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di
Jolanda

 

Ci si aggrappa ai corrimano dell’autobus, dei tram, ci si aggrappa al corrimano delle scale, ci si attacca alla balaustra per non cadere, ci si attacca alla vita, alla maniglia della porta prima di chiuderla, prima di aprirla per prendersi il tempo di un ultimo respiro.
Ci si aggrappa per non perdere l’equilibrio, per provare l’adrenalina della frenata improvvisa senza dover sputare un molare disteso sul pavimento.
Ci si attacca anche al cazzo. 

Quel giorno era stato così. Immagine a campo lungo del tunnel dei vagoni della metro in fila ed io, punto di fuga, in piedi nell’ultimo vagone.
Non c’era giorno, non c’era notte, era uno di quei giorni al neon, di quei giorni istituiti proprio nel progetto della creazione in cui dio oltre al sole ed alle tenebre gridò “Neon!” e neon fu. 

Ero aggrappata al più sudicio degli appigli, sbarre, come li volete chiamare, e stavolta mi aggrappavo forte, così forte che sembrava quasi piacermi, sembrava darmi la stessa sicurezza di una mano, tanto da farmi dimenticare tutta la brulicante popolazione batterica.  

Che fastidio; maledizione che fastidio. 

Questa gonna è troppo corta, perché l’ho messa, perché era nell’armadio? 

Ah sì, la mettevo con lui, me ne fregavo se la mettevo con lui, mi riparava dagli sguardi sferzanti e poi mi piaceva. Sì, mi piaceva il fatto che gli piacesse questa dannata gonna corta (oddio ma perché l’ho messa).  

Stridio di freni e strattonata.  

Tipico. Siamo vicino Anagnina allora.  

L’ho imparato da quando ho sbattuto la faccia a terra l’ultima volta e ben mi sta.
Aveva ragione a dirmi che gli avevo rotto il cazzo con questa storia della fobia dei germi e del non riuscire a toccare niente, dell’appendermi al suo braccio ogni volta.
Ma come dice quella zia che non ho mai visto “non tutti i mali vengono per nuocere” almeno avevo una scusa per il livido sull’occhio, e sul braccio. 

Frenata.  

Non voglio cercare più scuse. 

Fortuna che mi aggrappo da sola. 

Mo’ la butto sta gonna. 

 

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di
Lorenzo Desirò

 

Ore 21.45.
Gli autobus 504 e 551 sono fermi alla stazione di Anagnina. I due sono affiancati l’uno all’altro. Scaldano i motori. Arrivo sul mio 504 e mi siedo in una fila di mezzo. Sono l’unico passeggero.
I centimetri che separano i due auto non sono molti: forse neanche mezzo braccio di distanza l’uno dall’altro. Con la testa appoggiata al finestrino guardo i passeggeri del 551, saranno una decina in tutto, coi volti stanchi e solcati dalla stanchezza della giornata lavorativa.
«LI HAI VISTI? LI HAI VISTI? ‘STI PEZZIDEMMERDA!»
Come comparso dal nulla un ragazzo corre verso di me. Si ferma accanto al mio sedile. Rimane in piedi e guarda quelli dell’auto di fronte e continua ad urlargli contro: «APEZZIDEMMERDAAA! A MMERDEEE! A SSTROOONZIII!»

Avrà poco più di 20 anni. Fisico asciutto, capelli neri e corti rasati ai lati.  Occhiali da sole giganti a mascherina. Insensatamente enormi a coprirgli metà viso (inutile stare a chiedersi perché indossi occhiali da sole a pochi minuti dallo scoccare delle dieci di sera).
È palesemente gonfio di coca.
Sul 504 ci siamo solo io e lui.
I passeggeri del 551 alzano il capo per dargli un rapido sguardo e lo ignorano. Lui, sempre in piedi al mio fianco, inizia a intonare un coro sempre indirizzato a loro:
«MERDE SIETE E MERDE RESTERETE!».

La sua mascella si muove in continuazione. Lui salta. E suda. Ma credo che suderebbe anche senza saltare.
Poi mi guarda e urla: «AOH!, AOH! CANTA CON ME!»

E inizia a intonare un altro coro indicando gli stanchi passeggeri del 551: «E CHI NON SALTA È COME LOROOO OOOOOOOOOOOOOO».

I passeggeri del bus di fianco continuano ad ignorarlo completamente.
«E CHI NON SALTA E’ COME LOROOO OOOOOOOOOOOOOO»

Il 551 accende i motori e parte.
Il tizio ride sonoramente: «scappano sempre ‘sti conigli». E rivolgendosi all’auto in lenta e monotona fuga: «CONIGLI!!!».

E l’autobus coniglio scompare dal nostro orizzonte.
«Quelli del 551 so’ i nemici. Partono sempre prima. SEMPRE! E noi mai, mai mai che partimo prima de loro. A pelato noi arivamo a casa sempre più tardi de quelli. Loro so’ come la Juve, arivano prima, sempre.
Però… però è facile. E’ facile essere del 551, è facile tornare a casa con un autobus che parte ogni 10 minuti. Così come è facile tifare per la squadra che vince sempre. Però. NOI semo più belli. Noi del 504 semo più veri. Noi semo er popolo. Noi semo quelli che soffrono e che c’hanno poche soddisfazioni ma quelle poche gioie so’ belle, so’ vere. Quant’è bello quanno arivamo in stazione e l’autobus sta già lì, ci aspetta e noi salimo e il 504 chiude le porte e si parte subbito verso casa? Quant’è bello? Queste sono le gioie. E comunque tra di noi del 504 ce volemo bene perché soffriamo e esultiamo e ci abbracciamo tutti insieme. Ogn’attesa infinita sulla banchina, co’ la pioggia, co’ la neve, cor sole, cor vento, noi la famo insieme, tutti insieme. Ogni incidente, ogni guasto ogni ritardo de sto autobbus noi li viviamo insieme. Tutti insieme. E ariverà, ariverà il momento che partiremo prima noi del 551, ariverà.  Tocca solo aspettallo…»
Non avevo mai notato che il 551 parte sempre prima di noi del 504.
Inizio a pensare che il tizio non ha tutti i torti… Inizio ad avvertire un certo fastidio verso il 551.
Il ragazzo va a sedersi in fondo all’auto, alle mie spalle. Non lo vedo ma lo sento.
Sento il suo naso tirare continuamente su e sento i cori che mi accompagneranno per tutto il viaggio:

«e juve mmeeerda e juve mmeerda e juve mmerdaaa juve juve mmeeerdaaaa»

Il 504 parte.