Mascherine

di Apolae

Illustrazione di Davide Dade Bertaccini


Il meta viaggio dei mezzi sguardi all’interno del più grande viaggio sui mezzi ingombri, ebbe inizio perché la signorina occhi-azzurri-sporgenti mi indicò, irritata, con le french fresche d’estetista e il bracciale tintinnante. Con quell’unghia puntuta e policromata intendeva comunicarmi, senza mezzi termini, che dovevo tener su la mascherina anche io, come facevano tutti gli altri: «Faccia la cortesia!».

Quell’occhiuto stizzire incontrò il debole annuire di anziano occhi-castani-gonfi, che pur senza fiatare aveva stampata lampante, nella mezza porzione di faccia, un’ unica frase da aggiungere: «E che siamo noi, scemi?». Il tutto mentre me ne stavo appollaiato sulla sbarra gialla dello spazio per disabili, mentre la mamma occhi-verdi-rotondi bisbigliava con gli sguardi cauti alla bimba occhi-castani-piccini: «Hai visto, amore, che signore cattivo?» e la tirava piano a sé, col braccio intorno alla vita, qualche centimetro più lontana dalla mia malvagità.

Dunque, tirai su la chirurgica logora, tenendo la destra aggrappata al corrimano perché l’autista occhiali-da-sole aveva il piedone pesante e già due volte avevo rischiato di sbattere contro il giovane occhi-rossi-larghi, tuta sportiva e cuffiette, divorato dallo schermo del telefono e pertanto ignaro: altrimenti sai che anatema romanesco ciancicato mi avrebbe lanciato contro, invocando i miei avi.
Senza contare che la tipa occhi-azzurri-sottili era proprio dietro di me e, manco il Baresi di Usa ‘94, mi marcava strettissimo, attaccata quasi alle caviglie: se le fossi andato a urtare anche solo con il malleolo, si sarebbe affannata a darmi del maniaco, invocando sicuramente fallo da rosso.

Quella mattina nel fondo del 36 era tutto uno schiamazzo, con una cricca di pischelli occhi-vispi svaccati nell’ultima fila di posti a scambiarsi battute che capivano solo loro per prendersi in giro – «Leo baitalo prima di failare, nabbo epico!» -, accompagnate da sguaiate urla, schiaffi su colli già viola di succhiotti e il tutto davanti alla signora occhi-neri-stanchi rimasta in piedi, storta e ferma, con le buste dell’alimentari appese alle dita che piano piano assumevano sempre più il colore di quella melanzana che spuntava tra uno yoghurt e un Findus.
Giuro che l’avrei fatta sedere, ma ero in piedi e in bilico a rischio ammonizione.

Di fronte a me occhi-neri-sottili guardava curiosa.
Probabilmente era asiatica e abbassava lo sguardo di tanto in tanto giusto per non dare nell’occhio.
Cosa mai stavano scrutando quei mezzi occhi asiatici?
Rimasi col dubbio se intendesse chiedermi aiuto o sedurmi, anche se in effetti riusciva in ambo le cose all’unisono, dacché mi accorsi di averlo barzotto, sebbene più allarmato che eccitato, più incuriosito dalle sue palpebre lente e dalle sue pupille attente.

Magari avrebbe voluto comunicarmi qualcosa, chiedermi di salvarla da una situazione tragica, come in un film di Park Chan-wook… o forse si stava solo svagando a osservare un volto ignoto. Anzi, la mia porzione di volto ignoto, perché tutte le nostre facce erano a metà. Immagini parziali e sconosciute.

Come le storie che intrecciavamo sulla stessa linea del bus fino alla fermata successiva.

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