di Davide Ricchiuti
Illustrazione di Raquel in Dreams
Sblocco la serratura con il pin e salgo.
La Cinquencento Enjoy è parcheggiata in zona universitaria. L’accesso è limitato, ma quest’auto è speciale.
Avrei voluto scrivere che è speciale perché è rossa, perché costa venti centesimi al minuto invece di venticinque (solo per questo mese), perché può andare dappertutto – fango, stelle, sotterranei – e invece la verità è un’altra. È speciale perché sul sedile del conducente trovo un biglietto scritto a mano.
Però lo sollevo per sedermi. All’inizio penso che sia un appunto qualsiasi della spesa perso da chiunque abbia guidato prima di me. Lo sistemo sul cruscotto, mi disinfetto le mani, prendo le chiavi e accendo l’auto.
I minuti costano dal primo istante in cui lo sportello si apre. Il tempo è denaro.
Mai prima di guidare queste Cinquecento Enjoy avevo sentito sul collo il fiato del capitalismo.
Apro Google Maps e sistemo il telefono a vista.
Devo raggiungere un salotto letterario dove mi hanno invitato per presentare il primo numero della rivista che ho fondato da poco. Sono un uomo e in questa rivista pubblico solo donne, autrici esordienti, scrittrici affermate, giornaliste iscritte all’albo, tiktoker che hanno cose interessanti da dire sul femminismo. Si parla di aborto clandestino, identità di genere, body shaming, violenza domestica.
Roba seria, roba attuale, roba che vuole dare un segnale.
Io sono un tipo serio, sono un tipo attuale, sono un tipo che vuole dare un segnale.
Non faccio nemmeno in tempo a inserire la freccia per uscire dal parcheggio che un tizio suona il clacson nel mio cervello. S’intromette tra le cose che devo dire alla presentazione, le stavo ripassando a bocca chiusa, con le mani sul volante e il motore acceso.
Il tizio doveva essere alla ricerca di un posto da chissà quanto.
Deve avere intercettato le luci dell’auto.
Si accendono automaticamente se il conducente precedente non le ha spente.
Con una calma buddhista avanzo fuori dalle strisce del parcheggio. Il tizio suona ancora.
Io rallento di più, se possibile.
Lui scende dalla sua auto e si avvicina al mio finestrino.
Batte il pugno sul vetro. Grida qualcosa. Io accendo la radio e comincio a tenere il tempo con le mani sul volante.
Stanno passando Fulminacci, quel pezzo dove dice: gli sbagli che ho fatto, però non ho una tattica tattica tattica. Il tipo risale in auto e suona di nuovo, poi preme a vuoto sull’acceleratore. Io inserisco la prima è lascio Mr. Clacson nel mio retrovisore.
La gente fa schifo, canta Fulminacci. Certi uomini fanno schifo, in effetti.
Potrei usare questa frase alla presentazione. O è un po’ eccessiva?
Inserisco la seconda e la terza.
Rallento al primo semaforo, scalo marcia, freno e vado in folle.
Mi ricordo del biglietto.
Lo prendo dal cruscotto, ma appena provo a decifrare la calligrafia delle parole scatta il verde.
Intravedo un numero, forse di telefono.
Rimetto a posto il biglietto e parto.
Prima, seconda, terza, giro a destra, la strada si allarga, mi sistemo nella corsia centrale. Non c’è nessuno davanti a me, rallento un poco e provo a riprendere in mano il biglietto. Niente da fare, quando metto a fuoco la prima parola l’auto sbanda leggermente.
Appoggio il biglietto, riprendo il controllo, ma non vedo l’ora che appaia un altro semaforo rosso.
Eccolo, mi fermo. Mi rendo conto solo in quel momento che avrei dovuto essere sulla corsia alla mia sinistra adesso, non in centro. Ora come faccio a girare?
Controllo la strada voltando la testa all’indietro e vedo tre auto in arrivo.
Scatta il verde e cambio corsia, anche se non potrei.
Mi accodo all’ultima auto che passa a sinistra mentre almeno tre clacson dietro di me sparano lamenti inenarrabili. Hanno fretta di andare dritto. Uno poi ringhia qualcosa mentre abbassa il finestrino. Adesso Fulminacci canta: la gente è cattiva. Sorrido.
Guido fino ad arrivare nella zona del Masada.
Il salotto letterario a cui sto andando si chiama così. Ci metto un po’ a trovare parcheggio, ma alla fine mi fermo in una traversa di Viale Carlo Espinasse. Prendo la borsa, conto le riviste e apro l’app per terminare il noleggio. Controllo l’orologio. Sono in ritardo.
Esco dall’Enjoy e aspetto che si chiudano a chiave le portiere. Poi mi ricordo del biglietto e lo cerco sul cruscotto con gli occhi.
Mi avvicino e non credo a quello che leggo.
Accendo la torcia del telefono e la punto sul biglietto per rileggere, ma il parabrezza riflette la luce.
La spengo e riprovo. Scatto una foto al biglietto e zoomo sullo schermo del telefono. Incredibile.
E pensare che ho passato tutto quel tempo in auto senza leggerlo.
Telefono a Ugo, che mi aveva invitato al Masada, e gli spiego la situazione.
Gli riferisco cosa c’è scritto sul biglietto. Lui rimane in silenzio qualche secondo, poi dice che devo andare in questura.
E io sono d’accordo, ovvio. Dice che se io non facessi questa denuncia subito non avrei nemmeno fondato il tipo di rivista che hai fondato.
«Giusto?» mi chiede. Gli rispondo che però così la presentazione salta di sicuro, la burocrazia ha tempi dilatati: ero venuto a Milano per presentare la rivista, ho stampato più copie apposta, preparato un discorso. Ugo dice: «Cristo, ci sono delle priorità. E la vita della ragazza che ha lasciato quel biglietto, in questo momento, è più importante della nostra».
Ha ragione.
Avrebbe dovuto fondare lui la rivista femminista, non io.
Io, in fondo, sono solo gente.
Gente che fa schifo.
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