di Guendalina Bruni
Illustrazione di Arturo Di Grazia
Fa appena chiaro, e ho già bisogno di uscire. Mia madre si è alzata, le do istruzioni per il
biberon e vado. Dove non so ancora. Scendo saltando disordinatamente gli scalini, con la
fretta di chi scappa da un edificio in fiamme.
Mi avvio alla fermata, mi infilo svelta nel tram che per fortuna stenta a ripartire.
Lo scatto fulmineo mi costa una fitta al tendine della caviglia sinistra. Mi siedo e pulisco le lenti
appannate degli occhiali con la sciarpa che mi sono appena sfilata.
“Celibi geografici. È questo che siamo”, mi diceva.
Il veicolo si rimette in marcia lentamente, sotto gli occhi rassegnati di un individuo incappucciato: la sua mano, che fino a un attimo prima insisteva sul pulsante di apertura, è ormai caduta a peso morto lungo i fianchi.
Accenno un mezzo sorriso che si spegne subito quando riporto lo sguardo all’interno e scovo la signora
con lo yorkshire seduta davanti a me intenta a scrutare il bottone della mia giacca.
«Buongiorno», intono ardita, con la chiara intenzione di farle notare il suo gesto imbarazzante.
Di scatto i suoi occhi fanno marcia indietro su di me, risponde “buongiorno” e germoglia un
sorriso, le rughe della fronte si distendono; per un attimo sembra che abbia allentato la presa
del guinzaglio.
È solo a quel punto che si sfila il cappello, e sopra l’orecchio destro compare
un’enorme benda, confezionata da mani esperte.
Gare.
Alla fermata della stazione le porte si aprono e il sali e scendi frettoloso provoca uno
spostamento di aria fredda che mi grattugia la faringe. Il tram si è mosso talmente piano che
ho l’impressione di esserci arrivata camminando, la vista dei binari mi si profila davanti come
una carrellata in slow motion; nell’eternità degli istanti passati ad aspettare di ripartire mi
distraggo osservando le persone che camminano maldestre; si aggrappano alla griglia
metallica del recinto ferroviario schivando cadute rovinose sulla neve indurita dal gelo.
Sorprendo la signora fare lo stesso, cerco di indovinare i suoi pensieri, che devono essere
pressappoco uguali ai miei, a giudicare dalla mano che si porta al collo per sigillare il cappotto.
Compie il movimento ruotando la testa verso destra, ed è allora che vedo una macchia si sangue fresco sbucare da dietro alla benda. Il tram riparte e la signora incalza: «Ha una bellissima giacca, non se ne trovano più di così».
«Di così come?»
«Di lana cotta. Era di sua madre?»
«Che cosa glielo fa pensare?» mi sorprendo a risponderle, e d’istinto accarezzo l’estremità a
punta del doppiopetto.
«Il taglio…deve averla comprata negli anni settanta».
Da quegli anni ad ora avranno prodotto sì e no un migliaio di imitazioni, mi verrebbe da
ribattere.
Invece prendo la palla al balzo e insinuo: «Un po’ come il suo cappello».
Les granges
Siamo nella zona rossa della città.
E pensare che fino a sei mesi fa ci venivo tutti i giorni a lavorare. La conosco come i buchi del mio pigiama. Un enorme edificio diviso in svariati settori circonda il parco Jean Verlhac, un tempo centro di spaccio, oggi declassato a vivaio di povertà confinata: una pattuglia mobile staziona davanti all’ingresso principale con lo scopo di mantenere la situazione sotto controllo, impedisce l’accesso ai malintenzionati, lasciando che i tafferugli restino privilegio dei condomini.
“Che si scannino tra di loro”, avrà ben pensato il sindaco. Ci ha fatto costruire anche un nido e una scuola elementare, con entrata diretta dal parco. Una mini città, tessuto impermeabile, premio fedeltà per il suo elettorato borghese. Il più delle volte andavo in macchina, per potermi poi spostare con più agilità quando ci vedevamo all’ora di pranzo: lasciavo i miei colleghi a riscaldare i loro Tupperware nell’unico
microonde del secondo piano, e mi dirigevo al centro commerciale a due chilometri da lì, con la scusa di un acquisto last minute.
Ci vedevamo nel grande parcheggio al primo piano, in uno dei pochi punti dove si potevano vedere il cielo e le montagne glassate dalla neve perenne. Le nostre mani si ritrovavano a frugare impazienti nel sedile posteriore di una delle due auto, sbottonavano pantaloni e camicette alla ricerca di contatto profondo.
Edmée Chandon
«Beh, buon viaggio, io sono arrivata».
La signora abbottona il cappottino impermeabile del suo cane e si dirige verso le porte e quando il tram si ferma del tutto spinge il pulsante e sparisce costeggiando la linea spartiacque tra città e periferia, dove le insegne a neon dei barbieri sgomitano tra Carrefour City e Lidl.
I cassonetti depositati sui marciapiedi intralciano il passo, offrendo perlomeno un appoggio
fortuito contro le cadute innescate dal ghiaccio.
Chiudo gli occhi per spezzare quella sequenza di immagini, gli addii non mi fanno bene.
Centro commerciale Grand’Place
Li riapro e son lì di fronte, ormai sola su questo tram che ha viaggiato lontano, sotto lo
sguardo del capomastro della squadra di pulizia, che mi ha appena scosso dolcemente:
«Signora, capolinea». L’immenso ipermercato a tre piani fa ombra sull’area di manovra del
tram, in coda dietro al suo gemello che sta per ripartire in direzione centro-città.
Le ringhiere del parcheggio, dipinte di rosso come la “C” del logo, scoloriscono lasciando posto alla
ruggine. Sono di fronte a quello che resta di quell’amore vissuto tra sedili umidi, finestrini
appannati e telefonate scomode, finito tra le righe di un messaggio scritto controvoglia.
Ignoro il tram in partenza e procedo per la rampa di accesso, scavalcando la sbarra del ticket.
Fuori ha ricominciato a nevicare, il cielo si è chiuso in un batuffolo biancastro, la signora avrà già
iniziato a spadellare. Io avanzo infreddolita, cercando di compensare il tepore del vagone su
cui ho passato l’ultima ora. Arrivata al primo piano, abbandono la rampa e mi faccio strada
lungo il passaggio pedonale, giù verso il fondo, incontro a quello spiraglio di cielo che
guardavamo dal parabrezza.
Un’auto blu elettrico ha preso il posto della tua.