di
Arundo Donald
Capitolo secondo. Uno, due e tlé
In un attimo Fernando e Ida si ritrovarono nell’imponente attico Martoni con quasi vista su Villa Torlonia. Fernando stringeva quei seni perfetti. Non li ricordava così. «Che se li fosse rifatti?»
Sentiva l’orgasmo crescere dentro di lui.
Quando avvenne, al luminare mancò la vista e tutto divenne nero per pochissimi secondi. Per un attimo, sparirono le mani di lei che stringeva la spalliera di ferro battuto del letto; le gocce di sudore che non smettevano di scenderle tra i seni; le coperte Ikea Luksory per veri intenditori in tinta con tende e copri poltrone. Sparì perfino quel senso di «che cazzata che stai a fa’ a riscopatte questa cagna», che durante tutto l’amplesso non lo aveva abbandonato e a breve sarebbe stato forte come non mai.
Non sapeva perché ma comunque si sentiva un leone. Nonostante l’età, la corsa mattutina e la totale assenza di colazione, si riscopriva sempre un uomo che adempiva i suoi doveri… anche con le cagne! Quando la vista tornò vide Ida con quell’espressione porca di soddisfazione, mista a velina di passaparola, che normalmente le disegnava la faccia dopo le più belle scopate. Allora capì… Era venuta anche lei!!
Mentre sotto le finestre dell’attico, i pesanti filobus sfrecciavano animando e inquinando la via Nomentana, Ida de Martini stringeva la spalliera in ferro battuto del letto e aveva caldo. Quello che fino a dieci minuti prima, per qualche strano motivo, le era ri-sembrato un individuo di sesso maschile con cui concedersi una scopata spensierata, ora le appariva come una moquette ansimante lontana dai bisogni erotici di una donna… di tutte le donne… probabilmente di tutto e basta!
Doveva evadere. Pensò che forse avrebbe potuto cambiare la lavatrice e che quel giorno la palestra sarebbe rimasta chiusa e che il centro commerciale non era poi tanto lontano… Poi udì il rantolo. Era fatta! D’impulso improvvisò come meglio poteva una faccia compiaciuta… e pregò che nel frigo ci fosse del thè freddo.
Mentre nell’appartamento del Martoni, dopo la chiavata, si discuteva su chi dovesse fare per primo la doccia, pochi piani più in alto Nando era sconcertato.
Di famiglia modesta, devota alla divisa, originario e residente in quel quartiere, di porcate nella sua carriera ne aveva viste molte, ma mai di quel calibro.
Una volta, nel cuore della notte, tornando dalla rimessa ATAC, aveva visto un tale che si masturbava dentro una cabina telefonica. Nella cabina aveva poi trovato una gigantografia di Iva Zanicchi, per giunta nel suo aspetto attuale. Un’altra volta aveva visto un tipo con indosso un costume da Uomo Ragno scalare il muro di cinta di villa Paganini per poi denudarsi aggrappato a una quercia.
Ma stavolta Nando Cei era furioso. Cagare per strada… E alla fermata… Questo non gli andava proprio giù!!
Rientrò frettolosamente in casa e ricomparve fiero con la carabina a piombini Beretta. «Per la Buonanima!» strillò.
Nel quartiere San Lorenzo invece, Francesco Bottarga detto Franci, quella mattina aveva messo quattro sveglie, programmando alle nove persino l’allarme del microonde.
Quando suonarono tutte insieme, per il rumore, fu come assistere in prima fila alla parata del 2 giugno.
Franci scattò dritto sul letto e insieme a lui ogni cosa abbandonata sul piumone. Il posacenere fece circa mezzo metro, rovesciando l’intero contenuto sulle lenzuola. Tre lattine di birra vuote rotolarono fino a cadere sul pavimento, producendo un suono troppo sordo per dei timpani così assonnati. Un paio di plettri arrivarono al bagno. Poi Francesco Bottarga osservò la sua stanza.
Non poteva più vivere in quel modo. Ora c’era Ida!
L’odore nauseabondo delle sigarette gli opprimeva il respiro. La luce del bagno accesa. Il fruscio dell’amplificatore valvolare. Le tazze vuote dei cereali e un bong ingiallito contornavano il suo letto. Perfino una mosca, che doveva essersi sbagliata a entrare, sembrava volare con disgusto tra quei rifiuti ammucchiati ovunque. Franci chiuse gli occhi e si lasciò cadere all’indietro rovesciando un altro posacenere. «E che cazzo!»
Intanto dalla finestra Nando puntava il Pomata.
Da giovane, prima di entrare all’ATAC, aveva fatto il militare a La Spezia e sparare gli piaceva un casino. Se avesse avuto anche la mira, probabilmente, sarebbe rimasto nell’esercito.
Il primo colpo non si avvicinò neanche lontanamente al bersaglio. «’Tacci tua…» esclamò Nando strizzando l’occhio per prendere meglio la mira. Il secondo tentativo non andò meglio. Male anche il terzo. Effettivamente non lo ricordava così difficile. Allora cercò un bersaglio più vicino e spostando rapidamente il fucile puntò dritto un asiatico seduto al bar sotto il palazzo.
«E mo’ er cinegro lo inculamo…» disse con tono serissimo di sfida. Di certo le idee politiche le aveva ben chiare.
«uno… due… tlé!» disse premendo il grilletto.
Il piombino squarciò l’aria e diversi moscerini raggiungendo il piccoletto a velocità smodata. Lui improvvisamente si sentì esplodere la fronte!
«Dai cazzooo!», esclamò Nando strizzando il fucile in mancanza di compagni con cui festeggiare. Gli occhi erano lucidi che quasi piangeva dalla gioia. Aveva fatto un centro perfetto.
Euforico, rientrò velocemente per non farsi notare.
Ora toccava al Pomata!