di Giulia Lievore
Illustrazione di Francesco Dell’Acqua
Entro in metropolitana e il leggero profumo di cotton-candy, che arriva dalla borsa in plastica, scompare. Sono le sei e mezza di sera, tra una settimana è Pasqua e la M1 che passa per il Duomo è da un po’ che non la vedo così piena. Le uova e la cioccolata, fine e marrone, che stanno sopra la mia testa sono sostituite da spalle, braccia e gambe in cerca del loro posto.
Non ci sono facce, a stento ci si guarda negli occhi.
Vedo un palo, mi ci butto, lo stringo forte con la mano destra e subito altre due mani fanno lo stesso. Una sopra e una sotto, devo stare attenta a non sudare o rischio di scivolare e toccare la mano di uno sconosciuto. Al limite della visuale concessami dal cappello in crochet, lo vedo.
È ben più alto di me, il metro e ottanta lo supera di sicuro, da sotto il basco escono dei riccioli biondi e la sua guancia è perfettamente sbarbata. Con la spalla gli tocco l’avambraccio che è morbido e soffice avvolto all’interno di un coprispalla lungo e squadrato color verde menta.
Potremmo essere una bella coppia, penso.
Con quel braccio mi cinge, mi protegge dagli urti degli sconosciuti, mi offre una delle sue cuffiette e ascoltiamo insieme un album tutto fronzoli e musichette di John Mayer fino a scendere alla nostra fermata. Prima di arrivare a casa ci fermiamo a comprare una bottiglia di vino, l’indiano del mini market ci saluta per nome e ci augura una buona serata. Lui pela le patate e io scaldo l’arrosto, beviamo il vino da calici in vetro e facciamo finta di discutere se passare la Pasqua dai suoi o dai miei, è solo un’altra scusa per fare l’amore, ormai lo facciamo sempre.
Usa le cuffiette con il cavo, non quelle bluetooth, è un artista e non è mai stato interessato alle implementazioni tecnologiche e alle lunghe file fuori dagli store minimalisti del centro. Da qualche anno nel suo comodino tiene un diario dove la mattina, appena sveglio, appunta i sogni che riesce a ricordare. Una volta trasferiti nel cottage ristrutturato che sua zia bretone gli ha lasciato in eredità, avrebbe letto quel diario al nostro primo figlio.
Nello Yorkshire piove spesso ma non mi importa, mi ha comprato degli stivali in gomma color vermiglio e trovo che la pioggia sia attraente, anche se, ammetto, sono più le volte che la guardo da dietro la finestra. Non lavoro, a quello ci pensa lui, non me l’ha neanche dovuto chiedere, è stato così e basta. Provo a scrivere romanzi che non riesco mai a finire. Bevo in continuazione tazze di tè caldo dolcificato con del miele e scrivo storie d’amore ambientate in Sud America, Italia, Russia, Brasile e Australia ma sono tutte uguali perché parlano di lui.
Qualcuno mi spinge, da dietro, i miei blue jeans sono spessi, devo ancora fare il cambio armadio, ma riesco comunque a sentire una protuberanza che è indubbiamente la zip, con la punta metallica, della patta di un uomo. A fatica, riesco a girare la faccia, alzo un po’ il mento per aumentare la visuale.
È un vecchio, non mi guarda, ignora il risentimento nelle rughe del mio volto; non mi guarda ma il suo pube è appoggiato alla mia chiappa destra. Mi fa ribrezzo, vorrei spingerlo via ma non riesco, con un braccio mi tengo al palo e con l’altro reggo la borsa: l’ennesima candela che mi sono ritrovata a comprare. Per un attimo penso se tirargli uno scrollone con il bacino ma cambio subito idea: il suo sesso sarebbe ancora più attaccato al mio sedere. Riesco a immaginarmi il suo stomaco in subbuglio, sento i suoi pensieri allietarsi grazie al profumo dei capelli che ho lavato prima di uscire. Mi pare quasi di respirare l’odore rancido e acre del suo alito, filo d’aria inquinata che mi sfiora la guancia.
Voglio piangere e alzo gli occhi, grandi e umidi, alla ricerca del mio salvatore, del mio futuro marito.
Non mi guarda, mi ignora mentre fa zapping tra una storia e l’altra di Instagram, vedo una palestra e delle grosse tette; poi forse un tramonto.
Sarebbe dunque andato a finire così, il nostro matrimonio?
Dopo il primo figlio sono più sola di prima, il cottage è troppo grande da pulire e oltre alla casa e al bambino devo badare ai cani, l’ho pregato di non prenderli ma l’ha fatto comunque. Mai una volta che li porta fuori lui. Gli stivali in gomma hanno smesso di essere allegri nel loro rosso vermiglio ma sono costantemente ricoperti di fango, scuro e grumoso. Dormiamo in stanze separate e ci incrociamo solo la mattina per la colazione, sembra una casualità ma non lo è.
Mi sveglio presto per salutarlo e, anche se continuo a indossare il pigiama, mi sistemo viso e capelli come se dovessi uscire anch’io.
La sera, a cena, non c’è mai.
Siamo vicini solo quando abbiamo ospiti, mi bacia spudoratamente davanti a tutti, mi cinge il bacino da dietro mentre taglio generose e geometriche fettine di filetto alla Wellington, il suo preferito. Una volta salutati gli amici, mi ritrovo nuovamente sola a riempire la lavastoviglie.
Scopiamo una volta al mese, quando invito la mia migliore amica a passare con noi la domenica.
Lei non ha figli, si sporge sul bancone in marmo dove lui sta riempiendo bassi e pesanti bicchieri di Bloody Mary, vi posa i seni e i capezzoli le diventano turgidi e abbaglianti, come due piccoli fanali di macchina.
Quando andrà via faremo l’amore, durerà poco e io lo chiamerò mettendo la Y alla fine del suo nome proprio come fa lei. Mi lascia sul letto, macchiata, e va in doccia. Non ho voglia di lavarmi. Sul comodino ci sono dei kleenex, mi pulisco l’ombelico, piego il fazzoletto e lo metto dentro al cassetto.
The next station is Loreto.
Scendo.
Con il secondo marito, forse, andrà meglio.