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di Luca Cassarini

illustrazione di Anastasia Coppola

“Per quanto il mondo possa sembrarti assurdo, non dimenticare mai che offri un bel contributo a questa assurdità                                con il tuo agire o con il tuo astenerti.”

(Arthur Schnitzler, “Libro dei motti e degli aforismi”)

«Biglietto, prego».

Il controllore Antonio Prevosti era sempre lo stesso, da anni.
Decano dell’azienda municipale di trasporti in quella piccola cittadina di frontiera, assieme a cappellino e divisa d’ordinanza indossava sempre un leggero profumo a buon prezzo.
In quel momento attendeva che uno dei pochi passeggeri della corsa delle 10 e 23 esibisse il proprio titolo di viaggio. Teneva chino lo sguardo sotto una montatura di occhiali alla moda, dando ogni tanto leggeri colpi di tosse.
Abile nel suo mestiere, riconosceva a prima vista biglietti scaduti o tarocchi, ed aveva fiuto per quelli usati più del dovuto.
Non sembrava questo il caso, fortunatamente.

«Ecco a lei», annunciò il passeggero dopo una ricerca parsa infinita.
«…Grazie».
«A lei».
«Buon proseguimento di viaggio».
«Hmm-hmm».

Il viaggiatore, uomo sulla cinquantina, barba rada a coprirgli il viso, tornò a sprofondare nel seggiolino della corriera. Sapeva che il viaggio non sarebbe stato troppo breve, ma erano passati anni, se non decenni, dall’ultima volta che si era prestato ad un’esperienza del genere. Solitamente andava in macchina, tuttavia per un malaugurato incastro del destino la vettura era dal meccanico e lui aveva un appuntamento inevitabile, sicché aveva scrutato con rassegnazione l’orario dei mezzi pubblici che collegavano le sua città con la destinazione voluta.
Bestemmiando leggermente, aveva visto che ne passava uno ogni ora e mezza, per cui si era ulteriormente rassegnato a prendere il primo disponibile per poi aspettare, una volta giunto nella città di K., il tempo dovuto.
Un bar o una panchina della piazza non avrebbero fatto troppa differenza.
In fondo, era un tipo paziente.
Lo dicevano tutti quanti, ed era vero.
Con la sua stoica pazienza si sistemò dunque sul sedile, ed iniziò presto a sonnecchiare.

«Biglietto, prego».

Il controllore, che di nome faceva sempre Antonio Prevosti, lo destò dal suo torpore.
Erano già arrivati? L’uomo sulla cinquantina, ma potevano essere anche poco più di quarantacinque, in quelle fasce d’età indefinite dove sfumano le differenze nette, guardò dapprima fuori, quindi verso il proprietario di quella voce. Per un attimo pensò di aver cambiato linea alla fermata immaginaria dei suoi sogni. Notò con sospetto che era lo stesso di prima, e si chiese come mai tornasse a chiedergli la medesima cosa. Forse se n’era dimenticato, oppure era la prassi dell’azienda. Per certi aspetti avrebbe voluto protestare, ma la richiesta era tutto sommato legittima e garbata, e contro la legge sempre meglio non avere grane.
Mai, e di nessun tipo.
Sbuffando leggermente, tirò fuori il suo biglietto.

«Ecco a lei».
«…Grazie».
«A lei».
«Buon proseguimento di viaggio».
«Hmm-hmm».

Cercò di cogliere punti di riferimento per capire quanto potesse mancare  all’arrivo, ma la strada era abbastanza omogenea nel suo imperterrito scorrere, i cartelli sfrecciavano troppo in fretta perché potesse leggerli bene, forse si sarebbero fermati da qualche parte e avrebbe potuto fare mente locale.
Era certo che sarebbero arrivati a breve, questioni di decine di minuti, al più.
Iniziò a guardare fuori dal finestrino cercando di cogliere qualcosa di interessante al suo sguardo, e che lo aiutasse a passare il tempo.
Tanto valeva arrangiarsi con quel che offriva il convento.
Ovvero, un paesaggio che scorreva sempre uguale a se stesso.
Rimase presto ipnotizzato dal viaggio.

«Biglietto, prego».

Il controllore, che si chiamava ancora Antonio Prevosti, d’altronde c’era solo lui a compiere quella noiosa incombenza sulla tratta, stavolta lo prese veramente alla sprovvista. In effetti, si era incantato nel loop del viaggio.
Il rollio delle ruote sull’asfalto era sottofondo costante e, per certi aspetti, soporifero.
L’uomo, che poteva anche avere un’età quasi prossima alla pensione, stemperò la tensione in corpo con una dose d’ironia, canticchiandosi in testa: “Ancora tu, ma non dovevamo vederci più…?”.
Quanto tempo era trascorso? Mezz’ora, un’ora? A breve sarebbero pur dovuti giungere a destinazione, no?

Si azzardò a dire: «Scusi, ma…».
«Biglietto. Prego», ripetè il controllore, con la pazienza di chi ne aveva viste tante. Abbastanza nervoso, l’uomo glielo porse mezzo sgualcito e spiegazzato.
«A lei».
Il controllore impiegò un tempo infinito nello scrutarlo adeguatamente, su ambo i lati, onde evitare brutte sorprese. I cosiddetti portoghesi erano una costante nel tempo e nello spazio, leggende tramandate da generazioni di controllori.
«Grazie», disse infine allo stralunato passeggero, con un reiterato cenno professionale.
«…»
«Buon proseguimento di viaggio».
«…»

Non ci stava capendo più nulla.
Presto sarebbero arrivati a destinazione, ne era certo.
Gli pareva che il sole fosse stabile lassù in cielo, ma le giornate sembravano avere una durata immensa, d’estate.
E la strada somigliava ad una striscia di asfalto senza fine, dilatata dallo spazio e dal tempo.
Ad un certo punto sentì distintamente uno strambo rumore.
Si guardò veloce attorno, sulla corriera era rimasto solo lui.
Ignorava dove potessero esser scesi tutti gli altri, era sicuro non fosse stato l’unico passeggero a salire su quel mezzo, chissà quanto tempo prima, chissà dove.
Stava perdendo ogni riferimento spazio-temporale, in quell’andirivieni costante ed assurdo.

Antonio Prevosti, il medesimo controllore di poc’anzi, e prima, e prima ancora, sgusciò tutt’un tratto in mezzo al corridoio dell’autobus.
La sua faccia era ermetica come quelle dei tutori dell’ordine.

«Biglietto, prego» chiese puntiglioso, scandendo bene le parole.
Il passeggero, di un’età indefinita e abbastanza stravolto, per poco non si mise a piangere, o gridare.

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di Luca G. Manenti

Illustrazione di Liliana Brucato

«Tipo costruttivo dotato di estese funzionalità sonore, motorizzazione con massa volanica e cerchiature di aderenza. Deflettori negli ingressi all’estremità della vettura. Colorazione in blu oceano con righe zigzaganti d’oro puntinate d’argento. Due fanali di coda rossi commutati in modo digitale. Illuminazione garantita da diodi esenti da manutenzione a luce bianca calda. Pantografo monobraccio e carrello anteriore con vomeri scaccia sassi. Telaio del rodiggio finemente dettagliato. Respingenti in esecuzione incurvata e piatta».

Leggere nel catalogo da collezione “Materiale rotabile” la descrizione minuziosa del treno perfettamente riprodotto su cui era seduto, gli dava un piacere al cubo, impossibile da comprendere per i profani del ferromodellismo.
Il mezzo che lo stava trasportando era stato concepito a partire da una miniatura dedotta, a sua volta, dal veicolo originario, di cui erano andati perduti esemplari e progetti ingegneristici.
I complementi d’arredo ben definiti, le poltrone rivestite di pelle in tinta caffellatte con schienale reclinabile, i divisori in cristallo, le cappelliere, i portabagagli, l’insieme armonioso e opportunamente disposto, insomma, della carrozza, gli provocava, man mano che si rendeva conto del grado di fedeltà esibito (da intendere, dunque, così: fedeltà a un formato in scala ridotta fedele a un archetipo reale che, se davvero tali le fedeltà, era identico al convoglio in movimento calcato sulla maquette, e così via), una sensazione di goduria quasi sessuale.

Dal finestrino scorrevano immagini che avrebbero potuto essere di un diorama.
Nulla mancava: l’erba verde brillante, i passeggeri in attesa sotto la pensilina, il ponte ad archi in mattoni, la galleria che forava il monte, la casa cantoniera, la torre dell’acqua, il villaggio con la locanda e la chiesa, l’edificio del casellante.
Trascorsi due minuti, ancora: l’erba verde brillante, i passeggeri in attesa sotto la pensilina, il ponte ad archi in mattoni, la galleria che forava il monte, la casa cantoniera, la torre dell’acqua, il villaggio con la locanda e la chiesa, l’edificio del casellante. Dopo centoventi secondi, da capo: la medesima erba, i medesimi passeggeri, e poi il ponte, la galleria, la casa, la torre, il villaggio, la locanda, la chiesa, l’edificio: tutto era uguale a prima.

Il «tipo costruttivo dotato di estese funzionalità sonore, motorizzazione con massa volanica e cerchiature di aderenza» proseguiva con ritmo monotono, indefettibile, accompagnato da un lungo e sottile ronzio, senza mai fermarsi alla stazione, scivolando dinnanzi alle figure immobili degli aspiranti viaggiatori che pazientavano invano, muti, con i piedi saldamente incollati alla banchina.

Si guardò attorno, accorgendosi d’essere l’unica presenza nel vagone. Sebbene ordinato, pulito, razionale, l’ambiente appariva, a uno sguardo più attento, stranamente artefatto, come di plastica. Toccò il sedile, i braccioli, le paratie: plastica. Il tavolino, l’appendiabiti, il poggiatesta: plastica.
Deluso, si chiese se perlomeno la scocca fosse in metallo.

Posò gli occhi sulla pagina della rivista, scorgendo nella foto, al di là del vetro della locomotiva artisticamente ritoccata per renderla più simile al prototipo, la cui impeccabile imitazione, ricavata da una copia di piccole dimensioni, stava ripassando, in quell’esatto momento, sul ponte ad archi in mattoni, un viso conosciuto. Il suo.