di Jacopo Triggiani
Illustrazione di Matteo de Lucia
Domenica pomeriggio, stazione di Bologna centrale.
Sono arrivato con una mezz’ora di anticipo.
Non mi era mai successo.
Trascino la valigia fino alle panchine davanti all’ingresso e mi siedo.
Accendo una sigaretta.
Sono stanco di scrollare, stanco di riempirmi di informazioni sbrigative su argomenti che non mi interessano ma che il mio feed seleziona, senza alcun criterio apparente.
Decido di alzare lo sguardo e concentrarmi su ciò che ho davanti.
Mi disintossico dalle mie brutte abitudini: per farlo non ho niente di meglio da guardare che la facciata della stazione di Bologna, quella che immette su Piazza Medaglie d’oro.
Ho sempre pensato che le stazioni italiane fossero anonime.
Non sono mai stato un grande fan dell’architettura del regime.
A parte ciò, ho sempre ritenuto le stazioni dei non-luoghi, dei punti di passaggio per chi arriva e chi parte; un ponte obbligato fra la macchina e il treno da prendere e fra il treno arrivato e la macchina che porta a casa, nel migliore dei casi.
A volte, c’è l’autobus ad aspettarci.
Ad ogni modo, penso che forse la stazione ha qualcosa da dire, che forse un po’ di vita la spendiamo anche lì, senza accorgercene, correndo dietro ai ritardi, quelli nostri e quelli del mondo.
Penso a un libro bellissimo, che ho comprato proprio qui a Bologna.
L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio.
Murakami descrive le vicende di Tsukuru, che cerca di fare pace con un passato che ha ignorato per tanto tempo, ma che lo ha segnato per sempre. Come spesso accade, è una donna a costringerlo a guardare nell’abisso. Un po’ per gioco, lui ripercorre la sua vicenda, dalla spensieratezza del liceo alla danza dei primi anni di università, a braccetto con la morte, ammaliante più che mai. Ricordo un unico filo conduttore: le stazioni. Tsukuru ha sempre voluto costruire stazioni e finisce per farlo davvero. C’è una necessità impellente di ordine nella sua vita, c’è sempre stata, e la forma peculiare di questa esigenza è il non-luogo della partenza e dell’arrivo dei treni. Fra le file dei binari e i guasti alla linea, però, c’è spazio per l’armonia. La bellezza come un effetto collaterale che solo Tsukuru riesce a vedere. L’incolore Tsukuru, nel suo pellegrinaggio verso una pace persa tanto tempo fa, alla ricerca di una motivazione per un trauma tanto crudele quanto insensato. O forse solo verso una donna, che col passato non ha niente a che vedere e che potrebbe finalmente dare colore alla sua vita.
Mancano dieci minuti alla partenza del treno.
Alzandomi lancio un ultimo sguardo alla facciata annerita che sto per attraversare.
Percepisco quel velato senso di armonia che c’è nell’ordine. O meglio, sento lo sforzo pulsante dell’uomo che cerca di imporre i propri orari e le proprie necessità a un universo fatto di incroci e ritardi, davanti ai quali possiamo solo chinare la testa, ascoltando la voce metallica che ce li annuncia. Apprezzo per la prima volta l’accidentale bellezza del passaggio e dell’attesa, della corsa al binario e del caffè al bar della stazione, magari per salutare un amico, anche lui risucchiato in questo frenetico ambiente.
Penso che penso troppo e, di questo passo, finirò per essere in ritardo anche stavolta.
Afferro la maniglia del mio trolley e scendo le scale che portano al corridoio sotterraneo. Il binario è il numero 4; il tragitto si allunga per una cinquantina di metri. Salgo le scale e vedo una fila di persone in attesa sulla banchina. Mi domando se anche loro colgano l’armonia del luogo in cui si trovano; se si rendano conto anche loro di essere in pellegrinaggio e che questa è una tappa obbligata. Mi viene da sorridere: ad avere occhi per vedere, nessuno partirebbe.
Si apre lo sportello.
Saliamo tutti, spintonandoci a vicenda verso la prossima stazione.