine che freme precario a ogni scossa) e, in qualche modo, è come se ci incontrassimo.

Il tram fila col suo singhiozzo di fermate verso il Bioparco; una strana trepidazione risveglia l’uomo e qualche indizio trova ordine — la banalità delle rose, la modestia della iuta, il grigiore delle mani — in un’associazione bizzarra: forse scenderà allo zoo e offrirà i fiori a Sofia, l’elefante che gioca a palla. Pensiero ozioso, certo; anche se alla sosta l’uomo si affaccia fuori, in bilico, e il petalo arrugginito vola via tra le porte aperte.

Il 3 riparte verso il capolinea di Valle Giulia, alla facoltà di Architettura, e la soluzione del mistero si profila scontata e lucida: oggi la nipote dell’uomo discuterà la sua tesi e il nonno, raggiante, le donerà il bouquet di rose. Distolgo lo sguardo perché quest’ipotesi mi pacifica e insieme mi delude, come un sorso d’acqua tiepida. Ma poi il 3 si ferma alla penultima fermata, con un sussulto più brusco del solito, e allora mi volto di nuovo.

L’uomo con le rose non c’è più.

Le porte si chiudono, il tram riparte e io lo vedo, laggiù, che punta verso la Galleria Nazionale. Mi si accendono le guance, perché penso che quell’uomo non sta portando le rose a una persona.

Le sta portando a un’opera d’arte.

Forse alla donna dei Sogni di Corcos, perché gli ricorda sua madre da ragazza, o alla giovane che raccoglie un uovo dalla cesta, sul Tram di Guidi, come la studentessa di prima, col cellulare.

O forse, dopotutto, l’uomo darà le rose al Primo piano labbra di Pascali: perché anche lui, come me, ama immaginare ciò che non si vede.

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di
Lorenzo Desirò

 

Ore 21.45.
Gli autobus 504 e 551 sono fermi alla stazione di Anagnina. I due sono affiancati l’uno all’altro. Scaldano i motori. Arrivo sul mio 504 e mi siedo in una fila di mezzo. Sono l’unico passeggero.
I centimetri che separano i due auto non sono molti: forse neanche mezzo braccio di distanza l’uno dall’altro. Con la testa appoggiata al finestrino guardo i passeggeri del 551, saranno una decina in tutto, coi volti stanchi e solcati dalla stanchezza della giornata lavorativa.
«LI HAI VISTI? LI HAI VISTI? ‘STI PEZZIDEMMERDA!»
Come comparso dal nulla un ragazzo corre verso di me. Si ferma accanto al mio sedile. Rimane in piedi e guarda quelli dell’auto di fronte e continua ad urlargli contro: «APEZZIDEMMERDAAA! A MMERDEEE! A SSTROOONZIII!»

Avrà poco più di 20 anni. Fisico asciutto, capelli neri e corti rasati ai lati.  Occhiali da sole giganti a mascherina. Insensatamente enormi a coprirgli metà viso (inutile stare a chiedersi perché indossi occhiali da sole a pochi minuti dallo scoccare delle dieci di sera).
È palesemente gonfio di coca.
Sul 504 ci siamo solo io e lui.
I passeggeri del 551 alzano il capo per dargli un rapido sguardo e lo ignorano. Lui, sempre in piedi al mio fianco, inizia a intonare un coro sempre indirizzato a loro:
«MERDE SIETE E MERDE RESTERETE!».

La sua mascella si muove in continuazione. Lui salta. E suda. Ma credo che suderebbe anche senza saltare.
Poi mi guarda e urla: «AOH!, AOH! CANTA CON ME!»

E inizia a intonare un altro coro indicando gli stanchi passeggeri del 551: «E CHI NON SALTA È COME LOROOO OOOOOOOOOOOOOO».

I passeggeri del bus di fianco continuano ad ignorarlo completamente.
«E CHI NON SALTA E’ COME LOROOO OOOOOOOOOOOOOO»

Il 551 accende i motori e parte.
Il tizio ride sonoramente: «scappano sempre ‘sti conigli». E rivolgendosi all’auto in lenta e monotona fuga: «CONIGLI!!!».

E l’autobus coniglio scompare dal nostro orizzonte.
«Quelli del 551 so’ i nemici. Partono sempre prima. SEMPRE! E noi mai, mai mai che partimo prima de loro. A pelato noi arivamo a casa sempre più tardi de quelli. Loro so’ come la Juve, arivano prima, sempre.
Però… però è facile. E’ facile essere del 551, è facile tornare a casa con un autobus che parte ogni 10 minuti. Così come è facile tifare per la squadra che vince sempre. Però. NOI semo più belli. Noi del 504 semo più veri. Noi semo er popolo. Noi semo quelli che soffrono e che c’hanno poche soddisfazioni ma quelle poche gioie so’ belle, so’ vere. Quant’è bello quanno arivamo in stazione e l’autobus sta già lì, ci aspetta e noi salimo e il 504 chiude le porte e si parte subbito verso casa? Quant’è bello? Queste sono le gioie. E comunque tra di noi del 504 ce volemo bene perché soffriamo e esultiamo e ci abbracciamo tutti insieme. Ogn’attesa infinita sulla banchina, co’ la pioggia, co’ la neve, cor sole, cor vento, noi la famo insieme, tutti insieme. Ogni incidente, ogni guasto ogni ritardo de sto autobbus noi li viviamo insieme. Tutti insieme. E ariverà, ariverà il momento che partiremo prima noi del 551, ariverà.  Tocca solo aspettallo…»
Non avevo mai notato che il 551 parte sempre prima di noi del 504.
Inizio a pensare che il tizio non ha tutti i torti… Inizio ad avvertire un certo fastidio verso il 551.
Il ragazzo va a sedersi in fondo all’auto, alle mie spalle. Non lo vedo ma lo sento.
Sento il suo naso tirare continuamente su e sento i cori che mi accompagneranno per tutto il viaggio:

«e juve mmeeerda e juve mmeerda e juve mmerdaaa juve juve mmeeerdaaaa»

Il 504 parte.