di Cristi Marcì
Illustrazione di Redazione
Fuori dallo studio la primavera posa il suo fertile sguardo sulle facciate dei palazzi.
Variano dal rosso al blu, dall’arancione all’azzurro e ogni volta mi ricordano Nyhavn: l’antico porto di Copenaghen che io e Lara abbiamo visitato a febbraio.
Le era piaciuto così tanto da costringermi ad appendere alla parete dello studio, accanto al set di mensole per libri, una cornice raffigurante il canale del porto: “così potrai vedere i colori anche nei momenti più grigi” aveva sentenziato col suo solito ottimismo.
Ancora non capisco come tutto sia diventato freddo come quel gelido fiume danese, dove il vento pungente ci entrava perfino nelle ossa.
Senza rendermene conto suonarono al citofono e dando un’occhiata veloce all’orologio da polso mi ricordai dell’unico appuntamento previsto per quel giovedì.
«S-si?» balbettai come risvegliato dai miei ricordi.
«Sono io dottore».
Con fare automatico schiacciai il pulsante del portone di sotto. Subito dopo spostai la chaise longue di pelle nera sopra il tappeto rosso a pelo lungo, tra la scrivania di mogano con sopra la cartella clinica e la parete con la cornice. Infine aprii la finestra per lasciare entrare il primo sole di aprile, perché durante i colloqui mi piaceva contemplare quel mondo di voci e colori che io e Lara avevamo dipinto prima della sua definitiva partenza.
Quella mattina il cielo era limpido e sgombro di nuvole.
«Buongiorno dottore, è permesso…?».
«Oh buongiorno Luce, accomodati pure» dissi a una ragazza di ventotto anni in cura da me da gennaio. Era bruna, adorava i Beatles e aveva due occhi verdi in grado di ipnotizzare chiunque incrociasse il suo sguardo. Non se la tirava affatto anzi, la sua indipendenza nel fare cose veniva spesso scambiata per snobismo e altre stupide etichette che tra una bracciata e l’altra le scivolavano addosso in piscina mischiandosi al cloro. Aveva una sfrenata passione per i romanzi gialli nei quali spesso si immedesimava conducendo indagini che a detta sua la «isolavano dalla banalità del mondo e la facevano sentire viva tanto quanto il nuoto».
«Come hai trascorso il weekend?» le chiesi dopo che si era accomodata sulla chaise longue.
«Sabato mattina sono andata a nuotare, di pomeriggio ho letto mentre di sera ho passeggiato lungo tutta via Libertà con i Beatles nelle orecchie».
«Quale brano hai ascoltato?».
«Now and then».
«Non la conosco…è bella…?».
«Da impazzire, solo che…».
«Cosa…?»
«Mentre l’ascoltavo ho pensato a papà e sono scoppiata a piangere. Mi sono sentita stupida ma è stato più forte di me, sentivo la terra mancare sotto i piedi e ho dovuto appoggiarmi a uno di quegli alberi secolari».
«Ti manca molto vero?».
«Si e ogni giorno che passa sono prigioniera di tutta questa merda che ho qui nel petto» disse con la voce incrinata.
Mentre le prime lacrime iniziavano a rigarle il viso non potevo fare a meno di ripensare a quel freddo che all’insaputa di mia moglie e io stava letteralmente congelando le nostre vite.
Nelle sue vene il calore di una vita si stava pian piano spegnendo e cinque notti dopo il nostro rientro a Palermo se ne andò per sempre.
«Lo hai sognato?».
«No…non ricordo».
«Cosa vorresti in questo momento?».
«Volare in cielo e non sentire più niente» disse alzandosi e affacciandosi alla finestra.
«Pensi che sia la soluzione migliore?» le chiesi mettendomi accanto a lei e guardando la piazza del Teatro Massimo con i suoi bar e i carretti siciliani.
«Al momento si, dottore».
«Se potessi volare cosa vorresti essere?».
«Una mongolfiera» disse con un filo di sole sulle guance e un timido sorriso ai lati delle labbra.
«Ti va di provare?».
«A far che?».
«A volare».
Mi guardò come se a parlare fosse stato un pazzo, eppure l’idea le sembrava tanto bizzarra quanto divertente, così dopo aver guardato tutto l’azzurro possibile rispose: «va bene, ci penserà il cielo».
Una volta distesa guardai un attimo la cornice di Lara e senza aspettare un secondo di più chiusi gli occhi invitando Luce a fare lo stesso e a visualizzare una mongolfiera.
«Sei in piedi su un prato verde dove riposa un pallone colorato ancora sgonfio. Lo vedi per la prima volta ed è lì per te. Lo osservi incantata e ne percepisci tutta la maestosità. Contempli i suoi splendidi colori rincorrersi lungo tutta la superficie, mentre immagini il momento in brilleranno nell’azzurro del cielo.
Il grande pallone riposa sull’erba ma sai che col tuo respiro puoi animarlo, che il tuo calore renderà l’aria al suo interno meno densa, permettendogli di librarsi. Dentro la cesta c’è tutto ciò che ti serve per affrontare il viaggio, tutto ciò di cui hai bisogno per intraprendere il tuo cammino. Adesso Luce, guidami tu».
«Come…?».
«Come ti viene più naturale, lasciati trasportare dalle immagini, dalle sensazioni, dai colori…e guidami, guidaci, come se stessi nuotando: nuotando in aria ecco».
Dopo un attimo di silenzio, che mi fece capire che Luce stava elaborando la richiesta, cosa che percepii dal suo sospiro che, in un attimo, prese come una rincorsa per poi lanciarsi in quota, iniziò a nuotare:
«Eccomi. Mi avvicino e inizio a riscaldare l’aria nel pallone, piano piano assume una disposizione diversa, si dispone quasi per magia proprio sopra alla cesta: è tanto maestoso quanto delicato».
«Cos’altro?».
«Allento le corde, sciolgo i nodi che tengono la mongolfiera ancorata alla terra. Una volta nella cesta vorrei qualcuno con me. Il pallone con i suoi colori è sopra di me, mi sento protetta. Regolo il calore, i cavi e i nastri si tendono. Sento che è giunto il momento di staccarsi da terra, manca poco ma qualcosa mi trattiene».
«Cosa?».
«Forse devo respirare di più, ma non serve a nulla perché la cesta è troppo carica e bisogna alleggerirla».
«Carica…di cosa?».
«Di pensieri e delle mie paure».
Per un attimo rividi il volto di Lara, mentre come per magia mi ritrovai nella cesta assieme alla mia paziente. Ad occhi chiusi vedevo i suoi occhi verdi puntare il cielo mentre le nostre mani gettavano oltre il bordo materiali ruvidi e pesanti che avevano appesantito le nostre perdite e come d’incanto la cesta si staccò da terra. Fendeva un cielo dove i nostri vissuti assumevano ora la forma delle pagine dei libri e della sua musica preferita ora quella di un porto dove stavo tornando un’ultima volta: dal quale il suo fertile sorriso irradiava di luce Nyhavn.