La promessa

di Simonetta Gallucci

Illustrazione di Francesco Dell’Acqua

Voleva solo scopare. Se qualcuno glielo avesse chiesto avrebbe negato. Tutt’al più, messa alle strette, avrebbe potuto dire che “voleva fare l’amore”. Le calze a rete però tradivano le intenzioni. Non c’erano dubbi: voleva solo scopare.

Era il sei febbraio.
Non me lo sarei ricordata se quello stesso giorno un treno non avesse deragliato.
Alle cinque del mattino o giù di lì un Frecciarossa Milano – Salerno, all’altezza di Lodi, era uscito dai binari. Dodici ore più tardi stavo raggiungendo Porta Garibaldi, uscendo anch’io da un binario: quello della routine. Avevo preso un permesso al lavoro, accampando una scusa. Ero tornata a casa, mi ero fatta una doccia e avevo indugiato nuda davanti all’armadio aperto, per decidere come vestirmi. Ero uscita infilando in borsa la trousse dei trucchi, lo spazzolino e un cambio.
“Ho deciso di andare a fare serata a Torino”, avevo scritto a un’amica, senza specificare il tipo di serata. Arrivata in stazione ero sgusciata tra la folla dei pendolari, esasperati dal ritardo dei treni in partenza. Avevo due sole preoccupazioni: riuscire a partire e tenere ben chiuso il lungo cappotto nero per non scoprire i collant, più da discoteca che da tardo pomeriggio. 

Salita sul treno mi ero tolta il cappotto, ripiegandolo sulle gambe accavallate. Avevo tirato fuori un quaderno dalla borsa. Disinteressata alle cronache dei vicini sulle peripezie per rientrare a casa, appuntavo le sensazioni del momento. Volevo ricordare tutto.
Avevo alzato la testa e sorriso allo schienale davanti a me. Erano passati solo dieci giorni.

«Aspetta…»

«Che c’è?»

«Prometti di non farmi male?»

«Solo se tu prometti che sarai sincera e mi dirai se ciò che faccio ti mette a disagio.»

«Promess…»

Quella “o” era rimasta incollata alle labbra di lui.
In mezzo a Piazza Carlo Alberto, tra i passanti, facevamo gli adolescenti pur avendo entrambi ben superato la trentina. Sfrontati, incuranti degli sguardi, eravamo lì, sotto la statua.
Io cercavo di mantenere una certa distanza con le mani affondate nelle tasche, mentre lui mi teneva per i fianchi. Di tanto in tanto ci staccavamo, io per riprendere fiato e lui per via degli occhiali appannati.

«Ora però devo andare, altrimenti perdo il treno».

«Sei proprio così ansiosa di lasciarmi qui da solo in piazza?»

«Tanto è la tua preferita!»

Gli avevo dato un ultimo bacio.
Lui mi aveva ripresa per la manica e attirata di nuovo a sé.

«Allora ciao».

«Scappa, scappa».

Mi ero incamminata a testa bassa e solo dopo aver svoltato l’angolo, dando un’ultima occhiata indietro, l’avevo alzata portandomi le mani al petto. Ridevo da sola, facevo le linguacce ai bambini che incrociavo per strada. Ero felice.

La voce dell’altoparlante che annunciava l’arrivo a Porta Nuova mi aveva riscossa. Infilandomi il cappotto ero scattata in piedi, pronta a scendere. Ci eravamo dati appuntamento a una vineria di Vanchiglietta.

Ero in anticipo.
Mi ero seduta su una panchina davanti all’entrata, rialzandomi subito dopo. Avevo camminato fino all’angolo della strada e poi ero tornata indietro, contando i passi. Lui era arrivato al diciannovesimo passo del secondo ritorno, scusandosi per il ritardo. Ci eravamo seduti a un tavolino e avevamo ordinato un Nebbiolo, poi un secondo.
Dato fondo al vino ci eravamo avviati verso casa sua. Una volta entrati ero franata sul divano, completamente sbronza. Mi aveva aiutata a togliere il cappotto e fatta risiedere, sfilandomi gli stivali. Avevo cercato di rimettermi in piedi, sbottonando la mia minigonna e i suoi pantaloni. Gli tenevo le mani sulle spalle per non perdere l’equilibrio. Lui mi reggeva cingendomi la vita. Mi aveva spogliata completamente e accompagnata al piano superiore, facendomi distendere sul futon. Aveva cominciato a baciarmi. Io avevo braccia e gambe intorpidite. Mi si era sdraiato di fianco, sussurrandomi che forse era meglio riposarsi un po’. Ero caduta in un sonno profondo.
Lui mi aveva lasciata dormire, poi mi aveva risvegliata leccandomi l’incavo del collo. Ci eravamo baciati al buio. Mi era salito sopra, schiacciandomi con tutto il peso del corpo. A me veniva da vomitare ma, tra un bacio e l’altro, cercavo di prendere fiato e ricacciare indietro il sapore acido che risaliva dallo stomaco verso la trachea. Mi aveva penetrata con gli occhi serrati, continuando a battere e affondare, puntellato sulle mani, con una smorfia sul viso.
Avevo girato la testa e avevo smesso di guardarlo.

Il mattino seguente, quando mi sono svegliata, mi sono girata verso di lui: era di schiena, accucciato da una parte del futon, distante da me. Gli ho toccato la spalla. Si è voltato subito, non stava dormendo. In silenzio è rotolato giù dal letto. L’ho seguito al piano inferiore. Dopo tutte le parole scritte e sussurrate ora, per la prima volta, non avevamo nulla da dirci.

«Vuoi un caffè?» aveva chiesto.

«Sì, grazie.»

Silenzio.

«Non dovresti prendere il treno?»

«Sì, meglio che vada.»

Silenzio.

Ero uscita senza voltarmi.
Il rumore della porta chiusa alle spalle mi era rimbombato dentro. Avevo camminato incurvata per proteggermi dal vento e dagli sguardi, e per nascondere il trucco sfatto della sera prima. Stretta nel cappotto, ricacciavo indietro le lacrime.

Nell’incidente del giorno precedente un binario era stato tranciato e l’altro deformato. Salendo sul treno mi era tornato in mente quel dettaglio. Mi sono seduta, lanciando la borsa sul posto di fianco al mio. Ho visto il quaderno ma l’ho lasciato lì. Non serviva scrivere nulla, avrei ricordato comunque questa giornata in cui, come il Frecciarossa, avevo deragliato, qualcosa si era tranciato e ne ero uscita deformata. Continuavo a chiedermi ossessivamente il perché.

Ed ecco, mentre mi scorreva davanti un paesaggio sfocato, la nitidezza di un pensiero: lui non aveva fatto nessuna promessa.