di Eugenio Di Donato
Illustrazione di Zoe
Esco.
È umido.
Il cielo è denso di pioggia. È notte.
Salgo sulla novanta, è mezza vuota. Mi siedo e schiaccio il naso contro il vetro. Guardo fuori. Auto puttane lampioni, e la striscia d’asfalto nuovo, nero e fumante che si allunga sotto la città. Fa caldo, la camicia si incolla alla pelle, mi serra il torace e le ascelle, sembro un lombrico sudato. Boccheggio. Non lo volevo fare questo mestiere.
Non mi andava di arrampicarmi come una blatta assonnata e paffuta intorno alla città.
Peso 127 chili, e il caldo mi sfianca.
Faccio il portiere di notte. Hotel Varisco, largo Ignesis 22, l’ennesima rotonda.
Questa città ruota. Nessuna piazza o quasi.
Solo slarghi e un’infinità di rotonde. Nel mezzo qualche albero, panchine abborracciate e recinti per cani e per bambini. Mi allungo, premo il pulsante. Il bestione gommato stride, si flette nel centro, quasi si torce e all’ultimo si ferma. L’autista aspetta, lo sa che mi ci vuole un po’ per alzarmi e strisciare giù, sul catrame rovente. Mi fa un cenno con la mano. Faccio un cenno con il capo. Non ho collo, la mia testa è incernierata nelle spalle come un pomello.
Sono in strada. L’autista accelera e il bestione gommato riparte. Macina giri nella notte.
Circolare destra, circolare sinistra.
L’hotel Varisco è di terza categoria, un misto tra un motel e un albergo a ore.
Due stelle dice la guida della città.
Una e mezza, dico io.
Ma cambia poco. Sono in ritardo, e Mohamed è fuori che aspetta con la sigaretta in bocca. Ha visto la mia sagoma scura da ippopotamo. L’ho visto anch’io, vedo la sua pupilla annacquata mentre si dilata nello sforzo di accogliere la notte. Sorride beato, deve essere stata una giornata tranquilla.
Niente urla, niente casini nelle camere, niente cimici.
Mi stringe la mano e la mia scompare nella sua. Ho le mani sorprendentemente piccole per un uomo della mia mole. Sorride di nuovo e si allontana con il suo passo africano. Seguo il busto dondolare tra le auto, balza furtivo sulla banchina e si accende un’altra sigaretta. Si siede alla fermata, nel punto esatto dove sono sceso io. Mohamed continua a sorridere, ha un sorriso che sembra un ghigno. Muove la bocca solo a sinistra, la parte destra è indurita da una sottile cicatrice. Un ricordo d’infanzia su cui sorvola. Lo guardo, vedo il torace che si gonfia, il piacere della boccata e il fastidio del sudore che gli cola lungo le tempie. 20 decimi, sono un rapace. Non volo però, per lo più sto seduto nella mia torretta. Sta arrivando di nuovo il bestione gommato che cerchia la città, ne passa uno ogni venti minuti, rallenta, stride, si accorcia nel mezzo e all’ultimo si ferma. Scarica di tutto.
Lattine di birra, skate, radio, monopattini, bici pieghevoli, un passeggino e due donne con il velo nero e il vestito lungo. La baby slitta è pesante, le donne imbavagliate l’afferrano con mestiere e la depositano sulla banchina. È intasata di buste, di pacchi, di cibo. Mohamed le guarda perplesso. Due arabe sole nella notte fonda con un passeggino carico di cenci. Troppo anche per lui, troppo per chiunque abbia una madre o una sorella velata. Peggio dei cinesi.
Mi appollaio nella mia torretta: una poltrona di pelle lucida e reclinabile. L’ho barattata per il primo stipendio, lavorare di notte passi, ma stare scomodi no. Quando sono seduto incuto paura, lo leggo nelle pupille dei clienti, ci sono tre gradini e venendo dal basso non mi vedono. E poi d’improvviso, una volta sul pianerottolo, appaio io, un ippopotamo strabordante con occhi da falco. Capiscono subito che capisco. Il Varisco è uno spazio per tramortiti, gente che tira avanti alla giornata: balordi, alcolizzati, puttane.
Coppiette rancide e coppiette alle prime armi. Divorziati che non hanno un posto dove andare. Alcuni sono violenti, ma per lo più sono spaventati. Gente che per un paio d’ore non vuole rogne, la loro vita ne è piena. Piccoli furti, qualche rissa, patenti ritirate, spaccio, figli sparsi. Alcolismo.
La novanta stride, si ferma e riparte, si arriccia per tutta la notte, e per tutta la notte fino all’alba vomita nani, storpi, minigonne, tatuaggi, nere, asiatici, cinesi, pacchi, scatole, ragazzi. Alle sei è il turno dei peruviani, un plotone di formiche armate di spugne e scopini. Si intrufolano silenziosi e assonnati nei grossi edifici, nelle banche, negli showroom, negli hotel, e anche qui al Varisco. Puliscono. Esmeralda e Maria si trascinano dietro i loro marmocchi. Bivaccano sui divani lerci della hall, un po’ dormono, un po’ giocano con il telefono, un po’ mi guardano. Non frignano mai. Sono grassi anche loro.
Ingurgitano merendine e cocacola, e come le loro madri si fanno il segno della croce.
Sono le otto, faccio il giro dell’edificio, controllo i piani, prendo l’ascensore, aspetto Berardo. Un avellinese arzillo con la faccia scavata che fa il turno del mattino. È piccolo e magro, secco come un chiodo. La novanta inchioda, una bici le ha tagliato la strada. Berardo rimbalza, si attacca al palo e scende dal predellino imprecando. Mi preparo. Lo saluto con un cenno del capo e pesantemente mi avvio verso il bar dell’angolo. È l’ora del caffè. Mi attardo, la serranda è ancora abbassata ma Giovanni il proprietario è dentro dalle sei, una donna dai capelli sporchi e radi rovista nel bidone dell’immondizia, aspetto la novantuno, tra qualche minuto scenderà Catarina.
Catarina lavora al bar dell’angolo da un paio di mesi, è portoghese e ha il culo alto e sodo delle brasiliane, la coda di cavallo e un sorriso capace di ridestare uno zombie. Ambrata, con il corpo elastico di un felino si flette e tira su la serranda. Non mi ha visto, è arrivata dal lato opposto, aspetto qualche minuto prima di entrare, il tempo di farla sistemare dietro il bancone. Sono quasi sempre il primo cliente, anche se capita che qualcuno che scende dalla novantuno la segua come un cane al guinzaglio fino alla serranda. Il caffè Ibisco è un residuo della media borghesia del quartiere. Tavolini di fattura, buona pasticceria, niente tabacchi e niente slot machine. Apre alle otto e un quarto e serve gli uffici della zona, i colletti bianchi che cominciano la giornata alle nove, i pensionati e gli universitari squattrinati. Dopo le dieci appare qualche computer, facce assonnate, barbe, occhiali da sole e camice pseudo hawaiane. Sono rari però. Qui il fashion non attecchisce.
Non ci sono ville e la metropolitana è lontana.
«Bom dia» e si apre una colonna di denti bianchi.
«Il solito?» Accenno di sì con il capo e mi aggrappo al bancone per non cadere.
Bevo il caffè, ingoio due brioche vuote, lascio la mancia e mi volto verso l’uscita. Mi sta guardando, lo so che mi sta guardando. Tutti mi guardano, si spostano perfino, mi fanno spazio. Sono ingombrante. Mi avvio verso la fermata. Il bestione gommato stride, si torce al centro e all’ultimo si ferma. Schiaccio il naso contro il finestrino. Catarina non c’è, è dietro in cucina.
Il bestione gommato accelera.