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Satif, destinazione Nomentana
di
Arundo Donald

Capitolo quinto. Avanti tutta

 

La deflagrazione sarebbe stata da film.

Tutti i vetri dell’autobus sarebbero esplosi creando un effetto fontana con schegge sparate ovunque lontano. Il mezzo si sarebbe sollevato da terra di un metro buono, per poi ricadere producendo un tonfo sordo e metallico. Il quartiere intero sarebbe stato destato. Il mondo, finalmente libero.

Satif era a cavallo. Non mancava ormai molto perché il piano entrasse nel vivo dell’azione.

Conan aveva riempito la tanica con la benzina. A portarla era Andre nel suo Invicta Jolly arancione e giallo.
«Potevi scegliere uno zaino più visibile» disse Viky sfottendolo.
«Pensa a te, femminuccia!» rispose Andre ghignando e continuando a camminare.
La trovava carina quanto insopportabile. Aveva dei bei seni alti e delle gambe lunghe e veloci, proprio come la sua linguaccia.  Vestiva in maniera poco appariscente, ma si vedeva che aveva gusto. Insomma, ad Andre Viky non dispiaceva. Fisicamente, s’intende.

Satif si spostava velocemente verso la Nomentana attraversando le miti viette del Trieste Salario. Deciso e irrefrenabile, contava di raggiugere la fermata del 60 perfettamente in orario per le 10 e 30 circa.

Cinque fermate, due ville, sei semafori e circa 15 ambasciate più in là, sempre sulla Nomentana, Tiziano Farro era intento a fare colazione nel solito bar sotto casa.
«Ciao, Samantha, sei divina oggi! Che ci stanno i cornetti integrali alla pappa reale e cuore di lampone?»
Come sempre quando andava a incidere, faceva colazione, comprava qualche fresia dal fioraio romeno e poi prendeva l’autobus alla fermata d’angolo di viale Regina Margherita.

La Nomentana, a breve, sarebbe diventata un teatro di guerra.
A morte il trash, a morte i Viet Cong!

Franci nel frattempo era riemerso dal casinò senza fiches, ma con in mano una busta di mele. Ne addentava una camminando spedito verso la fermata più vicina. L’appuntamento con Ida era in centro. In un posto chiamato non ricordava neanche come. Poi sarebbero andati alla mostra di quel matto di Karlos.
Era felice di vederla e anche un po’ agitato. Non era molto che si frequentavano. Dopo l’incontro a Ostia, erano passate poche settimane durante le quali, se non si vedevano a casa di lei, andavano sempre a cena o al cinema. Ma anche a fare colazione e alle mostre.

Ida, dopo l’avventura consumata a casa dell’ex marito, era turbata. Avrebbe avuto voglia di dormire qualche ora, ma non poteva. Alle 11 e 30 aveva appuntamento con Franci al Caffè delle Arti in via Nazionale per una colazione veloce. Poi sarebbero andati alla mostra di Karlos Marranos, un fotografo brasiliano amico di Franci che viveva a Frosinone, dove aveva fondato una ONLUS che mandava soldi ai bambini delle favelas.
Lei che non usciva mai dai Parioli. Che adorava andare alle cene e agli aperitivi nei posti rinomati. Che odiava il diverso, storceva il naso, amava essere viziata e non le era mai fregato un cazzo delle stupide mostre da radical chic.
Pensò di essersi bevuta il cervello! Erano settimane ormai che si frequentava con uno che neanche poteva permettersi di pagarle una cena decente.
Uno che andava in giro come Jim Morrison nel periodo alcool e cocaina e che porcaputtana… la faceva impazzire.
Sì, si era proprio rincoglionita!

«Avanti tutta» disse Viky per spronare la squadra.
Ormai mancava veramente poco alla Nomentana. Erano circa tre chilometri buoni che camminavano e la stanchezza si faceva sentire. Lo zaino pesava.
«Ma non possiamo fare un po’ a cambio?» sbottò Andre scocciato.
«No» risposero in coro gli altri.
«Ma scusate, che senso ha? Che cazzo sarebbe la MIA missione?»
«No. Sarebbe che così è stato DECISO e così si va AVANTI e a tutta forza! Non si cambia un piano quando è bello che fatto. Si rispetta!»
Andre neanche rispose.
La odiava. Odiava quello zaino e odiava i suoi modi autoritari.
«AVANTI TUTTA!!» gridò Viky.

[continua… capitolo #06]

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Satif, destinazione Nomentana
di
Arundo Donald

 

Capitolo quarto. Tondini

Tiziano Farro era malato. Era indeciso se uscire per andare a registrare il suo ultimo capolavoro o restare a casa a farsi i pediluvi in pigiama con la birra al limone. Il dubbio era atroce. Era stanco e influenzato, ma la giornata era calda e forse uscire lo avrebbe aiutato a sentirsi meglio. Del resto, il pezzo che andava a registrare si chiamava: Anticorpi D’amore Vero.

E cosa c’era di più utile agli anticorpi di un po’ di aria fresca?

Si fece coraggio, prese la giacca pistacchio e uscì di casa.

Pochi isolati più avanti, un cinese con la faccia insanguinata per poco non travolse Ida che usciva dal palazzo di Martoni. Correva in preda al panico, trascinandosi su e giù per il marciapiede e gridando cose incomprensibili.
«Ma guarda te sto Viet Cong-muso giallo. Per poco non mi butta a terra, ‘sto maledetto!» disse delicatamente Ida da fan dei film muti anni ’30. In particolare adorava Apocalypse Now  versione integrale. Quello con il pezzo in cui Willard ruba la tavola da surf, per capirci.
Il cinese, non vietnamita, doveva ancora capire cosa lo avesse stroncato, aprendogli di netto quel buco sulla fronte.

Ida proseguì attraversando la strada verso la fermata occupata da un altro strano individuo. Era il Pomata, stremato dal suo stesso errore.

Pomata aveva usato l’oleandro. Ignaro delle proprietà velenose, ne aveva raccolto un mazzetto e dopo essersi pulito il culo era tornato a sedersi alla fermata. La sua igiene prima di tutto!
Ora la lava gli riempiva le mutande. Tale era la sua sofferenza, che neanche riusciva a star seduto fermo.
«Ahhh, ma oggi era da resta’ a casa me sa!» disse Ida, guardandolo contorcersi inorridita «Ma tutti a me i matti de Roma?»

Il Pomata sembrava avesse l’argento vivo addosso. Scorreva il culo su e giù lungo tutta la fermata, dove il grip di plastica, fatto a tondini, gli offriva l’unico sollievo per l’acutissima urticaria. Partiva da un lato, con metodo, e sgambettando raggiungeva il capo opposto. Aveva anche cominciato a fare dei versi. Ora i lunghi movimenti di scorrimento erano enfatizzati da dei lunghi ululati di apprezzamento puro. «Ahhhhrrrrr! Fiuushhh…»
La faccia di Ida era paralizzata. Quella scena era davvero troppo anche per lei! Certo, se avesse saputo che a centocinquanta metri in linea d’aria, un ex parà con una pessima mira stava puntando un fucile in quella direzione, probabilmente le sue preoccupazioni sarebbero andate altrove.

Nando puntava il Pomata. Ida lo fissava rabbrividita.
Lui, strofinava il culo sui tondini.

[continua… capitolo #05]

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di
Arundo Donald

Capitolo secondo. Uno, due e tlé

 

In un attimo Fernando e Ida si ritrovarono nell’imponente attico Martoni con quasi vista su Villa Torlonia. Fernando stringeva quei seni perfetti. Non li ricordava così. «Che se li fosse rifatti?»

Sentiva l’orgasmo crescere dentro di lui.

Quando avvenne, al luminare mancò la vista e tutto divenne nero per pochissimi secondi. Per un attimo, sparirono le mani di lei che stringeva la spalliera di ferro battuto del letto; le gocce di sudore che non smettevano di scenderle tra i seni; le coperte Ikea Luksory per veri intenditori in tinta con tende e copri poltrone. Sparì perfino quel senso di «che cazzata che stai a fa’ a riscopatte questa cagna», che durante tutto l’amplesso non lo aveva abbandonato e a breve sarebbe stato forte come non mai.

Non sapeva perché ma comunque si sentiva un leone. Nonostante l’età, la corsa mattutina e la totale assenza di colazione, si riscopriva sempre un uomo che adempiva i suoi doveri… anche con le cagne! Quando la vista tornò vide Ida con quell’espressione porca di soddisfazione, mista a velina di passaparola, che normalmente le disegnava la faccia dopo le più belle scopate. Allora capì… Era venuta anche lei!!

Mentre sotto le finestre dell’attico, i pesanti filobus sfrecciavano animando e inquinando la via Nomentana, Ida de Martini stringeva la spalliera in ferro battuto del letto e aveva caldo. Quello che fino a dieci minuti prima, per qualche strano motivo, le era ri-sembrato un individuo di sesso maschile con cui concedersi una scopata spensierata, ora le appariva come una moquette ansimante lontana dai bisogni erotici di una donna… di tutte le donne… probabilmente di tutto e basta!

Doveva evadere. Pensò che forse avrebbe potuto cambiare la lavatrice e che quel giorno la palestra sarebbe rimasta chiusa e che il centro commerciale non era poi tanto lontano… Poi udì il rantolo. Era fatta! D’impulso improvvisò come meglio poteva una faccia compiaciuta… e pregò che nel frigo ci fosse del thè freddo.

Mentre nell’appartamento del Martoni, dopo la chiavata, si discuteva su chi dovesse fare per primo la doccia, pochi piani più in alto Nando era sconcertato.

Di famiglia modesta, devota alla divisa, originario e residente in quel quartiere, di porcate nella sua carriera ne aveva viste molte, ma mai di quel calibro.

Una volta, nel cuore della notte, tornando dalla rimessa ATAC, aveva visto un tale che si masturbava dentro una cabina telefonica. Nella cabina aveva poi trovato una gigantografia di Iva Zanicchi, per giunta nel suo aspetto attuale. Un’altra volta aveva visto un tipo con indosso un costume da Uomo Ragno scalare il muro di cinta di villa Paganini per poi denudarsi aggrappato a una quercia.

Ma stavolta Nando Cei era furioso. Cagare per strada… E alla fermata… Questo non gli andava proprio giù!!

Rientrò frettolosamente in casa e ricomparve fiero con la carabina a piombini Beretta. «Per la Buonanima!» strillò.

Nel quartiere San Lorenzo invece, Francesco Bottarga detto Franci, quella mattina aveva messo quattro sveglie, programmando alle nove persino l’allarme del microonde.

Quando suonarono tutte insieme, per il rumore, fu come assistere in prima fila alla parata del 2 giugno.

Franci scattò dritto sul letto e insieme a lui ogni cosa abbandonata sul piumone. Il posacenere fece circa mezzo metro, rovesciando l’intero contenuto sulle lenzuola. Tre lattine di birra vuote rotolarono fino a cadere sul pavimento, producendo un suono troppo sordo per dei timpani così assonnati. Un paio di plettri arrivarono al bagno. Poi Francesco Bottarga osservò la sua stanza.

Non poteva più vivere in quel modo. Ora c’era Ida!

L’odore nauseabondo delle sigarette gli opprimeva il respiro. La luce del bagno accesa. Il fruscio dell’amplificatore valvolare. Le tazze vuote dei cereali e un bong ingiallito contornavano il suo letto. Perfino una mosca, che doveva essersi sbagliata a entrare, sembrava volare con disgusto tra quei rifiuti ammucchiati ovunque. Franci chiuse gli occhi e si lasciò cadere all’indietro rovesciando un altro posacenere. «E che cazzo!»

Intanto dalla finestra Nando puntava il Pomata.

Da giovane, prima di entrare all’ATAC, aveva fatto il militare a La Spezia e sparare gli piaceva un casino. Se avesse avuto anche la mira, probabilmente, sarebbe rimasto nell’esercito.

Il primo colpo non si avvicinò neanche lontanamente al bersaglio. «’Tacci tua…» esclamò Nando strizzando l’occhio per prendere meglio la mira. Il secondo tentativo non andò meglio. Male anche il terzo. Effettivamente non lo ricordava così difficile. Allora cercò un bersaglio più vicino e spostando rapidamente il fucile puntò dritto un asiatico seduto al bar sotto il palazzo.

«E mo’ er cinegro lo inculamo…» disse con tono serissimo di sfida. Di certo le idee politiche le aveva ben chiare.

«uno… due… tlé!» disse premendo il grilletto.

Il piombino squarciò l’aria e diversi moscerini raggiungendo il piccoletto a velocità smodata. Lui improvvisamente si sentì esplodere la fronte!

«Dai cazzooo!», esclamò Nando strizzando il fucile in mancanza di compagni con cui festeggiare. Gli occhi erano lucidi che quasi piangeva dalla gioia. Aveva fatto un centro perfetto.

Euforico, rientrò velocemente per non farsi notare.

Ora toccava al Pomata!

[Continua.. capitolo #03]

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di
Arundo Donald


Capitolo primo. 
Personaggi


Il Pomata:

Franco Vitali detto il Pomata era accucciato alla fermata e partoriva il suo stronzo. Nel bel mezzo della via Nomentana, dopo il rito del caffè e la sigaretta, dopo la parziale lettura de Il Manifesto (che quel giorno titolava «svuotati di tutto») non era più riuscito a trattenersi.
Doveva cagare!

Dopo un’analisi scrupolosa aveva scovato il giusto palcoscenico per quella selvaggia necessità mattutina.  Spalle alla fermata, tra due cespugli di oleandro, si apriva l’angolo più impeccabile, la soluzione più esemplare. L’arena finale!

Franco Vitali detto il Pomata era accucciato tra gli oleandri e partoriva il suo stronzo; e ogni secondo temeva l’arrivo di qualcuno: sua moglie Giordana, il parroco di Sant’Agnese, il suo capo, persino il magrebino al semaforo. Essere scoperto sarebbe stata la sua fine e nel quartiere tutti avrebbero detto: «hai sentito di Vitali? Si si, pare che stesse cagando sulla Via Nomentana!» E ancora: «hai sentito cara? Pare che Vitali sia malato e che riesca a cagare solo per strada! Nooo… non mi dire!»

Aveva calcolato tutto. Il posto molto ben riparato; l’assoluta sicurezza di non imbattersi in vecchi rompicoglioni; l’angolazione ottimale anti macchine in fila.  Poi, quando il peggio era passato, quando solo pochi gesti lo separavano dal tornare al suo giornale, una nuova e struggente angoscia pugnalò la sua mente.

Aveva scordato i fazzoletti!

 Fernando e Ida:

Fernando Martoni stava rientrando in casa dopo la corsa mattutina delle sette quando…

«Ciao Ferni’, ti sei rimesso sotto eh? Da sposati sto fisico te lo sognavi… non mi dire che hai pure ricominciato a scopare?»

Quella che per il luminare, il mite clima romano aveva partorito come una mattina splendida e luminosa, era improvvisamente diventata peggiore di uno spasmo alcolico prima di una vomitata colossale.

Fino a dieci minuti prima, il famoso dott. Martoni, proprietario del rinomato studio medico Martoni in via Po 45, doppiava grassottelli sudati, scansava vecchietti ed evitava feci di cane improvvisando salti alla Edwin Moses.

«Ti ricordi Franci? Quello che viveva in Perù e che studiava le differenze somatiche degli indigeni tribali sui monti Titicaca… quello con la moto… che suonava il basso elettrico… beh sai, usciamo insieme!»

Il medico barcollò. Paonazzo per la corsa e in chiaro deficit di ossigeno, digrignò barbaramente i denti, rivolgendo al cielo lo sguardo. In bocca, il sapore aspro e amaro della bile gli risalì come la schiuma dello spumante versato troppo velocemente. Sentire quella cagna lo faceva star male. Lo devastava.

Esitò un istante. Poi contrattaccò:

«Scusami, hai detto qualcosa? Credo di avere il volume delle cuffie un po’ alto. Sono felice di vederti. Noto con piacere che non hai abbandonato la tua aria da stronza straccia cazzi».
E ancora: «all’inizio non ti avevo notata sai… tutte quelle lampade ti fanno confondere col muro in mattonato del palazzo».

La donna si sentì derubata delle gambe. Tra lei e il marciapiede in lastricato grigio di peperino si era creato il vuoto. Tutto si fece grigio e per un attimo si sentì esplodere.  Poi l’odio la calmò.

Ida de Martini respirò profondamente, riacquistò lucidità e le gambe ripresero a sorreggerla. Il viso serenamente si rilassò addolcendosi.

«Ti va di scopare?»

 Satif:

Satif prese il sentiero sterrato che da via Panama tagliava per il bosco. Da lì avrebbe raggiunto l’ingresso dei cavalli e poi a piedi fino alla Nomentana. Aveva messo da parte ben trentacinque euro e venti centesimi, senza contare i ramini. Camminando attraverso querce e cespugli di alloro ripassava il suo piano e lo trovava perfetto.

«Comprare una bella tanica e poi riempirla al benzinaio più vicino. Nasconderla in uno zaino, salire sull’autobus e poi farsi esplodere».

Il piano non era male. Cazzo se non era male.

Nando:

Nando Cei, ex autista ATAC presso la rimessa di viale Parioli, era affacciato alla sua finestra su via Nomentana e guardava un matto cagare alla fermata.

Franci:

Francesco Bottarga amava farsi chiamare Franci.

Aveva 27 anni compiuti. Iscritto all’Università La Sapienza di Roma, era riuscito a svoltare una triennale in antropologia in appena sei anni e ora si dedicava al suo master in antropologia e cooperazione sub-tropicale. Era stato addirittura capace di ottenere una borsa di studio che riusciva a malapena a pagargli l’affitto della stanza a San Lorenzo e la spesa al supermercato per camparci tutto il mese. Per l’erba, la birra, il cinema, il cinese il venerdì e tutto il resto, si era sempre dato da fare alla meglio, facendo creste agli amici sul fumo e battendo cassa ai suoi genitori.

Le giornate di Franci cominciavano tardi e finivano anche più tardi. Sveglia alle undici se c’erano cose importanti, altrimenti mai prima delle dodici e trenta. Orario sconfacente ma comunque necessario. Doccia veloce senza shampoo, inutile continuare a spremere quelli finiti; ricerca nella vasca di mozziconi di saponette per lavare schiena e ascelle; deodorante stick allungato con acqua; vestizione rapida, phon, occhiata alla mail, mezza moka di caffè, canna spenta la notte prima e la giornata cominciava liscia come l’olio.

Il pomeriggio di solito lo consumava in sala prove a martoriare il basso, le serate col gruppo a martoriarsi lui. Di norma sempre bevendo birra, rum e fumando erba. La musica rock come immancabile sottofondo d’ispirazione.

Ma ora era diverso, ora c’era Ida…

I due si erano conosciuti al mare, a Ostia, durante la festa del calamaro in umido di Ostia Antica. Lei era lì con degli amici e si annoiava; lui era con il gruppo al completo, i Red Butterfly, dopo l’apertura del concerto di fine estate che si svolgeva tutti gli anni allo stabilimento Il Tirrena accanto alla finanza. Lei si era fatta convincere ad andare a quella stupida festa «solo perché a Roma non c’è un cazzo da fare come al solito e in fondo vedere il mare mi fa sempre piacere»; lui si era fatto convincere a suonare per quattro coatti, una mandria di vecchi troppo abbronzati e per giunta accanto a uno stabilimento di guardie, solo perché «a Ostia alla fine se becca sempre qualche trucida cretina».

A un certo punto, in mezzo alla rotonda alla fine della Colombo, i loro sguardi si erano incrociati!

Lei aveva accennato un sorriso, lui si era spiaccicato un calamaro sulla guancia mancandosi la bocca!

«È ’na fregna! Grande… magari MILF. Ma è proprio ’na fregna!»

[continua – Capitolo #02]

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di
Sabrina Sciabica

 

«Mi ha tradito. Cristiano mi ha tradito» diceva in modo concitato Katia parlando con Debora, sul 60. «Dopo che ho lasciato Giuliano pe’ stare co’ lui, dopo che ho interrotto co’ Paolo per farlo felice, solo perché ieri sera ho rivisto il mio ex, Giovanni. E poi perché Giovanni aveva lasciato Maria e aveva bisogno di parlare co’ qualcuno… e così Cristiano mi ha fatto il dispetto».

«Dài, non puoi saperlo, Cì, anche di Giovanni lo dicevi e invece era rimasto a dormire da su’ sorella» cercava di calmarla l’amica. Io le ascoltavo attentamente e tenevo le cuffiette attaccate al cellulare per far credere che ascoltassi musica. Sapevo già di Giovanni, di Giuliano, ma di Cristiano non ancora! Le vedevo quasi tutte le mattine, belle, super truccate, artigli rossi e tacco 10, impiegate alle poste, brave lavoratrici, sempre puntuali, leggermente pettegole, decisamente istintive, vita sociale a mille.

«Da su’ sorella? Fino alle 3 del mattino? E col rossetto sulla camicia? E quel profumo, poi… era così stanco che me l’ha pure lasciata là sulla lavatrice e apposta stamattina ho capito tutto. Ma vedrà. Se ne pentirà. Nun ha capito che noi donne abbiamo mille poteri. Sta ancora a dormì, e quanno me chiama nun rispondo proprio. Mo’ ce penso io. Mo’ ce penso proprio io. Se lo sogna di stare ancora da me. Mo’ vedrai, vedrai. Vedraaaaaaaaai!» terminava, sottolineando la “a”.

«Ambè, se è così! Eppure, Cì, io da lui popo popo nun me l’aspettavo! Valli a capì st’omini. Ma che vogliono di più? La solita storia: anvedi che stronzi!»

E no! Porca paletta, stanno già scendendo a Regina Margherita, è venerdì, e domani non le becco, mannaggia!

Come ogni lunedì mattina aspetto il 60, triste più che mai perché Giacomo non si è fatto sentire tutto il week-end e il mio cellulare è stato silenzioso, a parte le chiamate di mamma per raccontarle che non ho fatto niente per ben due giorni di seguito. Vita sociale zero. Eccolo! Ed eccole! Salgo curiosa. Oggi è strapieno, devo schivare un po’ di ragazzini prima di avvicinarmi a loro e indossare le solite cuffiette. «E insomma, e lui?» chiede Debora mentre penso che peccato, devo aver perso un bel pezzo del discorso.

Katia è più vaporosa e contenta del solito: «Cristiano prima dice che è colpa mia che è andato male il colloquio, che doveva prendersi il vestito buono che aveva da me e io non mi sono fatta trovare apposta, e così ha perso il posto da buttafuori perché c’aveva i jeans e questi avevano specificato di vestirsi bene».

Risate fragorose. «E ieri invece?» chiede Debora.

Katia mette un ghigno malefico e ricomincia: «Ieri pomeriggio, verso le sette, me richiama e me dice: “A Ka’, ma perché te stai a comportà così? Ho capito che ho esagerato con la storia del vestito, per averti dato colpe, ma ti ho chiesto scusa mille volte! Non ho capito perché stanotte non mi hai voluto. Ma comunque, devi venire qua a prendermi! Sto ’nguaiato, amo’! Non sai che m’è successo: mi’ fratello, che mi doveva accompagnare ad Ostia pe’ l’altro colloquio al Lido del suo amico, c’ha la febbre e m’ha detto prendite er motorino mio. Arrivo là e trovo tutto chiuso! Ho chiamato e dice che c’ha provato ad avvisamme ma oggi non riesce a venire, rimandiamo a quanno non lo so, forse domani. Insomma co’ la santa pazienza me rimetto sulla Via del Mare e sento ’na puzza e un rumore… manco il tempo di rendermi conto, che sto coso se ferma e non riparte più. Viemme a prende amo’, nun so chi chiama’!”».

«Ammazza, Cì! Brutto su ’a Via der Mare! E quindi, tu ce sei annata?» chiede sconvolta Debora.

E l’amica continua: «Ma che stai a di’, Deb? Io je faccio: “Chiedilo a tu’ sorella… no scusa eh, me senti? So’ da mi sorella, ma siamo andati al lago a prendere un gelato coi regazzini, ammazza quanto mi dispiace! E prova a chiama’ l’amici tua, dài. A Cristia’, aspe’, ma nun facciamo che porti ’n po’ sfiga? Ma c’hai fatto quarcosa? Che c’è quarcuna che te vole male, ’sto periodo? Me sembra ’na sfiga continua!”.

Lui: “Amo’, sei sicura che non potete veni’?”.

E io: “Eh no, teso’, e come vengo da Bracciano a Ostia? Fai prima a chiama’ tu’ padre”.

E lui: “Vabbè, famme chiude e vediamo. Ahh no, senti, n’artra cosa. Se questo mi chiama per torna’ domani, mi lasci le chiavi della Punto di tuo fratello? Senza motorino come ce torno qui, porco cane?”.

E io: “Ennò, amo’, proprio domani è il giorno che Antonio va in tipografia a Cecchina, se la porta tutto il giorno la macchina”.

E lui, subito: “Vabbè dài, ne parliamo meglio stasera, vengo pe’ cena”.

E io: “Ah no no, stasera rimango da mamma, stiamo tutti insieme, pure coi ragazzini, ti ho detto. Dài, ci sentiamo ’sti giorni. Senti a me, fidate, chiama subito quarcuno prima che te ’nvestono sulla Via del Mare!”.

E ho chiuso».

Tra lo sbigottimento di Debora e il divertimento di Katia, Mira, Sofia sin tu mirada, sigo, la suoneria di Katia, che scuote il sedere tutte le volte che le squilla il cellulare.

«’Spetta Deb, me stanno a chiama’… ah ma è Max! Lui sì che ce tiene! M’ha chiamato ieri. Separato, niente figli. Soprattutto figlio unico, niente sorelle per rimane’ a dormì. Dai, je chiedo se c’ha n’amico…»

Ma rispondendo scendono dal mezzo, le perdo di vista e… non ho il tempo di chiedere… se ’sto Max c’ha n’amico anche per me!!!

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 di
Annalisa Maniscalco


Sul 117, direzione Popolo

Oggi è una di quelle giornate da ultima volta. Sarà per via del sole d’ottobre, non si sa mai quanto può durare. È anche un venerdì 13, e l’aria è lievitata, densa d’avvertimenti ma pure di luci succose. Per evitare rischi e rimpianti, rinuncio ai tunnel della metro e salgo piuttosto sul 117, uno di quei minibus elettrici che ogni tanto spariscono dalle strade di Roma, come le blatte d’inverno.

Il bus punta il Colosseo ma poi devia di colpo verso il Celio, passando in una feritoia tra certe mura vetuste e altre che sono solo molto vecchie. A via Claudia — pare sia più antica dell’Appia, con quel suo senso di pietra ineluttabile, gli alberi stupiti e i ciottoli a quattro ruote — sale una ragazzina: dodici anni, forse tredici, una treccia rossiccia sulla schiena, il busto ancora compresso e le gambe invece lunghe, ma immature, con ginocchia sbozzate sotto le calze bianche di non so che divisa scolastica. Batte tre colpetti sul vetro della cabina di guida; l’autista la guarda dallo specchietto e le risponde con un cenno, un pugno chiuso e un pollice in su. Quel gesto è una domanda, forse una consuetudine fra loro due, e la ragazzina risponde a occhi bassi, con un tremito del mento.

Il bus riparte, la ragazzina si siede composta di fronte a me, la cartella sotto il braccio e una custodia nera sulle pieghe della gonna; ma il suo piede destro, nella ballerina di vernice, batte un tempo asimmetrico e convulso.

Alla fermata del Colosseo — che è sempre una sorpresa, quando appare: un miracolo candido e massiccio, solido come certe improvvise decisioni — salgono tre liceali voluminosi, con le cuffie intorno alla gola e gli zaini semivuoti sopra gli omeri.

«Scusa Tommà, come hai fatto a saltarla?» sbotta una ragazza con un libro tra le braccia.

«Oh, senti, non ho fatto in tempo» risponde Tommaso, lanciando lo zaino in fondo al bus.

«Però la sapevi. No?»

Il ragazzo incrocia le braccia, appoggia la spalla a un sostegno e sogghigna.

«E ride! Te lo scordi che passo un altro pomeriggio a farti studiare.»

«Angè» interviene il terzo, biondo e sottile, che non ha smesso di guardarla da quando sono saliti, «l’hai capito, finalmente».

«Ieri, due ore solo sulla Monaca di Monza» si lagna lei, con un grazioso moto di riccioli neri, «e oggi questo ha il coraggio di lasciarla in bianco».

Si guardano, Angelica e il biondo, concordi su un punto e forse, chissà, volendo anche su altri, e l’equilibrio si sposta. Tommaso, che è imponente, sì, ma d’improvviso è anche solo, afferra il sostegno e tende le braccia.

«Ma sì che la sapevo» ammette, buttando gli occhi altrove, eppure tutto teso verso Angelica. E, a sorpresa, cita: «Non le bastava l’animo di spiattellargli sul viso un bravo: non voglio».

E non è nemmeno il passo più famoso . Angelica, il biondo, io, la ragazzina: lo guardiamo tutti. E Tommaso, ch’era già imponente e ora è tornato anche centrale, guadagna un sedile e si piazza le cuffie sulle orecchie.

A via Panisperna sale una donna, di quelle che possono pensarsi solo con un “Signora” davanti. Disdegna lo zaino di Tommaso con una specie di passo di danza, e bussa — non ha guanti, ma tra qualche giorno li indosserà di certo — sul vetro dell’autista.

«Mi scusi.»

L’autista le mostra il profilo.

«È vero che questa linea sarà soppressa?»

«Sospesa, signò. Da lunedì.»

La Signora si volta, appena sconcertata (il tutto si limita a una curva più acuta delle sopracciglia color ambra) e si accomoda accanto alla ragazzina, che d’istinto ha raccolto le caviglie sotto il sedile e ha raddrizzato la schiena.

E ora guarda fuori, verso via Nazionale, mentre Angelica finge di leggere, il biondo racconta una prodezza in motorino, Tommaso lo contraddice con occhiate scettiche, la Signora si liscia la borsa.

Ma in realtà l’aria è ferma, risentita, color ambra. Finché, davanti al Palazzo delle Esposizioni — un’altra visione in bianco —, la ragazzina si agita sul sedile, come se facesse no con tutto il corpo. Le tremano le dita di risolutezza mentre apre la custodia nera, monta un flauto traverso lucido di cure e d’esercizio, respira a fondo e si avvicina lo strumento alle labbra.

Il bus si ferma a un incrocio. La Signora batte le palpebre; qualcuno — forse il biondo — tossicchia.

E la ragazzina indovina la prima nota. Come se ce la aspettassimo tutti, come la suoneremmo tutti se solo sapessimo farlo. Lunga e pungente, ostinata come un’obiezione, poi sfuggente come un dubbio, infine sofferente: un pianto che squassa il torace. Il suono si divincola fra capriole e rovelli ma alla fine esce corposo e pulito, continuo e affidabile come una promessa, una rassegnazione — un accordo, quasi, se non fosse che ha una voce sola. E pare che non abbia gli anni della ragazzina, ma che riecheggi da sempre tra una finestra aperta e un muro di cinta.

C’è tutto questo, dentro al flauto della ragazzina, e in fondo al suo petto. Ma all’improvviso, a via del Babuino, l’ultima nota si svuota di colpo non appena le porte si aprono.

Nessuno ha prenotato la fermata, nessuno aspetta accanto alla palina. E nessuno fiata, nel bus: soltanto un sospiro metallico spira dalla cuffia di Tommaso, dimenticata sulle clavicole. L’autista fissa la treccia della ragazzina da dietro il vetro, come un pesce dal suo acquario, confuso — eppure, penso, lui è l’unico che sa, e le sta dando tutto il tempo che le serve.

La ragazzina guarda un punto davanti a sé, dentro un vicolo laterale; rabbrividisce, si alza e fa un piccolo inchino. Poi, senza fretta né ripensamenti, scende dal bus e prende un’altra strada.

Lasciando il flauto sul sedile.

Un momento ancora; e, alla fine, le porte si chiudono.

 

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di
Annalisa Maniscalco

 

Non rifletteva più nessuna faccia,
nessuna mano a ravviare chiome,
nessuna porta dirimpetto,
nulla cui possa darsi il nome
«luogo».

Proprio quando il 409 sta per lasciare il capolinea (Tiburtina FS, annunciano i led sul parabrezza), dall’hangar di legno che credevo abbandonato si precipita fuori un ragazzo. Ha un turbante scomposto intorno al viso e un involto discinto tra le braccia; si lancia contro la porta anteriore del bus e la picchietta di colpi decisi, ravvicinati. L’autista lo fissa in silenzio, poi soffia in un sospiro la sua magnanimità.

Con un movimento fluido, il ragazzo sale sul bus, aggira l’obliteratrice e si arrampica in cima a una ruota, in quello spazio senza sedile né dignità che resta deserto anche all’ora di punta. Sistema l’involto ai suoi piedi, pasticciando un po’ con le pezze che lo avvolgono, e una lama di luce accende il soffitto del bus.

Il tempo di un’istante; poi un aereo passa davanti al sole e il fagotto di pezze si smorza di colpo.

Batto le palpebre. L’avrò visto davvero?

Il 409 guada la Tuscolana e defluisce lungo via di Porta Furba. Sembra di passare un varco dimensionale, come quello dell’arco di Coppedè, il tunnel di graffiti tra Quadraro vecchio e nuovo, l’arcano di laterizi del Mandrione. Il ragazzo incrocia le gambe e, senza aggiustarsi il turbante che gli pende di lato, si volta verso il finestrino. Seduto così, le mani grandi sulle ginocchia, il profilo severo contro la luce del vetro, l’involto di stracci ai piedi come un mistero disseppellito, ricorda l’eroe di una fiaba mediorientale: un principe persiano in tuta acetata e sandali di plastica. La luce sbriciolata dagli ailanti in fiore irrompe nel bus e si concentra tutta intorno al fagotto di coperte — ma forse è solo la mia curiosità che ne sottolinea le forme, ne esalta i contorni.

Il bus approda a Torpignattara: qui sopravvivono le cabine telefoniche, i muri non nascondono le rughe dell’intonaco né i capelli bianchi dei cavi volanti. Salgono in molti, dai colori di spezie e terre bruciate; un uomo, più pallido e nostrano degli altri, avvista il ragazzo sul suo trono di ruota e lo punta deciso.
Lo avrà scambiato per qualcuno — Sindbad? Aladino? —: si sporge verso di lui e dalla maretta delle spalle capisco che lo sta apostrofando, con voce affilata ma sommessa. Un platano da fuori rabbuia l’aria, il riflesso sul finestrino si ottunde mentre il ragazzo si gira a rispondere, in un sussurro che è poco più che silenzio.
Ma ecco: l’albero tramonta e l’involto di pezze manda un altro lampo, che oscura il fondale convulso della Casilina.
L’uomo pallido sobbalza, si ritrae verso la porta di mezzo e scalpita, come su un ponte di legno, finché il bus non si ferma davanti ad un pronto soccorso; allora, senza voltarsi indietro, l’uomo svicola tra le porte e caracolla via.

Da qui in poi, il sollievo: la strada è più ampia, con i suoi alti e bassi di condomini e catapecchie. Questo settore di città appare anonimo, a chi ci passa e basta; ma da qualcosa — forse i germogli sui balconi — si avverte che chi ci vive ama questi intonaci, e fa sentire estranei quanti ne attraversano l’intimità.

Per un po’ non succede nulla; dopo Largo Preneste, altra via consolare, altro incrocio decisivo, con le iscrizioni Per grazia ricevuta, altro passaggio in mezzo al niente fino a un accostamento bizzarro: da un lato il Qube, dall’altro la locomotiva del deposito RFI. Poi il bus inciampa in una radice di pino: uno scampolo dell’involto appassisce, si sfoglia e, per la terza volta, una luce sventaglia le pareti.
Il ragazzo si illumina e si china a coprire quell’improvvisa nudità, ma ormai l’ho visto: lo spigolo di uno specchio con la cornice intarsiata.

È allora che, all’altezza di Casal Bertone, sul bus sale una ragazza slava, carica di sacchetti — pannoloni per anziani, pannolini per neonati.
Si ferma vicino alle porte centrali, il viso rivolto al principe persiano; ha la sua età ma colori opposti ai suoi — che però, per qualche ragione, parlano di lui: sabbia e cielo terso, sandalo e maiolica. Il 409 avanza a stento e la ragazza per tutto il tempo guarda il principe, con insistenza.

E lo fissa finché, nei pressi dell’Archivio di Stato (qui si stampavano i fotoromanzi), lui percepisce il suo sguardo; esita, poi si decide e, alla fine, le sorride: un sorriso di sbieco, timido e regale insieme.
La ragazza non risponde, ma nemmeno distoglie gli occhi: immobile, il ritratto di un paesaggio boreale.

Continua a scrutarlo, ancora, fredda e ostinata come un vento d’inverno, fino al deposito ATAC di Portonaccio, e la cosa si fa insostenibile persino per me che li osservo a distanza. Allora il principe imbraccia lo specchio, se lo aggiusta sulle ginocchia e si rannicchia tra cornice e finestrino. Un lembo delle coperte scivola e scopre la crepa che sfigura la superficie antica dello specchio.
La ragazza si guarda, si vede, e la crepa del vetro le apre nel riflesso un taglio sul cuore.
Quella vista la smuove e la spinge via, gli occhi duri e pungenti come le infiorescenze di ghiaccio alle finestre; e, voltandosi, mi sorvola col suo sguardo smarrito, equivoco, strabico: bellissimo.

Il ragazzo, dietro il suo scudo, le cerca gli occhi e non li trova più.

Ma il 409 rallenta, è la mia fermata: e finisce così, almeno per me, all’incrocio con un’altra via consolare, gli specchi della stazione Tiburtina a incorniciare l’orizzonte. Supero la ragazza slava, scendo dal bus, non resisto: mi guardo indietro, incontro gli occhi del principe — neri e diritti come due pozzi — e la vedo.

La vedo, e capisco il drappeggio sbieco del turbante, il sobbalzo dell’uomo pallido, la reticenza del sorriso e la cura con cui il ragazzo tratta lo specchio, nonostante la crepa — o forse proprio per la crepa, che gliela raddoppia e gliela nasconde.
Che gli raddoppia e nasconde una brutta, recente cicatrice sulla guancia.

Finisce così?

La ragazza slava si affaccia alle porte che stanno per chiudersi, fa un respiro profondo e dirotta intorno lo sguardo: esita, poi si decide e, alla fine, non scende.

Non rifletteva più nessuna faccia,
nessuna mano a ravviare chiome,
nessuna porta dirimpetto,
nulla cui possa darsi il nome
«luogo».

W. Szymborska, Lo specchio

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di
Lorenzo Desirò

I fatti riportati in questo racconto sono accaduti su un autobus una sera d’inverno in una grande città. Per quanto viene narrato se ne consiglia la lettura ad un pubblico di soli adulti.

La giornata di lavoro è conclusa per la Moltitudine che, stanca, si accalca sul mezzo pubblico per tornare a casa il prima possibile.

Vuole rincasare presto, la Moltitudine, per sedersi a tavola per la cena. Poi, stanca, guarderà distrattamente qualcosa in Tv, andrà a letto e, sempre più stanca, si riposerà per affrontare al meglio il giorno seguente. All’indomani si sveglierà presto, la Moltitudine, prenderà l’autobus che la porterà in ufficio e la sera, disperatamente stanca, si accalcherà di nuovo sul mezzo per tornare presto a casa.

Un uomo della Moltitudine, smunto e magro, lotta per restare in equilibrio. Si sta stretti sul bus. Si sta stretti come gli amanti d’inverno.

All’improvviso il veicolo curva bruscamente verso sinistra. Braccia e mani e gomiti e spalle e polpacci si incontrano e si scontrano. In quell’istante all’uomo smunto e magro sembra di sentire una mano scivolare dentro la tasca destra del suo cappotto.

Istintivamente si tasta (per quel che può) l’intero soprabito. Si guarda intorno, si gira di scatto e urla: «Il portafoglio! Mi ha rubato il portafoglio!» e lancia il suo indice sottile verso il colpevole. La Moltitudine drizza le orecchie:

«Sei uno schifoso!» urla qualcuno verso l’uomo indicato dal derubato.

«Ladro!» grida qualcun altro.

E iniziano ad accavallarsi le voci dei corpi accavallati: «Farabutto!», «Vergognati!».
Tra la confusione cerca di farsi largo un giovane palestrato; avanza tra i corpi della Moltitudine: «Ci penso io a te, figlio di puttana!» e arrivato di fronte all’unico indiziato, lo spintona fino a farlo finire con le spalle contro il finestrino. Senza troppi indugi, lo colpisce col primo schiaffo.

«Bravo!», «Così si fa!» voci tra la folla.
Vola un secondo schiaffo, poi un altro, poi un altro ancora e poi, non inaspettatamente, una testata dritta in bocca.

Il malvivente sanguina dal labbro ma non cade. L’assenza di spazio trasforma il ladruncolo di portafogli in un sacco da boxe: dapprima un pugno all’addome, poi un montante all’altezza del fegato, poi un cazzotto dritto sullo zigomo.

«Dagliene di più a quello schifoso! Dagli Una Lezione!» e il palestrato continua incitato dalla Moltitudine.

Sale la temperatura dell’autobus che pesante e indifferente continua la sua corsa.

Tra la calca si fa largo un altro ragazzo. Anche lui col suo preciso ideale di Giustizia. Deciso, si avvicina al delinquente. Fa segno all’ormai stanco palestrato che ora è compito suo. Sputa in faccia al ladro e la saliva si mischia al sangue della faccia già livida. Gli dà un pugno in pieno volto, chiudendogli l’occhio e tagliandogli il sopracciglio. Il sacco da boxe rimane sempre in piedi, sempre con le spalle attaccate al finestrino, sempre più sanguinante.
«Bravo!», «Ammazza di botte quel figlio di troia!» urla la folla.

Ma alla “lezione” vuole partecipare anche la vecchia che per puro caso si è ritrovata al fianco del ladro dandogli una sonora ombrellata in testa. Poi la bella studentessa universitaria, nel poco spazio che ha a disposizione, gli dà un calcio sugli stinchi.
Due suore dalla veste bianca, dopo un’altra una curva, si ritrovano al centro dell’azione. Per non sentirsi da meno, una delle due dà una gomitata sulle deboli costole del ladro. L’altra approva.
Si alza un tifo da stadio e sale il calore all’interno del mezzo di trasporto.

«Devono morire quelli come lui!» urla la folla.

«Siamo stanchi di vivere così!», «Dovete smetterla di rubare alla povera gente!» grida la Moltitudine.

La signorotta in pelliccia riesce a dargli un ceffone; il pensionato, volendo dare anche lui il suo contributo (forse per sentirsi finalmente utile) gli spacca il naso col suo bastone. Il trentenne in abito Armani continua a colpirlo ossessivamente allo stomaco. Poi tocca all’ex militare. Poi allo Youtuber. Poi all’arredatrice d’interni.

«Uccidetelo! Uccidetelo!» grida la folla.

Bomberino-nero-capello-rasato arriva al fulcro dell’azione. Con un’espressione alla Clint Eastwood sembra dire al pubblico «ci penso io a lui» ed estrae una lama. Si avvicina al malvivente e lo accoltella a un fianco.

«Passami il coltello!» urla qualcuno della Moltitudine.

E il coltello inizia a passare di mano in mano.

Arriva alla stagista della casa di moda che si avvicina al criminale e sadicamente gli recide di netto l’orecchio sinistro. Il padiglione auricolare viene calpestato dallo stivaletto Prada.
Poi la lama passa all’avvocato che inizia a pugnalarlo ripetutamente al petto.
Lo scrittore esordiente, forse per gioco o forse per amore, riesce ad incidergli le proprie iniziali su quelle che una volta erano le guance.
Crescono le urla, crescono gli spasmi e l’ansimare e le grida e la rabbia. Sudore, odori osceni e schizzi di sangue raggiungono soffitto e vetri dell’autobus che ora rallenta e giunge alla fermata.

Apre le porte e qualcuno scarica il corpo di quello che, una volta, la Moltitudine avrebbe chiamato “un negro”.

Le porte si chiudono e il mezzo riparte.

La Moltitudine, stanca e senza fiato, gronda sudore e sangue. Mani, vestiti, musi, capelli, sciarpe, borse, cappotti trasudano diversi liquidi organici. Più di qualcuno ha un’erezione.

L’aria è irrespirabile. Sotto le suole una melma viscosa.

L’uomo smunto e magro mette la mano nella tasca sinistra del cappotto: «Oh, che sbadato», dichiara alla Moltitudine, «il portafoglio è qui! Era nell’altra tasca!».

E inizia a ridere.

Dopo un istante tutto l’autobus ride.

La Moltitudine, istericamente, ride.

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di
Arundo Donald

 

Nel breve tratto di strada il metabolismo urbano produceva e consumava una notevole energia.
Affollate vetrine, incalzanti mendicanti vestiti abbondanti, bambini, anziani, tutti concorrevano nel gorgoglioso ribollio natalizio.

“Proprio oggi che è Natale”, pensò Marco scrutando attento la strada e spostando con la mano il grasso dalla fronte fin sopra i capelli.

La fermata era gremita di figure. A Roma d’inverno in un attimo è notte, e così, improvvisamente, tutti si ritrovarono avvolti dalla sera. I lampioni coloravano i grandi palazzi e le persone, accecate dal caldo carosello, spasmodicamente diventavano falene.

Lontano apparve un autobus. Marco sperò che fosse il suo. Andava per uno. Pensieroso lasciò cadere il corpo contro il vetro che delimitava la fermata sentendolo tremare. Prese una mezza cicca e la riaccese. Poi la fece ruotare tra le dita e per un attimo fissò il filtro annerirsi sotto la carta.

“Pesci storditi” pensò, rivolgendo lo sguardo alla massa abbagliata e sempre più frenetica.

Adorava i pesci, li trovava umani.

Pensò che avrebbe fatto tardi alla cena. Questa volta aveva dato la sua parola.

Come arterie, sottili tappeti rossi disegnavano i marciapiedi ripuliti e un fiume d’insegne luminose minacciava scorrendo i primi piani dei palazzi. Una goccia sfiorò il viso di Marco concentrato. Intorno a lui diversi ombrelli avevano fatto capolino aprendosi alla sera.

“Ci mancava anche la pioggia”, pensò. Poi fu un attimo.

Le gocce s’infittirono e cominciarono a bagnare ogni cosa, non risparmiando le persone ammucchiate alla fermata. La strada fu violentemente svegliata, le vetrine si svuotarono assieme ai lunghi marciapiedi. Le falene erano sparite.

Marco fece caso al rumore che la pioggia produceva, agli odori che riportava al naso e ai suoi capelli bagnati. Il “92” era arrivato, aveva fatto Tombola!

Mentre l’autobus, pieno da far schifo, svelava una calca straziata, la gente dalla strada spingeva e imprecava. Travolto da un denso fiume, Marco fu trascinato a bordo.
“È fatta”, pensò.

Ora anche lui era paralizzato quasi da non muovere il diaframma. Nel bel mezzo regnava il silenzio. La spessa condensa e le persone collose ne temperavano l’ambiente interno e in quel microclima tutti vivevano il medesimo supplizio.

“Pesci Neon” pensò. Allevati in cattività, con luci artificiali e in spazi troppo affollati, quei pesci sono più soggetti alla morte, più restii all’accoppiamento e meno abili nel procurarsi il cibo.
Le vetrine, gli affollati marciapiedi, gli autobus, gli uffici. “Che fosse questa la stupidità della gente perbene?” 

Mancavano quattro fermate ancora e sarebbe arrivato a casa. Marco era provato, voleva sedersi e respirare aria pulita. Voleva poter muovere le braccia e le gambe e soprattutto, voleva rivedere i suoi amici. Voleva abbracciare la sua gente e festeggiare.

Alla fermata successiva molte persone scesero dall’autobus, permettendogli di respirare nuovamente. Quando le porte si erano aperte, per pochi secondi aveva sporto il naso e si era immaginato altrove.  

A fine corsa l’autobus lo lasciò al capolinea. Dopo pochi minuti a piedi Marco arrivò all’accampamento e poté poggiare le pesanti buste con la spesa che tanta fatica gli erano costate.

Non c’era musica né luci ad aspettarlo. Non c’erano donne a ballare intorno ai fuochi né anziani né bambini. Un piccolo fuoco ormai esausto illuminava le roulotte dal centro del cortile e il pentolame tutt’intorno brillava riverso sui tappeti polverosi. 

L’accampamento era stato sgombrato. 

Marco prese un lungo respiro e si lasciò cadere sedendosi stanco intorno al fuoco. Stappò una birra. Poi un’altra.
Raggiunse il suo piccolo furgone e controllò il suo acquario. I pesci erano salvi. Ne fu contento ma non sorrise.  

Perché tutta l’energia si era esaurita.

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di
Matteuccia Francisci

illustrazione di Anastasia Coppola

Up and down the city road/In and out the Eagle/That’s the way the money goes,/Pop! Goes the weasel

Alice guarda l’orologio, ancora 15 minuti e sarà fuori dall’ufficio. Bussano alla porta: le chiedono un’altra cosa da fare. Si infastidisce e serra la mascella, ma solo per un istante.
«Certo, lo faccio subito» dice, sorridendo finché non si chiude la porta.
Poi tira un calcio alla scrivania. Già si vedeva varcare il cancello e ora invece perderà tempo. Il fastidio passa presto, però, e Alice torna a sorridere.

E’ felice. Forse per la prima volta nella sua vita.

Finalmente fuori, va alla fermata del 118. L’autobus arriva strapieno. Alice sale e continua a sorridere, sotto il cappellino dei Washington Redskins che le tiene i capelli tutti raccolti. Sorride dietro gli occhiali da sole scuri che le coprono gli occhi. Il cuore le batte forte sotto il cappotto nero, abbottonato fino al collo nascosto dentro un dolcevita grigio chiaro. Quasi non riesce a tenere fermi mani e piedi, chiusi da guanti e anfibi. Nello zaino ha le scarpe con i tacchi, la gonna plissettata e il cappotto rosso con cui al lavoro si è mimetizzata.

«Oh, mi scusi» le dice una signora maleodorante, cadendole praticamente addosso e pestandole entrambi i piedi.
«Non si preoccupi, è certo più importante giocare a Candy Crush che reggersi agli appositi sostegni» risponde Alice. Sorridendo.
«Che vorrebbe dire, scusi?» domanda, stizzita, la puzzona.
«Vorrei dire che lei non si è retta agli appositi sostegni perché stava giocando a Candy Crush, per questo mi è caduta addosso pestandomi un piede e facendomi male, oltre al fatto che lei puzza. Ma non c’è problema, capita a tutti signora. Di cadere intendo, non di puzzare».

La signora la guarda a bocca aperta, Alice la guarda dritta in faccia con la bocca che sorride e gli occhi no.
«Ma guarda che roba!» dice la puzzona, allontanandosi in fretta da Alice a costo di urtare tutti quelli intorno a lei.

Alice ricomincia a guardare fuori dal finestrino, l’autobus è già alle catacombe di S. Callisto. Si accarezza il mento con la mano guantata.

Il cuore le batte sempre più forte, l’emozione di rivederla è come una scossa che le percorre tutto il corpo. Com’è che dicono Belle and Sebastian? Formiche nelle mutande. Judy never felt so good except when she was sleeping.
Pensare ai Belle la tranquillizza sempre. Appia Pignatelli Carvilii…dai, ancora poco.
La puzzona scende, si gira a guardare l’autobus ed Alice la saluta con un sorriso beato.
Ecco il supermercato, dai che ci siamo.

Erode Attico, curioso che sia proprio la sua fermata.

Percorre il tratto di strada ormai familiare, arriva all’appartamento seminterrato che è riuscita a trovare dopo accurate ricerche. Trovare la casa è stata la seconda cosa più difficile da fare per lei. Si ferma davanti alla porta, tira su le braccia, si stira per bene, piega la testa a destra e sinistra finché non sente un leggero crac! Si abbassa verso il tappetino, trova le chiavi che sono sotto, le infila nella toppa e prende un bel respiro.

Sente il calore pervaderle tutto il corpo quando entra e la vede lì, davanti a lei. L’oggetto del suo desiderio. È seduta. E sudata. Alice entra di spalle, arricciando leggermente il naso per l’odore nella stanza, ma senza smettere di sorridere. Si leva il cappellino dei Redskins, gli occhiali neri e il cappotto, si sfila il dolcevita e la canottiera. Rimane così, in anfibi, pantaloni, reggiseno e guanti. Poi si infila il passamontagna posato sul mobile accanto alla porta, e si volta.

«Ciao amore mio, come stai oggi?»

La donna seduta sulla sedia alza la testa, piano, ed emette un suono flebile.
­«Oh, scusami amore, hai ragione », Alice si avvicina alla donna e le strappa il nastro nero dalla bocca.
«Per favore… basta… per favore… ma chi sei? Ti prego lasciami andare.»
«Sono l’amore tuo, amore mio. Ti sono mancata? Tu mi sei mancata tanto. Ma adesso siamo insieme di nuovo, sono così felice. Così. Felice.»
La donna seduta alza il viso, gonfio. «Ma perché? Cosa ti ho fatto?»
Alice l’accarezza piano sul viso, poi il collo e giù lungo la scollatura del camice. Potrebbe spiegarglielo, certo, ma non è più sicura di ricordare il perché. Sa solo che la fa stare bene, e che quella donna se lo merita.

«La vita è come una scatola di cioccolatini. Non sai mai quello che ti capita», le dice soltanto, imitando l’idiota voce di Forrest Gump.

E finalmente comincia il suo nuovo dopolavoro, da quando sette giorni fa l’ha fatta portare qua e legare alla sedia. Per venirla a trovare, dopo il lavoro. Ogni giorno, per un’ora. Sequestro di persona, lesioni personali aggravate e chi più ne ha più ne metta.
La felicità ha un prezzo da pagare, si dice Alice quando ha finito. È stanca e rilassata, inondata di endorfine.

«Questa è l’ultima volta che ci vediamo, amore mio. Sei perfetta così. Ti faccio una foto? No, meglio di no».

La donna respira. Piano, ancora.

Alice sorride ancora quando esce senza voltarsi e torna alla fermata. Probabilmente, si dice, sarà pieno del mio DNA là dentro: sudore, capelli…non importa. Ne valeva la pena per sentirsi così leggera. Solo quando sale sul 118 capisce che è finita. E’ stata la cosa più difficile di questa faccenda, sapere che sarebbe finita. Forse la troverà domani il proprietario di casa.
Torna domani? Alice non se lo ricorda. Le fanno male le braccia e neppure si rende conto di quando le lacrime cominciano a scorrerle lungo il viso.

Ha perso il suo dopolavoro, ha perso la felicità.

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di
Arundo Donald

 

Quando Michela riprese coscienza si ritrovò sdraiata e disorientata.

La testa, infinitamente pesante, era quasi incollata al pavimento, e gli occhi gonfi e doloranti a malapena filtravano la luce tra le palpebre imbrattate.
Tutto ciò le dava un fastidio eccessivo eppure non riusciva a ricordare cosa le fosse successo. Ogni singola parte del suo corpo esitava a risponderle e tutto era un enorme forte dolore.
Qualcosa di certo doveva essersi accanita su di lei pensò.
Eppure non riusciva proprio a ricordare cosa fosse successo.
Sentiva il ferro in bocca, l’amaro, e cominciava a soffrire il freddo.
Ancora immobile e con gli occhi chiusi spronò i sensi ancora vividi tentando di intuire ciò che le stesse accadendo intorno. Dove fosse, chi l’avesse ridotta così, cosa avesse fatto per meritarsi tutto questo.
Provava a muovere il corpo. Ora un braccio, ora una gamba ma ogni singola parte non reggeva il dialogo. Era un continuo messaggio a senso unico. Doveva trovarsi su un autobus pensò e sperò che fosse notte.

Roma è bella la notte.

D’improvviso, come se il sole si facesse spazio tra le nubi scure, il freddo era caldo, il silenzio una musica soave e l’autobus si era animato. Su ogni sedile sedevano uomini e donne intenti a parlare, alcuni discutevano seri altri gesticolavano.
Le luci regalavano un tepore soffice e le persone intente a scambiarsi gesti e opinioni sembravano completare quel frammento felice.
Una bambina colpì l’attenzione di Michela. Era piuttosto magra, le braccia scoperte mostravano una pelle chiara del colore della Luna, ma le guance erano rosse e lasciavano intuire un senso di benessere. I capelli mori e morbidi le ricordavano i suoi. Erano lisci, di lunghezza modesta e sulla testa era posato un fermaglio di forma inusuale, ma non certo anomala.  Un cane era seduto dinanzi alla bambina. A Michela parve che la stesse fissando. Aveva il pelo burbero e il naso spigoloso.
Entusiasta si accorse che fuori dai finestrini era notte e ne fu felice.

Roma è bella vissuta di notte. Le capitava spesso.

Per un po’ rimase spettatrice di quell’evento. Per molto tempo in realtà.

Poi l’autobus fu di nuovo vuoto. La bambina con lo strano fermaglio e il cane irsuto erano scomparsi. Anche tutte le persone avevano smesso di parlare e le luci si erano fatte nuovamente livide.
Chissà quante fermate ancora avrebbe dovuto aspettare pensò, perché l’autobus si riempisse un’altra volta di gente tanto allegra. Chissà se mai sarebbe stato ancora così.

Ora tutto era buio e senza rumori.

Ora anche lei ricordava di essersi fatta un buco sull’autobus.

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di
Lorenzo Desirò

 

«Oddio! Ancora loro! chi prenderanno oggi? Chi? Chi?»

«Non lo so… ma abbassa la voce! Non farti sentire!»

«Mi hanno appena ripulito, non devono prendermi! Non è giusto! Non devono! Non devono CAZZO!»

«Shhh… Sta calmo, non farti sentire!  Sta calmo. Respira lentamente. Sono lontani»

«Guarda! Guarda! Si sono avvicinati a 82, lo stanno guardando. Ora lo prendono! Ora lo fanno!»

«Abbassa la voce Cristo santo! E stai calmo. Rimani in silenzio…»

«Ma dove cazzo stanno i guardiani? Dove? »

«Non farti prendere dal panico. Rimani fermo. E soprattutto mu-to. E ricordati, non ci devono scoprire! Se capiscono quello che possiamo fare siamo più che fottuti»

«Lo so, lo so. Ma non voglio essere toccato da questi deficienti»

«Guarda 82 come è rimasto calmo. Immobile. Guardalo…»

«Poveraccio… speriamo lo ripuliscano presto! Sono dei figli di Puttana quei  tre. Li investirei. Subito…»
«Sta zitto. E poi si può risolvere. Possono ripulirti di nuovo. Quindi sta calmo ma sta zitto per Dio… Non devono scoprirci…»

Stando molto attenti a non farsi scoprire, nel silenzio della notte, tre Writers iniziano la loro opera sull’autobus 82.

Stando molto attenti a non farsi scoprire, nel silenzio della notte, gli altri autobus parcheggiati nel deposito impietriti, muti, guardano la scena.

Stando molto attenti a non farsi scoprire, nel silenzio della notte, i guardiani del deposito, rinchiusi nella loro guardiola, guardano sul Tablet la replica di Barcellona – Real Madrid.

 

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di
Lorenzo Desirò

 

Ore 21.45.
Gli autobus 504 e 551 sono fermi alla stazione di Anagnina. I due sono affiancati l’uno all’altro. Scaldano i motori. Arrivo sul mio 504 e mi siedo in una fila di mezzo. Sono l’unico passeggero.
I centimetri che separano i due auto non sono molti: forse neanche mezzo braccio di distanza l’uno dall’altro. Con la testa appoggiata al finestrino guardo i passeggeri del 551, saranno una decina in tutto, coi volti stanchi e solcati dalla stanchezza della giornata lavorativa.
«LI HAI VISTI? LI HAI VISTI? ‘STI PEZZIDEMMERDA!»
Come comparso dal nulla un ragazzo corre verso di me. Si ferma accanto al mio sedile. Rimane in piedi e guarda quelli dell’auto di fronte e continua ad urlargli contro: «APEZZIDEMMERDAAA! A MMERDEEE! A SSTROOONZIII!»

Avrà poco più di 20 anni. Fisico asciutto, capelli neri e corti rasati ai lati.  Occhiali da sole giganti a mascherina. Insensatamente enormi a coprirgli metà viso (inutile stare a chiedersi perché indossi occhiali da sole a pochi minuti dallo scoccare delle dieci di sera).
È palesemente gonfio di coca.
Sul 504 ci siamo solo io e lui.
I passeggeri del 551 alzano il capo per dargli un rapido sguardo e lo ignorano. Lui, sempre in piedi al mio fianco, inizia a intonare un coro sempre indirizzato a loro:
«MERDE SIETE E MERDE RESTERETE!».

La sua mascella si muove in continuazione. Lui salta. E suda. Ma credo che suderebbe anche senza saltare.
Poi mi guarda e urla: «AOH!, AOH! CANTA CON ME!»

E inizia a intonare un altro coro indicando gli stanchi passeggeri del 551: «E CHI NON SALTA È COME LOROOO OOOOOOOOOOOOOO».

I passeggeri del bus di fianco continuano ad ignorarlo completamente.
«E CHI NON SALTA E’ COME LOROOO OOOOOOOOOOOOOO»

Il 551 accende i motori e parte.
Il tizio ride sonoramente: «scappano sempre ‘sti conigli». E rivolgendosi all’auto in lenta e monotona fuga: «CONIGLI!!!».

E l’autobus coniglio scompare dal nostro orizzonte.
«Quelli del 551 so’ i nemici. Partono sempre prima. SEMPRE! E noi mai, mai mai che partimo prima de loro. A pelato noi arivamo a casa sempre più tardi de quelli. Loro so’ come la Juve, arivano prima, sempre.
Però… però è facile. E’ facile essere del 551, è facile tornare a casa con un autobus che parte ogni 10 minuti. Così come è facile tifare per la squadra che vince sempre. Però. NOI semo più belli. Noi del 504 semo più veri. Noi semo er popolo. Noi semo quelli che soffrono e che c’hanno poche soddisfazioni ma quelle poche gioie so’ belle, so’ vere. Quant’è bello quanno arivamo in stazione e l’autobus sta già lì, ci aspetta e noi salimo e il 504 chiude le porte e si parte subbito verso casa? Quant’è bello? Queste sono le gioie. E comunque tra di noi del 504 ce volemo bene perché soffriamo e esultiamo e ci abbracciamo tutti insieme. Ogn’attesa infinita sulla banchina, co’ la pioggia, co’ la neve, cor sole, cor vento, noi la famo insieme, tutti insieme. Ogni incidente, ogni guasto ogni ritardo de sto autobbus noi li viviamo insieme. Tutti insieme. E ariverà, ariverà il momento che partiremo prima noi del 551, ariverà.  Tocca solo aspettallo…»
Non avevo mai notato che il 551 parte sempre prima di noi del 504.
Inizio a pensare che il tizio non ha tutti i torti… Inizio ad avvertire un certo fastidio verso il 551.
Il ragazzo va a sedersi in fondo all’auto, alle mie spalle. Non lo vedo ma lo sento.
Sento il suo naso tirare continuamente su e sento i cori che mi accompagneranno per tutto il viaggio:

«e juve mmeeerda e juve mmeerda e juve mmerdaaa juve juve mmeeerdaaaa»

Il 504 parte.

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di
Federico Cirillo

 

23- Fermate Pincherle/Marconi – Marconi/Pincherle

Quella partita non fu una partita qualsiasi, fu una partita che lasciò agli spettatori il compito di stabilire dov’era il confine tra la memoria e la leggenda…
(Edson Arantes do Nascimento, Pelè)

1942 – La guerra imperversa, l’Italia è divisa, lacerata, ferita ma non ancora morta. L’Italia calcistica, soprattutto, è bloccata dagli eventi: i combattimenti, infatti, hanno imposto il cessate le partite, strappando via sogni e speranze di cuoio vestite. Eppure vi era ancora, nascosta e celata, voglia di calcio, quello vero che sbuccia le ginocchia, quello che rompe le tute e le toppe sopra le tute. Quello fatto di terriccio e pali delle porte che sono felpe ammassate a sei passi le une dalle altre… quello della partita Pincherle/Marconi – Marconi/Pincherle per intenderci.
Così, proprio mentre dalla Patagonia soffiavano voci di un mondiale fantasma, ai piedi dell’Ostiense, Roma, c’era aria di derby…
Bombe in lontananza, il ventre, anzi i ventri di Roma si aprono ovunque. Aerei che sfrecciano, radiogiornali che riportano bollettini del conflitto.
Lorenzo, Pietro, Paolo, Sebastiano e Andrea Marconi sono i cinque fratelli più piccoli della numerosissima famiglia Marconi.
Claudio, Giulio, Adriano, Augusto e Cesare, invece, sono rispettivamente i tre gemelli Pincherle e i loro due cugini.
Il teatro è il campetto di fango, terra molliccia e polvere di una zona nascosta dell’Ostiense, ai piedi della Basilica di San Paolo. In palio il pallone di pezze e stracci confezionato da mamma Rosa e mamma Letizia, le due donne delle due rispettive case, sarte entrambe. Chi vince avrà pallone e Gloria, la ragazzina più bella del quartiere della quale i due rispettivi capitani (Lorenzo e Claudio) sono follemente innamorati (lei non lo sa e magari alla fine non li degnerà comunque di uno sguardo, ma chi vince può provare a chiederle di tenerle la mano mentre l’accompagna a casa dopo che è scesa dal 23…).
L’allarme di una bomba caduta, probabilmente poco lontano, dà il via al match. Tira vento freddo e il pallone ne risente: le due donne hanno usato indumenti e stracci estivi, sacrificabili in inverno, tanto il piccolo Marco Marconi indossa sempre lo stesso maglione: tre anni e mezzo, scampato alla poliomelite, osserva un po’ sbilenco la partita mentre si gusta il sapore acro e salato del suo indice.
Lorenzo prende in mano le redini del gioco, macina il campo come aratro fa con le messi; scarta come un fulmine gli avversari e sembra un giovane Silvio Piola. A 9 anni ne dimostrava già 12, ora che ne ha 10 ne dimostra 11, sembra infermabile, irraggiungibile da tutti, un Girardengo del pallone… per tutti ma non per Claudio Pincherle, lo stopper/libero dei Pincherle appunto. È il più esperto di tutti perché da giovane ha giocato per due mesi nella squadra locale, poi un infortunio al piede ne ha limitato la crescita, tanto che non può più tirare d’esterno e, da allora, fa il difensore: con Lorenzo è sfida aperta, lo blocca e riparte come baio selvaggio.
Le ali Adriano e Augusto sono mingherline – la pellagra li ha fortunatamente solo sfiorati – e rapide e anche se perdono tutti i contrasti hanno nel lancio la loro arma migliore: spesso insieme al pallone parte una scarpa senza lacci e per l’avversario sono dolori. Il cross di Augusto è perfetto, Cesare si traveste da Levratto tira e… gol?
«’N’ ce prova’ a Ce’, è passata troppo sopra, è fori!»
«Maddechè, ahò quello sei te che hai le braccia corte…»
«Vabbè decidiamo a morra, vinci tu, rigore pe’ voi, vinco io palla nostra».
La morra: Cesare ha nel sasso il suo punto forte, d’altronde la mano destra ha solo 3 dita, 2 saltarono con un petardo scagliato lo scorso capodanno troppo in ritardo; Sebastiano, il portiere prova il tutto per tutto con la forbice «magari scaglio, che me vo’ frega’»: rigore per i Pincherle, gol, Cesare non perdona.
Lorenzo rosica; Claudio se la ride e dà uno sguardo veloce a Gloria che passa di lì insieme a Bianca e non se li fila di striscio; Lorenzo rosica ancora di più; Sebastiano accenna uno «scusa»; Marco continua a succhiarsi l’indice.
Palla al centro 1-0. Il capitano Marconi non ci sta, scambia con Pietro, triangola con Paolo e prima di entrare in area, sbraca letteralmente di fisico Claudio e tira ‘na pezza: Giulio ci prova, ci mette la mano, si spezza un’unghia, s’accavalla il medio, la mano si piega… gol 1-1. Palla al centro. Gloria di nuovo in bilico.
Fiati sospesi, il sole, opaco e bianco latte, inizia a dare i primi cenni di ombratura. Il freddo diventa più pungente, ma le tute servono per i pali. Fango, polvere, scarpe rotte che volano, ginocchia sbucciate, gambe incrostate, toppe. La sirena… lunga, lunghissima, interminabile. L’aereo, vicino, basso, grigio e rumoroso. La bomba, vicina, troppo vicina…
…il confine tra memoria e leggenda: Pincherle/Marconi 1-1.