di
Gualtiero Titta
Capitolo I
Nessuno lo sa, ma sta per morire un ragazzino.
Sono tutti qui, appena svegli. Chi in piedi, chi seduto, chi con la testa nascosta in uno schermo grande mezzo palmo, tutti impegnati a distrarsi da qualsiasi cosa meriti un po’ d’attenzione.
È un giorno come un altro, sotto terra, ad aspettare un treno.
Dicono sia la stazione più buia della linea. Non c’è un motivo vero e proprio, nessuno si è mai sforzato di capirlo, ma è ormai quasi un anno che anche la luce sembra voler scappare da qui sotto.
I neon balbettano di continuo, pronti a spegnersi da un momento all’altro e non riaccendersi più. Forse è colpa del pavimento consumato dai passi e dagli anni: non riflette come dovrebbe, e allora la luce si offende e minaccia di andarsene.
Sì, deve essere questo il motivo. Così, come ha fatto adesso, proprio così. Qualche falso contatto dovuto al peso dei vagoni sui binari ed eccoci nascosti nel buio.
Il rumore del treno che arriva si fa strada nella galleria, un soffio freddo sfiora le guance di chi è troppo vicino alla linea gialla e la luce si spegne. Solo per un attimo, il tempo di chiedersi se stia davvero per succedere qualcosa, poi un nulla di fatto, si torna a vedere. Di nuovo nel mondo, sempre gli stessi.
Un’ultima accelerazione in lontananza. Un ragazzino si fa strada tra la gente, non serve chiedere il permesso, è ancora presto, c’è spazio per tutti e per tutto. Avrà undici anni, lo zaino più grande di lui, le cuffiette infilate nelle orecchie, una scodella di capelli a nascondergli gli occhi. Guarda fisso a terra, controlla di aver fatto bene ogni passo. Il treno si avvicina, il ragazzino continua a camminare. Le luci della stazione balbettano ancora, il vento freddo soffiato dai binari scivola su tutta la banchina. Questa volta non è come al solito, ma non se ne accorge nessuno.
Nessuno tranne un uomo seduto a terra, per tutti l’uomo della metro.
Non fa che starsene su quel cartone, riparato in un cappotto che ne ha vissute troppe, chiuso nel suo angolo. Avrà quarant’anni ma ne dimostra tanti da farne perdere il conto.
Vive e dorme lì, ogni sera, senza mai uscire, in quello che ormai per tutti è il suo posto, la sua stanza. I controllori fanno finta di non vedere, si sono abituati a lui, a quella macchia per terra, non fa più nessun effetto. Uno di loro ogni tanto si avvicina, gli porta un giornale, un panino riscaldato, gli ricorda di esistere. Il controllore buono, è così che lo vede lui.
Ma l’uomo della metro non ricorda neanche più di avere avuto un’altra vita diversa da questa, e forse non ce l’ha mai avuta davvero. Non fa che stare fermo a contare i secondi tra un treno e l’altro, con gli occhi persi nelle ombre dei binari o nella folla.
Guarda, osserva, spesso vede più degli altri, prima degli altri, e ora vede anche il ragazzino superare la linea disegnata a terra.
I neon si spengono e riaccendono ancora, il ragazzino guarda l’uomo e gli sorride appena, come a dirgli di non preoccuparsi. Ma l’uomo vede qualcosa dietro quel sorriso, come se quel soffio freddo avesse preso forma. Qualcosa che non c’è, che non si fa mai vedere.
Il treno emerge dal buio della galleria ed è questione di un attimo. Il ragazzino si lascia cadere, il macchinista cerca di inchiodare ma è solo un riflesso involontario. Non ci sono tasti da premere o leve da tirare in momenti del genere. Niente può fermare in tempo il treno, nemmeno le urla di chi realizza che cosa è appena successo.
La gente si blocca e di fronte alla morte prende vita un ritratto collettivo di anime che si risvegliano.
Sembrava un ragazzino così normale… Che cos’hanno in testa i giovani d’oggi? È caduto, forse è caduto e tra poco starà bene… Non è possibile, non è successo… Povero ragazzo, poveri genitori…
Il macchinista non riesce a uscire dal suo abitacolo. Guarda nel vuoto, paralizzato. Non è colpa sua, ma è la prima volta, nessuno gli ha mai spiegato come reagire a certe cose. I passi veloci dei controllori invadono la banchina; non c’è niente da guardare, la fermata è chiusa. Vanno via tutti, risalgono, non dovranno far altro che continuare la giornata e dimenticare.
L’uomo della metro invece rimane sul suo cartone, ancora non si muove, i tre controllori non sembrano nemmeno averlo visto. Si alza e si avvicina al capannello di divise.
«Non puoi sta’ qui… ’mo no» gli dice uno dei tre mentre dà una pacca sulla spalla al macchinista con gli occhi lucidi.
Ma l’uomo della metro insiste, rimane lì, e parla.
«L’ha spinto… non si fa mai vedere.»