di Cristi Marcì
Illustrazione di Redazione
Da qualche parte a Barcellona
1902
Dipingere è sempre stato il mio rifugio.
Il solo gesto con cui imprimere sulla nuda tela parole antiche e inafferrabili, che in assoluto silenzio fioriscono al riparo di un quotidiano beffardo.
Una luce brumosa si propaga a quest’ora del crepuscolo fra i viali catalani, scuotendoli di un fremito che ha tutto il sapore di una rivoluzione ormai imminente.
Si posa timida sui volti e i corpi delle più umili vite che lungo le Ramblas cerco sempre di catturare, nonostante la puntuale e cocente sensazione che qualcosa mi sfugga.
Al pari del mio popolo sono esposto a regole e futili dettami che non riesco più controllare, buoni solo a dirottare la creatività verso un precipizio che assomiglia sempre più a un’eterna sepoltura.
I lampioni da poco accesi emanano fiochi bagliori che annichiliscono il volto serale della mia Barcellona. Mentre rivedo gli schizzi della giornata mi soffermo ancora una volta su quella splendida carrozza nera trainata da due grigi sauri.
Si era fermata intorno alle quattro del pomeriggio lungo il viale e un vegliardo di bell’aspetto era sceso da un predellino finemente tirato a lucido. Calzava scarpe che i miei dipinti potevano solo fotografare e un completo nero dal cui panciotto marrone sporgeva un orologio da taschino. I folti baffi grigi, un po’ ingialliti dalla nicotina, parevano ingrandirsi man mano che si era avvicinato al treppiede.
«Torno subito Gabriel» annunciò al cocchiere, che con un rapido schiocco di frusta guidava già i due sauri verso una postazione diversa.
«Sono vostri ragazzo?» chiese una volta giunto al mio cospetto con un elegante bastone da passeggio dal pomello argentato.
«Si senor» risposi un po’ timidamente.
«Permettete?» chiese indicando uno schizzo in particolare.
Porgendo la mia intimità al servizio di quello sconosciuto mi scoprivo curioso e intimorito, mentre un cielo pomeridiano si tingeva un po’ di rosa e un po’ di arancione. La sua concentrazione vagava da un angolo all’altro del foglio esaltando rughe antiche intente a cogliere l’essenza di quanto vi era impresso. La mimica non tradiva alcuna emozione e i suoi baffi anziché rivelarmi qualche indizio coprivano per intero le sue labbra. Con il cuore in gola e un tempo dilatato, percepivo pensieri e fantasie mescolarsi tra loro per poi acquisire tonalità che in quell’istante non riuscivo lontanamente a decifrare.
Alle sue spalle il cocchiere avvolto nel suo mantello e con la pipa in bocca contemplava due bambini avvicinatisi per rimirare con crescente meraviglia i due giovani cavalli. Protendevano le dita verso i loro musi, ignari di tutta la corruzione che dai piani alti del governo Madrileno si stava propagando come un cancro impazzito lungo le arterie di tutta la nazione, portando la città catalana nel baratro della miseria e della povertà.
«Mi piace» esclamò entusiasta.
Sorrisi con discrezione mantenendo una rigida compostezza che ben si addiceva a quel momento per me solenne, ma che contrastava col mio versatile bisogno di carpire l’anima di un mondo ormai accessibile a pochi.
«Come vi chiamate figliolo?».
«Anton de Pereira signore» risposi sollevando la coppola verde a quadri in tweed.
«Seguitemi» ordinò girandosi e battendo la punta del bastone sui sanpietrini.
«Ma signore i miei dipinti non posso…». «Non temete per quelli, potete farne di nuovi» sentenziò dirigendosi con passo claudicante verso la carrozza e con in mano il mio lavoro.
Il cocchiere aprì lo sportello esortandomi a fare il mio primo ingresso dentro uno spazio che fino a quel momento avevo intravisto da lontano a conferma del divario tra me e quel mondo. Una volta preso posto sul sedile di velluto color bordeaux vidi subito il treppiede e il resto dei miei disegni sistemati con dovizia nel baule di quel meraviglioso calesse.
Levatosi il cilindro quell’anziano dai modi misteriosi e delicati ordinò di proseguire lungo il viale alberato per poi dirigerci verso un luogo che avevo già sentito nominare e che non tardò, seppure in maniera tumultuosa, ad alimentare le braci di un fuoco che per nulla al mondo volevo si spegnesse.
Appoggiato al morbido schienale della vettura i suoi occhi celesti si erano posati sulle mie dita, che ingenuamente sfioravano con meraviglia quel tessuto disegnando linee immaginarie che soltanto la fantasia permetteva di scolpire nel loro intimo prodigio.
Ignaro delle forme che iniziavano a prendere i miei pensieri ripensavo al volto di quella ragazza che il giorno prima si era accomodata di fronte al treppiede, mostrando con fare pudico una rara luminescenza: partorita da un sorriso che portava in grembo il seme dell’eternità.
A bordo di quel piccolo mondo, ora in movimento, sentivo nello stomaco un che di primordiale fondersi con il sole pomeridiano e scalciare per venire al mondo in tutto il suo candore.
Fuori dal finestrino un tripudio di gesti accompagnava il nostro silenzio, c’era chi litigava per un tozzo di pane o chi in gruppi, col giornale in mano, commentava le ultime vicende che avevano reso Barcellona la culla della rivoluzione operaia.
Giunti al Paseo de Gracia ricchi borghesi sfoggiavano inorgogliti stoffe e completi, che puntuali attiravano l’attenzione di mendicanti o di giovani fanciulle in cerca di un compagno.
Sotto i loro ombrelli di pizzo bianco ostentavano una decadenza che mal si coniugava con il loro fare civettuolo e che per nulla al mondo, mi trovai a pensare, avrebbe eguagliato l’anima di chi avevo ritratto.
«Siamo arrivati figliolo».
Fuori del finestrino, casa Batllò splendeva in tutta la sua rara bellezza e prima ancora di proferir parola Don Romero Ferreira, questo il nome che avrei scoperto a breve, con gesto celere liquidò ogni mia possibile iniziativa.
«Il vostro è un dono che un treppiede non può sorreggere a lungo, la vostra pazienza un eterno strumento di creazione» disse accennando un sorriso.
Non sapevo cosa aspettarmi, ma sentivo per certo che il ritratto di quella donna avrebbe illuminato il mio percorso al pari di quei trancadìs, che pazienti tessevano la trama di una storia che aspettava solo di essere dipinta.