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di
Matteuccia Francisci

 

L’uomo in giacca e cravatta è molto stanco. È venuto a Roma per chiudere un contratto e non c’è riuscito. Piove ed è già buio, quando arriverà a casa sua a Rovigo sua figlia starà dormendo.

«Mi sto perdendo gli anni migliori di mia figlia» pensa.

«Però è vero che Roma è bella quando piove, come dice la canzone» dice al tassista che lo sta portando alla stazione Termini.

«Roma è bella sempre» gli risponde il tassista «Come dice il gladiatore? Roma è la luce».

«Eh, a proposito di luce, ieri sera camminavo per i vicoli del centro storico e mi hanno detto che hanno sostituito le luci con le lampadine a led»

«Lassamo perde, ha visto quanto so’ brutte? Sembra de sta’ in discoteca. Oppure all’obitorio. La notte deve essere buia, se illumini tutto cosa ti resta da immaginare?»

Addirittura, pensa l’uomo in giacca, ho incontrato il tassista filosofo.

«Beh, però con la luce uno si sente più al sicuro no? E poi con le lampadine a led si risparmiano un sacco di soldi» tenta di controbattere.

Errore, a quel punto il tono del tassista si alza.

«Ma al sicuro de che? Ma risparmia de che? Qua se so’ magnati tutto e mo’ vonno risparmia’ du sordi illuminando la città come fosse Tokyo? Ma qua mica stamo ‘n Giappone, qua ce camminavano imperatori, pittori, scultori, regine. Ma come fai a mettere il nuovo in una città che è storia in ogni sasso? Come fai a immaginatte de cammina’ vicino a Michelangelo se stai sotto ‘na luce che pare n’interogatorio de polizia? E ‘nnamo su. E poi le lampade del centro storico se le rivendono sulle bancarelle. Robba da chiodi.»

L’uomo in giacca è stanco, l’uomo in giacca abita a Rovigo. Che è proprio brutta, si dice tra sé e sé.
L’uomo in giacca sa che ora deve prendere un treno e tornare in un posto brutto. Dove vive bene, e dove troverà i grandi amori della sua vita, sua moglie e sua figlia, ma che è proprio brutto a confronto di Roma.

Quando a Rovigo piove, l’uomo in giacca si sente marcio dentro, mentre adesso che passa per le strade bagnate di Roma, pur stando dentro al taxi si sente come parte di un tutto.

«Ma nessuno dice niente?» chiede al tassista.

«Certo, tutti si sono ribellati, come al solito qua non è colpa de nessuno, nun se sa chi ha ordinato cosa. Roma è ‘na caciara dotto’. Ma è abituata, de qua so’ passati tutti e tutto, Roma sopporta».

«Certo, certo» l’uomo in giacca è sempre più stanco e si è ricordato perché non si è mai voluto trasferire a Roma pur dovendoci venire molto spesso per lavoro. È questa prosopopea romanesca che gli ha sempre dato fastidio, questo vivere nel passato, in una gloria ormai passata. E basta, pensa l’uomo in giacca, siamo nel 2017 e Michelangelo è morto da un sacco di tempo. Le lampadine a led fanno risparmiare e magari riuscite a tappa’ qualcuna di queste buche che il tassista sembra conoscere una per una visto che le prende tutte.

«Che poi, dotto’, er buio è il fondamento dell’amore» continua il tassista, ormai inarrestabile nei suoi filosofeggiamenti.

«In che senso?» chiede l’uomo, mentre si slaccia la cravatta a pois. Sta pensando di non metterla più, sta pensando che porta sfortuna, che avrebbe dovuto mettere quella rosa. Con quella sì che avrebbe chiuso il contratto.

«Ma lei lo sa quante pischelle me so’ caricato nei vicoli bui de Roma quann’ero ragazzo? Quelli de oggi che fanno, je fanno la visita odontoiatrica co ‘ste luci bianche da ospedale?»

L’uomo in giacca ride. Una risata larga, liberatoria, che gli distende il diaframma. E si ricorda perché ama venire a Roma. Qualunque cosa succeda, si diverte sempre, si fa sempre un sacco di risate con i romani.

«Voi romani siete come le donne, non puoi vivere con loro ma neanche senza».

«Se ride pe’ nun piagne, dotto’. Ecco, semo arrivati, so’ 35 euro».

Eh, fate piangere gli altri con queste tariffe, pensa l’uomo in giacca.

«Arrivederci, la prossima volta che vengo voglio andare a vedere queste bancarelle, magari riesco a portarmi un po’di luce romana a Rovigo»

«Quanno vole dotto’, c’ho un cugino che lavora all’ACEA, m’ha detto che se ne volevo una me la procurava senza problemi, le lascio il mio numero».

L’uomo in giacca si rimette a ridere, mentre prende il biglietto dell’uomo che gridando allo scempio della sua città ne fa merce allo stesso tempo.

Ma forse ha ragione lui, Roma è ‘na caciara ma è abituata.

 

Questi sono gli articoli che hanno ispirato il racconto: 

Se le lanterne storiche (rimpiazzate dai led) vanno a Porta Portese

Le «Lanterne Roma» sostituite da anonime lampadine a led. La consigliera dei Radicali Naim: «Roma è Città storica e patrimonio Unesco, nessuno ha chiesto pareri»

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di
Annalisa Maniscalco

 

«Ah, c’era ancora lei, la segretaria non mi ha avvisato.»
«Nessun problema, Avvocato, le rubo solo un minuto.»
«Ora ho un appuntamento… Senta: mi accompagni in taxi così intanto parliamo, le spiace?»
L’avvocato fa cenno al taxi Pisa 47 fermo davanti al portone. La targa d’oro sul citofono recita: Studio Querelli, dal 1870.
«Oh, Alfredo, di turno anche stasera?» dice l’avvocato al tassista, chiudendo la portiera con uno schiocco secco. «Facciamo il giro lungo, così accompagniamo questo ragazzo alla metro. Lei prende la metro, no?»
«Grazie, Avvocato» dice il ragazzo, che si chiama Ugo Speranza, ha ventisei anni e un curriculum umido di nervi e d’attesa tra le dita.
«Dia qua» dice l’avvocato: afferra il foglio e lo studia per qualche secondo, mentre il taxi si immette nel traffico. «Oh, ecco un ottimo percorso. Laureato in tempo all’Università *** — voto 110; beh, la lode farebbe un’altra figura, no? Ma comunque; qui vedo uno stage e un apprendistato in uno studio prestigioso… Come mai non è rimasto lì?»
«Vede, Avvocato, l’esperienza è stata proficua sia per me che per lo Studio, ma alla scadenza del contratto…»
Il taxi si ferma in coda e l’avvocato sbuffa.
«Alfredo, non di qua, fai la parallela. Ma le pare» aggiunge a mezza voce l’avvocato, chinandosi appena verso il ragazzo, «che devo fare pure il lavoro di questo. Che altro c’è… bene, sì, nella norma… Ah. Certo, l’inglese andrebbe migliorato, qui lei dichiara “livello buono”.»
«Ho fatto una vacanza studio a Dublino, due anni fa.»
«Mhm. Ascolta, Sapienza, consentimi il tu. Ti do un consiglio: torna all’estero a fare pratica. Le lingue sono importanti. Inoltre, in UK hanno delle ottime scuole di legge, mio figlio ne frequenta una a Oxford. E poi, si sa, qui non c’è futuro; e sbrigati, prima che le porte si chiudano del tutto».
Il taxi svicola in una traversa e il ragazzo si divincola sul sedile, ma non risponde. Non risponde più.
«Accetta un consiglio da padre, Prudenza: vai via dall’Italia
Il taxi si ferma davanti alla metro e il ragazzo scende.
«Costanza» lo chiama l’avvocato dal finestrino, «il curriculum».
«Lo tenga pure» dice il ragazzo, voltandosi appena. «E comunque, mi chiamo Speranza».
«Meglio ancora, è di buon auspicio» ribatte l’avvocato, alzando il finestrino. Poi: «Alfré, portami a casa, ne ho fin sopra i capelli.»

Il taxi riparte. Lo stereo suona piano la sigla del giornale radio.
«Ma che me ne faccio, Alfré, di tutti ’sti curricula? Quasi non c’è lavoro per noi, figurarsi. Non mi fraintendere: io li capisco, ’sti ragazzi; però si piangono troppo addosso

Londra: ragazza italiana trovata morta nel suo appartamento, dice lo speaker della radio con voce grigia, e Alfredo rallenta per alzare il volume. La giovane lavorava nella capitale inglese come cameriera. A dare l’allarme è stata la madre che non la sentiva da giorni.

«Già c’ho i figli miei a cui pensare» sta dicendo l’avvocato tra sé, con una sigaretta pronta tra i denti, «la piccola s’è intestardita che vuole studiare lettere. E poi, anche ai tempi miei ci toccava la gavetta… Alfredo, dove vai?»
La radio è spenta e il taxi non si ferma.
«Ha ragione, dottò» dice Alfredo, che ha una voce da basso lirico e la guida lenta, rassegnata, «’sti giovani hanno proprio stufato. Glielo dico io che ho un figlio all’estero, come lei. Il mio ha la triennale in fisica e intanto fa il cameriere. Dottò, lei sa i sacrifici che si fanno per i figli, e i sacrifici che fanno i figli per sudarsi un 110 pure senza lode, per lavorare quasi gratis nei tirocini, per imparare ’st’inglese che io, mi creda, non so manco dire buongiorno.»
«Ci credo, Alfré.»
«Ecco. Ma io ho detto a mio figlio: e che, non ce li abbiamo qua, i ristoranti? Papà, mi fa, le lingue sono importanti, la pratica, la gavetta… Giusto, dottò? E io: ma stai tranquillo, un domani ti intesto il taxi, ti passo la licenza… Lo sa che mi ha risposto? Che lui vuole fare altro, nella vita; che tutti iniziano così e poi trovano la loro strada. E qua non è lo stesso? gli ho detto, non si deve partire da zero pure qua, come ho fatto io, o come ha fatto lei, dottò, nello studio di famiglia, che lo porta avanti dal 1880?»
«Dal 1870, veramente.»
«Meglio ancora. No, m’ha risposto quell’ingrato: non ci provo nemmeno. Tanto lo so, che qui non c’è futuro.»
Il taxi accelera di colpo per anticipare un semaforo rosso.
«Io lo guardavo e non gli rispondevo più. Che possiamo dire a ’sti figli, dottò? La verità? Che dovrebbero resistere anche se non li possiamo aiutare? Che dovrebbero insistere, co’ ’sti sacrifici, anche se noi siamo i primi a prenderli in giro? Che l’Italia che io e lei, dottò, ci siamo mangiati, la possono ricostruire solo loro, faticando più di noi?»
«Alfré, io dovrei scendere.»
Il taxi fa un altro giro dell’isolato.
«No, dottò: mio figlio si piangeva addosso già abbastanza così. Allora sa cosa ho fatto io, da padre? L’ho lasciato andare. E ora mio figlio sta là, a Londra, e siccome il lavoro non lo spaventa, al ristorante gli hanno offerto un contratto a tempo indeterminato.»
«Me ne compiaccio, Alfré. Ora accosta.»
«Eppure, dottò, mio figlio è contento solo a metà, ci crede? Perché, anche se non lo dice, io lo so che gli manca casa sua.»
Il taxi accosta, si ferma, tace.
«E poi finisce che si sentono ’ste cose…» mormora Alfredo, con uno sguardo buio verso la radio.
«Quanto ti devo, Alfredo?»
«Ha ragione lei, dottò» continua il tassista, che si guarda le mani sulle ginocchia, «certo che non c’è futuro, se qua restiamo solo io e lei, con la nostra saggezza di padri, a fare il giro del solito isolato
Silenzio. L’avvocato aggiunge una banconota al prezzo della corsa.
«Beviti un bicchiere in onore di tuo figlio, Alfré. Devi essere fiero di lui.»
«Lo sono, dottò. E, a proposito» risponde Alfredo senza girarsi, «dato che stavolta l’ho fatto apposta davvero, a sbagliare strada, questa corsa gliela offro io.»
L’avvocato esita, poi scende e chiude piano la portiera.
Sul sedile, un poco gualcito, il curriculum di Ugo Speranza.

 

Questo è l’articolo che ha ispirato il racconto: Londra: 18enne genovese trovata morta nel suo appartamento. Si chiamava Benedetta Podestà. A un anno dalla sua morte, le indagini erano ancora ferme.

(Photo credit: Modelcarsmag.com)