di Jacopo Triggiani
Illustrazione di Matteo de Lucia
Ultima ora di treno. Sono in piedi dalle quattro di questa mattina e forse, dopo un aereo e due autobus, sto per arrivare a destinazione.
Non pensavo che ritornare da Berlino sarebbe stato così complicato, eppure mi sembra di viaggiare da giorni. Ad ogni modo, guardando fuori dal finestrino, seduto sul mio sedile pagato poco “perché-l’ho-preso-un-mese-prima”, ritrovo un senso di benessere.
Ho sempre pensato che i treni fossero un mezzo di trasporto privilegiato, anche più degli aerei.
Oggi me ne sono reso definitivamente conto.
Gli aerei mostrano le cose dall’alto; la vista è affascinante.
Allo stesso tempo, però, tutto è molto innaturale, tutto così distante.
Quel mondo non mi appartiene. Non mi è dato di guardare le cose tutte insieme, con una prospettiva completa, in viaggio come nella vita. Il treno, invece, è come un microcosmo che si muove in un mondo che posso abbracciare naturalmente, col mio fallibile sguardo di viaggiatore. Nelle cabine ognuno vive la sua vita, all’esterno della carrozza, pure. Il treno passa stazioni, paesi sperduti, periferie gremite con parchetti troppo vicini alle rotaie, e nel frattempo trasporta persone attraverso questi scenari. Tutto mi si offre nella sua interezza umana, non prospettica, eppure mi è precluso, con tutto il fascino che questo divieto comporta.
Penso che un autore ha dato corpo alle mie divagazioni: Boris Pasternak nel Dottor Zivago.
Il treno è la promessa di una nuova vita a Varykino per la famiglia del dottore, eppure, prima di tutto, è la macchina che trasporta attraverso il tempo e lo spazio della rivoluzione d’Ottobre. I vagoni sono stipati di storie più che di persone, e ogni passeggero si trova a passare attraverso le macerie della Storia che si sgretola, sotto i colpi di un avvenire più incerto delle idee che lo hanno profetizzato.
È tutto in quel fetido vagone, fra le urla dei bambini e i discorsi sconclusionati di uomini e donne incapaci di capire cosa accadrà. Il dottore sta in silenzio e, quando non riflette, guarda fuori, pensando a Lara.
Il treno è anche il mezzo che ricongiunge il protagonista alla donna che ama più di quella che dovrebbe amare, anche se lui non lo sa. Tutta la vicenda si racchiude nella locomotiva scricchiolante che divide il romanzo in due parti. Il treno è l‘unico mezzo per unire la storia privata di Zivago e la Storia che la comprende, con l’intento di soffocarla.
La Rivoluzione e l’amore aldilà di un unico finestrino che si muove lentamente, fra paesi diroccati e stazioni dismesse.
È la mia fermata, finalmente.
Scendendo gli scalini, comunque, sento che mi dispiace essere arrivato.
Sono esausto, ma mi metto a fantasticare sulla possibilità di una vita trascorsa passando accanto alle cose, troppo vicino per toccarle. Rifletto sulla possibilità di scorgere infiniti scenari, scorrendo via talvolta a passo d’uomo, talvolta in velocità, affidandomi a un conducente di cui non conosco neanche il volto, ma che so capace di portarmi a destinazione.
È inutile, questo treno proseguirà anche senza di me.
Posso solo guardarlo partire. Mi ha risputato nel macrocosmo delle macchine parcheggiate a chilometri di distanza per non pagare la sosta prolungata. Salgo in auto e metto in moto. Non ho per niente voglia di guidare, ma nel mio solitario abitacolo comincio un viaggio fatto di traffico e tensione, senza possibilità di distrazione.
Penso che non posso permettermi un autista.
Poco male: un treno ogni tanto costa meno.