di
Annalisa Maniscalco
«Lasci stare la ragazza.»
Ha la stessa età di mia figlia, realizzò Morelli, e strinse di più la presa.
L’uomo lo fissò interdetto, lo sguardo colmo di una strana, smisurata dolcezza. Morelli, di colpo dubbioso, lo lasciò andare, ma non si arrese: «È passato senza biglietto, devo farle la multa».
«Ho l’abbonamento, solo che… l’ho lasciato a casa.»
Morelli sbuffò, ma l’uomo pareva sincero.
«Facevo due passi sotto al mio vecchio liceo» spiegò. «Sono andato in pensione un mese fa, e avevo, non so dirle, nostalgia».
Morelli, impietoso, compilava il verbale.
«A volte andavo a scuola a piedi, specie in una giornata così, ha visto che sole?» tentò l’uomo, invano. «Ma oggi, fuori da quel cancello, per la prima volta mi sono sentito… stanco. Così ho deciso di prendere la metro; e quando sono arrivato qui ho scoperto di non avere la tessera».
Alcuni ragazzi rallentarono, cincischiando ai varchi e ridacchiando fra loro.
«Sono solo quattro fermate» mormorò l’uomo.
«Non c’entra» ribatté Morelli, a voce alta per farsi sentire dagli studenti. «Una, quattro oppure cento, lei ha commesso una violazione. Avanti» abbaiò ai ragazzi, «passate e liberate quei tornelli.»
«Non se la prenda» gli bisbigliò l’uomo, «ce l’hanno con me: il vecchio professore colto sul fatto.»
Morelli lo guardò. Quell’uomo era in pensione da un mese e ancora non si rassegnava. Qualcosa, all’improvviso, glielo avvicinò: specie ora che la sua vita ricominciava, a cinquant’anni suonati, neanche Morelli osava pensare al giorno in cui avrebbe dovuto lasciare il lavoro.
«Senta» concesse infine «io non posso non farle la multa. Ma se lei va a prendere l’abbonamento e me lo porta qui entro due ore, vedrò di annullarle il verbale».
Un sorriso minuto si insinuò tra le rughe dell’uomo. Dichiarò le proprie generalità senza esitare, e un paio di studenti, salutandolo, ne confermarono il nome.
Il nome che campeggia sul verbale della multa.
Il 502 percorre un viale Don Bosco fitto di automobili. Morelli, che da ragazzo frequentava quel quartiere, ricorda quando la linea A della metro era ancora in costruzione, e il tram sferragliava dove ora s’aggrumano i parcheggi. Il tram: lo aveva preso con una ragazza, lungo la stessa direzione, in un giorno di gennaio 1980; erano le ultime corse di quella linea, lui era giovane e non lavorava ancora per l’Azienda.
Sorrise tra sé e sé, perché quel giorno erano saliti senza biglietto.
L’aveva incontrata davanti agli studi di Cinecittà: lei sognava di diventare attrice, e nel frattempo faceva la comparsa. Morelli aveva finto di riconoscerla, di averla vista in un film di Comencini, e lei, lusingata, si era lasciata offrire un caffè.
Si chiamava Marina. Avevano parlato a lungo, sempre più vicini, poi lui l’aveva convinta a farsi accompagnare a casa. Sul tram avevano giocato a indovinarsi le battute dei film, e Morelli si divertiva a depistarla perché il sorriso di lei, dopo il cruccio, era come il profumo del pane quando si svolta un angolo. A piazza dei Tribuni erano scesi saltando dal predellino, e la gonna di Marina si era sollevata per una folata di vento…
«Attento…!»
Morelli si sbilancia in avanti e sente il vuoto nelle budella. Poi, all’ultimo, uno strappo, e si ritrova tra le braccia polverose di un operaio.
Ai suoi piedi, una voragine oscura lo attira dal cuore dell’asfalto.
«Per poco non s’ammazza» esclama l’operaio.
Il sangue di Morelli si diluisce, disertandogli il volto. Si rimette sui suoi piedi e si allontana incespicando.
Marina, pensa per calmare il cuore, Marina! Ma ha la vertigine nelle viscere e il sudore nel colletto. Abbiamo vagato per il quartiere, ripete tra sé, cercando un panorama che non esiste più. Davanti alla sua porta l’ho baciata come in un film, ricorda, le labbra secche. Cinque anni dopo ci siamo sposati, si consola invano, annaspando.
E ora, Marina se n’è andata via.
Morelli batte le palpebre per mettere a fuoco il verbale, insegue il civico del multato, si arena davanti a un gradino. Nulla più di una ruga di pietra, ma è il primo di una scala che si inabissa verso un seminterrato.
Le mani di Morelli tremano senza scampo. È per la pensione, si incoraggia, ma dentro di sé si divincola: la scala gli sembra il buco in cui prima stava precipitando. Ho passato i miei migliori anni sottoterra, si ripete, ma quel pensiero, per la prima volta, gli suona nero: perché è per questo che Marina lo ha lasciato.
È per mia figlia, e per il suo bambino, tenta infine, stringendo i pugni, e si convince.
In fondo alla scala c’è un vecchio cancello, che cigola ma si lascia aprire. Poi, una porta socchiusa: Morelli bussa e spalanca il buio.
Il pavimento scricchiola di detriti; gli interruttori non rispondono. Morelli sblocca il tablet con dita malferme e la multa rischiara un disordine inerte, antico.
«Professore» chiama Morelli con voce che cede.
Silenzio. L’aria è spessa di deserto e d’abbandono.
Sul tavolo impolverato, qualcuno ha posato un mazzo di chiavi, come se contasse di riprenderlo di lì a poco.
Sul muro, un po’ sbilenco, un calendario del 2011.
Poi, dal buio emerge il profilo solido di un divano, con un’ombra immobile rannicchiata intorno a un bracciolo.
Un’ombra scavata, distorta, troppo ferma, con indosso un soprabito leggero: di quelli che si portano a primavera, nelle giornate di sole.
Tra le dita consumate, la ricevuta pallida di una multa, e un vecchio abbonamento della metro.
«È lei che ci ha chiamati?»
«Sì.»
«Lo conosceva?»
«Non proprio.»
Aveva l’età che ho io adesso, pensa di colpo Morelli, e si stringe nella giacca.
«Perché era a casa sua, allora?»
«Per quella multa. Per riscuoterla.»
Ma il professore è morto prima di pagarla. La scientifica, il giudice, il liquidatore: ci vorrà del tempo.
Molto tempo.
Il commissario lo osserva. «Si sente meglio, adesso?»
Morelli espira. La sua pensione può aspettare.
«Meglio, sì.»
Il commissario lo lascia andare. Morelli si è appena avviato quando il poliziotto lo richiama.
«Sa se c’è qualcuno che possiamo avvertire?»
L’auricolare di Morelli si mette a vibrare. È sua figlia.
Io sono l’ultimo che lo ha visto vivo, realizza Morelli, col ricevitore che gli trema insieme alle dita.
Io sono l’unico che è venuto a cercarlo.
Morelli scuote la testa e se ne va, il cuore vivo e spaccato in fondo al petto.