View More

di
Lorenzo Desirò

Illustrazione di Flavia Cuddemi

 

Il giorno in cui sono guarito è stato quando mi hanno portato in città.

Non fu, però, il bravo dottore di città da cui andammo che mi curò, ma le immagini che vidi nella grande metropoli.
Da circa un anno passavo intere e interminabili giornate da solo, a camminare per quel piccolo rettangolo di giardino che avevo a disposizione. Raramente scambiavo parole con qualcuno.
Nel poco spazio a mia disposizione, in quell’angolo di Terra abbandonato da Dio, ero ossessionato dai miei pensieri “cosa sto facendo?” mi chiedevo ad ogni santissimo risveglio.
«Possibile che sia tutto qui? Possibile che la vita si riduca ad un misero “occupare il tempo”? Possibile che non ci sia niente di più di questo misero “occupare questo spazio”? Possibile che tutto finisca in un attimo? E possibile che questo “tutto” sia una momentanea e insensata occupazione di spazio e tempo?».

Sentivo non solo di sprecare la mia vita abbandonandola ad un quotidiano sempre uguale, ma che una via di fuga da quel nonsense e da quella monotonia pareva non esserci.

Le domande mi assillavano sempre di più, giorno dopo giorno.
Mi sembrava di essere intrappolato in una grande gabbia, mi mancava il respiro e tutto ciò che vedevo intorno a me mi dava un senso di nausea.

Lentamente il mio malessere interiore iniziò ad intaccare il fisico.

Svegliarmi e iniziare la giornata divennero operazioni sempre più faticose. Smisi di fare passeggiate e a mano a mano iniziai a saltare i pasti.
Quelli che vivevano con me, i miei coinquilini, continuavano a ripetermi: «Mangia! Devi mangiare! Lo sai che fine fanno quelli come te?».
Io provai, vi giuro che provai ogni tanto a mangiare con gli altri, ma il cibo non scendeva: si bloccava in gola. Iniziai a perdere peso a vista d’occhio e sentivo una stanchezza sempre maggiore.
La più piccola e banale operazione divenne uno sforzo sovrumano, tanto che per parecchio tempo rimasi nel mio giaciglio senza riuscire a fare nient’altro.
Dopo qualche giorno di stasi totale, venni visitato dal dottore del paese che mi diede delle medicine ma non servirono a nulla se non a farmi sentire sempre più fiacco e stanco. Continuavo a chiedermi “come fanno tutti gli altri a stare così tranquilli? Come fanno a vivere sapendo che tutto ciò che facciamo non ha alcun senso?»

Mi portarono quindi in città, dove, dicevano, c’era un dottore bravo.

«Depressione» sentenziò il bravo medico «Lui è malato di depressione».

Le persone che mi avevano accompagnato dapprima si misero a ridere, poi, dopo essersi ricomposti sbottarono: «Depressione?! Ma come è possibile?! Gli diamo tutto ciò di cui ha bisogno! Ha un tetto che lo copre dal freddo e dalla pioggia e ha anche sempre cibo in quantità! Ha un appezzamento di terra che quelli come lui se lo sognano da altre parti! È libero di fare quello che vuole dalla mattina alla sera e non gli manca nien-te! Fa una vita da Si-gno-re! Depressione … Pff … La vorrei io una vita come la sua!».

Anche il dottore bravo (che chiamano “veterinario”) mi prescrisse dei farmaci ma, come vi ho detto, non furono quelle pasticche a guarirmi ma ciò che vidi quando mi caricarono sul retro del camioncino: schiere di uomini, di esseri umani, accalcati su un mezzo che era grandissimo, lungo e alto e conteneva tantissime persone. Ne conteneva così tante che la gente al suo interno stava stretta stretta e accalcata. Li vedevo correre per prendere quel camioncino enorme. Nel traffico delle vie, spiai le vite degli abitanti della città: gente che correva, che urlava, gente triste ai bordi delle strade, grandi, piccoli, uomini, donne, quasi tutti da soli. Molti sorridevano ad uno schermo. Pochi parlavano. Qualcuno di loro correva per scendere sottoterra. Quelli in superficie erano incastrati in piccoli camioncini angusti, suonavano il clacson e bestemmiavano contro chi avevano di fronte nell’altro piccolo camioncino che sembra di latta.

Mi chiesi a quel punto: “Chissà se anche loro soffrono? Sono come i miei coinquilini che non si fanno domande oppure se le fanno anche loro e nonostante tutto continuano ad andare avanti?
Gli uomini li ho sempre visti come una razza superiore, ma vederli lì, in città, tristi e urlanti tra lo smog, sotto un cielo plumbeo, sotto una coltre di rabbia e odio. Anche loro avranno piccole felicità a cui aggrapparsi, ma in fondo, anche per loro valgono le mie domande: possibile che anche la vita degli umani si riduca ad una mera occupazione di spazio e tempo? Possibile che anche loro non aspirino a niente se non ad avere un tetto che li copra, pasti in abbondanza e una piccola superficie in cui passare il tempo? A loro basta? Loro, che sono così superiori a Noi, quale chiave di lettura hanno trovato per andare avanti? Cosa faranno mai di così grandioso?”

Guardai per tutto il tragitto le loro azioni e i loro movimenti e le loro espressioni. Piano piano uscii dalla città e tornai al porcile.

Rimasi qualche giorno nel mio giaciglio a pensare. Le immagini della metropoli mi scorrevano davanti e rimasi a riflettere.
Arrivai alla conclusione che quella specie così superiore, in fondo non era così superiore.
Anche loro nascono, crescono e muoiono senza alcun motivo. Senza alcun senso. Nel frattempo mangiano, occupano spazio, occupano il tempo e si riproducono.
Sorridono a qualche ghianda di felicità.

Questo pensiero mi fece stare meglio. Ricomincia a mangiare, a ingrassare, a prendere peso. Le domande non sparirono, ma il pensiero di vivere una vita come quella degli umani mi faceva sentire meglio.

Nessuna vita ha un senso.

Neanche quella dei vegani.

 

View More

di
Annalisa Maniscalco

 

Non rifletteva più nessuna faccia,
nessuna mano a ravviare chiome,
nessuna porta dirimpetto,
nulla cui possa darsi il nome
«luogo».

Proprio quando il 409 sta per lasciare il capolinea (Tiburtina FS, annunciano i led sul parabrezza), dall’hangar di legno che credevo abbandonato si precipita fuori un ragazzo. Ha un turbante scomposto intorno al viso e un involto discinto tra le braccia; si lancia contro la porta anteriore del bus e la picchietta di colpi decisi, ravvicinati. L’autista lo fissa in silenzio, poi soffia in un sospiro la sua magnanimità.

Con un movimento fluido, il ragazzo sale sul bus, aggira l’obliteratrice e si arrampica in cima a una ruota, in quello spazio senza sedile né dignità che resta deserto anche all’ora di punta. Sistema l’involto ai suoi piedi, pasticciando un po’ con le pezze che lo avvolgono, e una lama di luce accende il soffitto del bus.

Il tempo di un’istante; poi un aereo passa davanti al sole e il fagotto di pezze si smorza di colpo.

Batto le palpebre. L’avrò visto davvero?

Il 409 guada la Tuscolana e defluisce lungo via di Porta Furba. Sembra di passare un varco dimensionale, come quello dell’arco di Coppedè, il tunnel di graffiti tra Quadraro vecchio e nuovo, l’arcano di laterizi del Mandrione. Il ragazzo incrocia le gambe e, senza aggiustarsi il turbante che gli pende di lato, si volta verso il finestrino. Seduto così, le mani grandi sulle ginocchia, il profilo severo contro la luce del vetro, l’involto di stracci ai piedi come un mistero disseppellito, ricorda l’eroe di una fiaba mediorientale: un principe persiano in tuta acetata e sandali di plastica. La luce sbriciolata dagli ailanti in fiore irrompe nel bus e si concentra tutta intorno al fagotto di coperte — ma forse è solo la mia curiosità che ne sottolinea le forme, ne esalta i contorni.

Il bus approda a Torpignattara: qui sopravvivono le cabine telefoniche, i muri non nascondono le rughe dell’intonaco né i capelli bianchi dei cavi volanti. Salgono in molti, dai colori di spezie e terre bruciate; un uomo, più pallido e nostrano degli altri, avvista il ragazzo sul suo trono di ruota e lo punta deciso.
Lo avrà scambiato per qualcuno — Sindbad? Aladino? —: si sporge verso di lui e dalla maretta delle spalle capisco che lo sta apostrofando, con voce affilata ma sommessa. Un platano da fuori rabbuia l’aria, il riflesso sul finestrino si ottunde mentre il ragazzo si gira a rispondere, in un sussurro che è poco più che silenzio.
Ma ecco: l’albero tramonta e l’involto di pezze manda un altro lampo, che oscura il fondale convulso della Casilina.
L’uomo pallido sobbalza, si ritrae verso la porta di mezzo e scalpita, come su un ponte di legno, finché il bus non si ferma davanti ad un pronto soccorso; allora, senza voltarsi indietro, l’uomo svicola tra le porte e caracolla via.

Da qui in poi, il sollievo: la strada è più ampia, con i suoi alti e bassi di condomini e catapecchie. Questo settore di città appare anonimo, a chi ci passa e basta; ma da qualcosa — forse i germogli sui balconi — si avverte che chi ci vive ama questi intonaci, e fa sentire estranei quanti ne attraversano l’intimità.

Per un po’ non succede nulla; dopo Largo Preneste, altra via consolare, altro incrocio decisivo, con le iscrizioni Per grazia ricevuta, altro passaggio in mezzo al niente fino a un accostamento bizzarro: da un lato il Qube, dall’altro la locomotiva del deposito RFI. Poi il bus inciampa in una radice di pino: uno scampolo dell’involto appassisce, si sfoglia e, per la terza volta, una luce sventaglia le pareti.
Il ragazzo si illumina e si china a coprire quell’improvvisa nudità, ma ormai l’ho visto: lo spigolo di uno specchio con la cornice intarsiata.

È allora che, all’altezza di Casal Bertone, sul bus sale una ragazza slava, carica di sacchetti — pannoloni per anziani, pannolini per neonati.
Si ferma vicino alle porte centrali, il viso rivolto al principe persiano; ha la sua età ma colori opposti ai suoi — che però, per qualche ragione, parlano di lui: sabbia e cielo terso, sandalo e maiolica. Il 409 avanza a stento e la ragazza per tutto il tempo guarda il principe, con insistenza.

E lo fissa finché, nei pressi dell’Archivio di Stato (qui si stampavano i fotoromanzi), lui percepisce il suo sguardo; esita, poi si decide e, alla fine, le sorride: un sorriso di sbieco, timido e regale insieme.
La ragazza non risponde, ma nemmeno distoglie gli occhi: immobile, il ritratto di un paesaggio boreale.

Continua a scrutarlo, ancora, fredda e ostinata come un vento d’inverno, fino al deposito ATAC di Portonaccio, e la cosa si fa insostenibile persino per me che li osservo a distanza. Allora il principe imbraccia lo specchio, se lo aggiusta sulle ginocchia e si rannicchia tra cornice e finestrino. Un lembo delle coperte scivola e scopre la crepa che sfigura la superficie antica dello specchio.
La ragazza si guarda, si vede, e la crepa del vetro le apre nel riflesso un taglio sul cuore.
Quella vista la smuove e la spinge via, gli occhi duri e pungenti come le infiorescenze di ghiaccio alle finestre; e, voltandosi, mi sorvola col suo sguardo smarrito, equivoco, strabico: bellissimo.

Il ragazzo, dietro il suo scudo, le cerca gli occhi e non li trova più.

Ma il 409 rallenta, è la mia fermata: e finisce così, almeno per me, all’incrocio con un’altra via consolare, gli specchi della stazione Tiburtina a incorniciare l’orizzonte. Supero la ragazza slava, scendo dal bus, non resisto: mi guardo indietro, incontro gli occhi del principe — neri e diritti come due pozzi — e la vedo.

La vedo, e capisco il drappeggio sbieco del turbante, il sobbalzo dell’uomo pallido, la reticenza del sorriso e la cura con cui il ragazzo tratta lo specchio, nonostante la crepa — o forse proprio per la crepa, che gliela raddoppia e gliela nasconde.
Che gli raddoppia e nasconde una brutta, recente cicatrice sulla guancia.

Finisce così?

La ragazza slava si affaccia alle porte che stanno per chiudersi, fa un respiro profondo e dirotta intorno lo sguardo: esita, poi si decide e, alla fine, non scende.

Non rifletteva più nessuna faccia,
nessuna mano a ravviare chiome,
nessuna porta dirimpetto,
nulla cui possa darsi il nome
«luogo».

W. Szymborska, Lo specchio

View More

di
Arundo Donald

 

Quando Michela riprese coscienza si ritrovò sdraiata e disorientata.

La testa, infinitamente pesante, era quasi incollata al pavimento, e gli occhi gonfi e doloranti a malapena filtravano la luce tra le palpebre imbrattate.
Tutto ciò le dava un fastidio eccessivo eppure non riusciva a ricordare cosa le fosse successo. Ogni singola parte del suo corpo esitava a risponderle e tutto era un enorme forte dolore.
Qualcosa di certo doveva essersi accanita su di lei pensò.
Eppure non riusciva proprio a ricordare cosa fosse successo.
Sentiva il ferro in bocca, l’amaro, e cominciava a soffrire il freddo.
Ancora immobile e con gli occhi chiusi spronò i sensi ancora vividi tentando di intuire ciò che le stesse accadendo intorno. Dove fosse, chi l’avesse ridotta così, cosa avesse fatto per meritarsi tutto questo.
Provava a muovere il corpo. Ora un braccio, ora una gamba ma ogni singola parte non reggeva il dialogo. Era un continuo messaggio a senso unico. Doveva trovarsi su un autobus pensò e sperò che fosse notte.

Roma è bella la notte.

D’improvviso, come se il sole si facesse spazio tra le nubi scure, il freddo era caldo, il silenzio una musica soave e l’autobus si era animato. Su ogni sedile sedevano uomini e donne intenti a parlare, alcuni discutevano seri altri gesticolavano.
Le luci regalavano un tepore soffice e le persone intente a scambiarsi gesti e opinioni sembravano completare quel frammento felice.
Una bambina colpì l’attenzione di Michela. Era piuttosto magra, le braccia scoperte mostravano una pelle chiara del colore della Luna, ma le guance erano rosse e lasciavano intuire un senso di benessere. I capelli mori e morbidi le ricordavano i suoi. Erano lisci, di lunghezza modesta e sulla testa era posato un fermaglio di forma inusuale, ma non certo anomala.  Un cane era seduto dinanzi alla bambina. A Michela parve che la stesse fissando. Aveva il pelo burbero e il naso spigoloso.
Entusiasta si accorse che fuori dai finestrini era notte e ne fu felice.

Roma è bella vissuta di notte. Le capitava spesso.

Per un po’ rimase spettatrice di quell’evento. Per molto tempo in realtà.

Poi l’autobus fu di nuovo vuoto. La bambina con lo strano fermaglio e il cane irsuto erano scomparsi. Anche tutte le persone avevano smesso di parlare e le luci si erano fatte nuovamente livide.
Chissà quante fermate ancora avrebbe dovuto aspettare pensò, perché l’autobus si riempisse un’altra volta di gente tanto allegra. Chissà se mai sarebbe stato ancora così.

Ora tutto era buio e senza rumori.

Ora anche lei ricordava di essersi fatta un buco sull’autobus.

View More

di
Annalisa Maniscalco


Ancora sul 3, direzione Valle Giulia

L’uomo con il mazzo di rose sale sul 3 a via Carlo Felice. Lascia che gli studenti diretti alla Sapienza lo sorpassino sulla soglia del tram, proteggendosi i fiori contro il petto, poi guadagna la sua mattonella di spazio e si sistema in piedi vicino a me, ignorando un sedile libero.

«Scusi, non si siede?» gli chiede una ragazza, che ha le mani occupate di schiavitù: il cellulare e le cuffiette come rampicanti avvinti al polso, gli occhiali da sole inservibili in quest’ora aggrottata, il portafogli da cui sporge l’abbonamento. Fuorisede, deduco: non sa ancora che la metrebus può stare nascosta come un segreto tra le pieghe di un’abitudine.

L’uomo, ottant’anni circa e occhi molto azzurri, alza le spalle e le rose annuiscono permissive. La ragazza si siede e il cellulare le cade a terra con un rumore di sogni infranti. «Marò!»: l’uomo sorride, accenna a piegarsi su un ginocchio ma poi rinuncia al gesto e si limita a scostare il piede dal cellulare, e dalla ragazza china a raccoglierlo.

Le rose sono rosse, con del verde intorno e una spruzzata di gipsofila. Un bouquet senza profumo, quasi scontato nella sua elegante superfluità; e tuttavia spicca inedito sullo sfondo grigio del mezzo pubblico. Perché comprare dei fiori prima di salire sul tram, mi chiedo. La prima risposta è come le rose recise, banale e un po’ meschina: l’uomo è diretto al cimitero, non vuole piegarsi al ricatto dei fiorai, ne ha uno di fiducia sotto casa. O magari è fioraio lui stesso; e questa risposta, non so perché, mi convince di più, e mi avvicina quest’uomo dai calzoni un po’ corti e dalle unghie incartapecorite.

Il tram raggiunge Porta Maggiore e si ferma all’ombra dell’arco. Molti scendono a questa fermata, che è ancora oggi uno snodo di strade come un tempo era un nodo di acquedotti, e ancora prima un approdo di pellegrini venuti a sacrificare ad Spem Veterem. Ma quell’era è passata, il 3 riparte e quest’uomo non lascia i suoi fiori alla speranza, né alla prostituta che si affaccia annoiata da un platano in disparte.

Il 3 svolta a San Lorenzo, sotto un cielo di tangenziale. L’uomo ammicca a tutti i portoni, a tutte le finestre, come per rinfrescarsi una memoria che non aderisce più allo sguardo. Forse è stato bambino in queste strade, e le rose sono per una finestra che è esplosa in frantumi, o per un balcone che si è sbriciolato quel giorno di luglio in cui Roma è rimasta sgomenta e sfigurata dalle bombe — un giorno che ormai ricordano in pochi.

Il tram si ferma e l’uomo non scende; piuttosto, guarda sfilare via dei Reti passandosi il bouquet da un braccio all’altro: è già stanco ma non cede, neanche quando la ragazza di prima libera il sedile e scende alle Vetrerie Sciarra. L’uomo sta andando davvero al Verano, mi dico, e quei fiori sono per gli occhi di Alida Valli, o per lo spirito di Aldo Fabrizi, o per Rodari e le favole che l’uomo racconta a suo nipote; o magari per Eduardo, che qualche sera fa ha rischiato un brutto risveglio. Ma potrebbe darsi, banalmente, che le rose siano per sua moglie; eppure, l’uomo indossa la fede al dito, e mi scopro a sperare che non sia ancora vedovo. Ed ecco: il tram gira a via Regina Elena e l’uomo non si muove, se non per un distratto sussulto di rotaie.

Guarda fuori, l’uomo coi fiori, verso la Città Universitaria. Mi accorgo che lo spigolo di un libro fa capolino dalla tasca della sua giacca; chissà che non sia uno studente, e che non stia recuperando adesso un vecchio sogno: i fiori allora sarebbero per la docente che gli ha accordato la tesi, o per la segretaria che gli ha risolto un intoppo burocratico.

Poi anche la Sapienza scorre via, e l’uomo è sempre fermo, un po’ più curvo, un po’ più gualcito. A chi porti quei fiori, gli chiedo tra me e me con una tenerezza nuova; e realizzo che il 3 attraversa il quartiere doloroso del Policlinico. Ma le rose sono molto rosse, e gli occhi dell’uomo senza ombre; perciò, posso pensare che i fiori siano per la ginecologa che oggi va in pensione e che tanti anni fa ha fatto nascere il figlio dell’uomo — un parto difficile, in una notte di luna calante. Forse un giorno le intitoleranno una via del Policlinico.

Ma l’uomo lascia sbiadire la costellazione dell’Umberto I e le vie lattee del quartiere Salario, e continua a dondolare con il tram, sempre più appassito. Le sue mani, contro la iuta che avvolge le rose, sono spesse e terree, quasi grigie — gliele studio per cercare risposte e lui, stavolta, se ne accorge — ci concentriamo per caso sulla stessa rosa (ha un petalo color ruggine che freme precario a ogni scossa) e, in qualche modo, è come se ci incontrassimo.

Il tram fila col suo singhiozzo di fermate verso il Bioparco; una strana trepidazione risveglia l’uomo e qualche indizio trova ordine — la banalità delle rose, la modestia della iuta, il grigiore delle mani — in un’associazione bizzarra: forse scenderà allo zoo e offrirà i fiori a Sofia, l’elefante che gioca a palla. Pensiero ozioso, certo; anche se alla sosta l’uomo si affaccia fuori, in bilico, e il petalo arrugginito vola via tra le porte aperte.

Il 3 riparte verso il capolinea di Valle Giulia, alla facoltà di Architettura, e la soluzione del mistero si profila scontata e lucida: oggi la nipote dell’uomo discuterà la sua tesi e il nonno, raggiante, le donerà il bouquet di rose. Distolgo lo sguardo perché quest’ipotesi mi pacifica e insieme mi delude, come un sorso d’acqua tiepida. Ma poi il 3 si ferma alla penultima fermata, con un sussulto più brusco del solito, e allora mi volto di nuovo.

L’uomo con le rose non c’è più.

Le porte si chiudono, il tram riparte e io lo vedo, laggiù, che punta verso la Galleria Nazionale. Mi si accendono le guance, perché penso che quell’uomo non sta portando le rose a una persona.

Le sta portando a un’opera d’arte.

Forse alla donna dei Sogni di Corcos, perché gli ricorda sua madre da ragazza, o alla giovane che raccoglie un uovo dalla cesta, sul Tram di Guidi, come la studentessa di prima, col cellulare.

O forse, dopotutto, l’uomo darà le rose al Primo piano labbra di Pascali: perché anche lui, come me, ama immaginare ciò che non si vede.