Storie e intrecci di vita sul tram 3, vettura num. 1503
di Marcello Manzoni
Illustrazione di Anastasia Coppola
La notizia l’ho appena letta sul gazzettino della mia città, nella terz’ultima pagina, con il rischio che il fatto passi inosservato: vogliono mandare in pensione il tram numero 3, serie 1500, vettura 1503.
Chi sta leggendo magari ha appena fatto spallucce, non considerando come questo evento sia tremendo nella mia vita.
Il tram numero 3 è un eroe vestito dalla tradizionale livrea verde bitonale, con due lunghe panche longitudinali e il decoro del tempo che fu.
Classe 1928, è sopravvissuto ai bombardamenti alleati forse grazie al suo mimetismo di fabbrica.
Nei decenni seguenti, ormai sicuri che non ci sarebbero stati ulteriori bombardamenti, il colore della serie 1500 fu modificato in uno spavaldo arancione ministeriale, ma quello della vettura 1503 rimase inalterato.
Per me il 1503 non è solo un mezzo di trasporto, ma lo considero un amico fidato, ritardatario, ma fidato.
Da bambino lo aspettavo in compagnia di mamma per andare a scuola.
Dodici fermate, e nel frattempo rileggevo i compiti svolti a casa. Con il passare degli anni prendere il tram da solo divenne un simbolo di indipendenza di cui andavo molto fiero.
Alle superiori, le dodici fermate mi occorrevano per fare i compiti dimenticati.
Quando iniziai l’università, servivano solo cinque fermate per giungere alla metro e avere a disposizione così poco tempo, mi permise di porre maggiore attenzione alle persone che vivevano quotidianamente il 1503.
La signora elegante fu certamente la principale habitué.
Al tempo, quando la notai, avrà avuto circa ottant’anni e ogni giorno era vestita con estremo garbo.
Non penso che la signora dovesse effettivamente andare da qualche parte: amava girare per la città e mettersi in mostra per chi saliva, magari inducendo qualche avventore a chiedersi dove una signora di tale eleganza si stesse dirigendo.
Al mio secondo anno di magistrale, di punto in bianco, la signora smise di frequentare il suo salotto motorizzato.
Chiesi tempo dopo a Giuseppe, lo storico manovratore del 1503, se sapesse qualcosa della signora elegante.
Rispose di no e giurò di non ricordare un periodo così lungo senza la sua presenza.
Non la vidi più.
Uno sgradevole personaggio che iniziò a frequentare il 1503 fu un tipo in impermeabile, che soprannominai in seguito “il Toccaculi”.
L’uomo prediligeva gli orari di punta, con i pendolari ammassati e iniziava la sua attività molesta per poi darsi alla macchia.
Divenne noto sulla linea del numero 3 e tenuto perentoriamente d’occhio da Giuseppe, finché toccò le natiche sbagliate e si prese un tacco dodici dritto in mezzo alle gambe.
Giuseppe bloccò il tram e lo lanciò di peso sulla pensilina. Lo vidi altre volte sul 1503, ma restava in disparte, ormai famigerato.
In quegli anni le panche longitudinali furono un invito per rubare sguardi alle ragazze.
Il tipo di seduta faceva il mio gioco e le “maledette” si sforzavano a guardare in ogni direzione, ma mai la mia o a leggere qualsiasi cosa avessero sottomano.
Ricordo quella volta in cui incrociai lo sguardo con una bellissima ragazza mora e lei non distolse lo sguardo.
Il mio cuore iniziò a battere all’impazzata. Mi guardò ancora e fece un gentile sorriso: rimasi così estasiato che persi la fermata e in fondo chissenefrega, dovevo solo seguire una lezione di Archivistica, quindi assolutamente sacrificabile per un ennesimo sorriso.
La ragazza scese poche fermate dopo e io rimasi imbambolato sul tram.
Mi diedi dell’idiota per le successive tre fermate.
Poi scesi e mi diressi alla morbosa lezione, dove non feci altro che rimuginare sul mancato approccio.
Le settimane successive sperai di incrociarla nuovamente e mi capitò persino di scendere alla sua fermata, auspicando in un casuale incontro.
Ma non successe.
Infine, dopo alcuni mesi la vidi salire sul 1503: era più bella di come la ricordassi.
Inizialmente ponderai la possibilità di lasciare che fosse lei a lanciare il primo sguardo, ma già nei due secondi successivi iniziai a fissarla avidamente e con un sorriso ebete.
La ragazza si accorse della mia presenza e ricambiò il mio sorriso con uno dei suoi, meraviglioso.
Ero a un bivio: se l’avessi lasciata andare senza rivolgerle la parola lo avrei rimpianto per tutta la vita.
Appena il posto a fianco al suo si liberò, mi alzai e mi sedetti a fianco a lei.
Le rivolsi la parola:
«Ciao, non so se ti ricordi di me, ma ci siamo visti proprio qui sul tram alcuni mesi fa. Avrei voluto conoscerti già allora e questa volta non potevo farmi scappare l’occasione».
La ragazza mi sorrise ancora più splendidamente e mi rispose:
«Che pensiero carino! Se hai trovato il coraggio significa che Dio ti ha infuso la forza».
«Dio…cosa?» Chiesi istintivamente.
«Sì, Dio muove ogni nostra azione, capisci?».
Attese che annuissi e poi riprese a parlare: « Noi del Sacro Amore di Dio pensiamo che le cose belle che ci succedono tutti i giorni siano frutto dell’amore del Signore».
«E le cose brutte?», domandai, mordendomi la lingua subito dopo.
«Le cose brutte no, ovviamente». Lo disse con un tono piuttosto sdegnato.
Quindi fece una magistrale pausa, degna del miglior Vittorio Gassman e come ricordandosi che Dio la volesse vedere sorridere aggiunse: «Se vuoi puoi venire a un nostro incontro di preghiera».
Non avevo niente contro i ferventi cattolici, ma quella volta rimasi spiazzato, soprattutto perché nei mesi mi ero creato diversi scenari, ma mai niente del genere.
«Guarda ci penso un po’ su…» vile menzognero che non sono altro.
«Ora devo scendere, non posso proprio perdere la lezione di Archivistica, ciao!».
Sì, mi avevano bocciato al precedente appello.
Non l’ho più vista e chissà come si chiamava.
Tempo dopo in televisione guardai uno speciale sulle Bestie di Satana e mi sembrò di riconoscerla, ma non poteva certo essere lei.
Vi sto scrivendo dal tram 1503, con il quaderno aperto sulle gambe, il gazzettino ripiegato e dopo quarant’anni di frequentazione giornaliera sto come nel mio salotto.
Ahimè ancora per poco.