Elogio dell’ignoranza e dell’errore di Gianrico Carofiglio, alle radici delle nostre opportunità

di Cristi Marcì

Illustrazione di Anastasia Coppola

Secondo lo psichiatra americano Daniel J Siegel lo stato mentale di un individuo indica la probabilità con cui pensieri ed emozioni possono ripresentarsi tanto nel presente quanto (e soprattutto) nel futuro.

Questi ultimi riflettono due fasce temporali attorno alle quali i propri vissuti possono gradualmente tradursi in convinzioni o peggio ancora in certezze assolute e definitive, limitando così non solo la panoramica del nostro sguardo bensì la nostra flessibilità cognitiva.

Se da un lato il pensiero innesca una serie di processi utili alla formazione di rappresentazioni emotive e cognitive, dall’altro le convinzioni rischiano di sedimentarsi per poi tramutarsi in vincoli di natura normativa, di fronte ai quali il ragionevole dubbio e la messa in discussione non sempre vengono contemplati.

Tra errore e ignoranza

Attraverso le pagine del suo ultimo saggio Gianrico Carofiglio si sofferma sul rapporto sottile che intercorre tra il concetto dell’errore e quello dell’ignoranza, descrivendoli stavolta in un’accezione unicamente positiva e per questo fuori dagli schemi.

Quanto proposto è infatti una revisione di quegli stili e quei modi di sentire che attraverso il volto delle parole possono radicare schemi interpretativi difficili da estirpare e ai quali non vorremmo mai rinunciare.

Se infatti l’abitudine è una cattiva consigliera, la disposizione d’animo ad accogliere le novità dovrebbe essere un esercizio al quale ognuno di noi non dovrebbe rinunciare ma che troppo spesso converge in un immediato rigetto a favore di pregiudizi preesistenti.

Secondo l’autore la presenza di preconcetti già sedimentati può infatti obnubilare il nostro raggio d’azione, impedendo di cogliere le opportunità che si celano dietro ogni “imprevisto”.

Se sbagliare è umano coltivare un atteggiamento che non precluda il volto misterioso degli eventi e delle circostanze quotidiane consente la fioritura di una mancanza pronta a manifestarsi in tutte le sue sfumature: rendendo ciò che erroneamente definiamo ignoranza un ponte grazie al quale raggiungere, per prove ed errori, nuove chiavi di lettura.

Sotto un profilo psicologico ciascuna riga di questo saggio, porta con sé un valore simbolico applicabile in chiave analogica ai più svariati campi del nostro quotidiano.

Lo spirito “shoshin” e la possibilità di sbagliare

In una delle opere più importanti del secolo scorso, il noto psicoanalista Carl Gustav Jung definiva il significato come una lente capace di limitare esclusivamente l’espressività creativa con cui ciascuno di noi si trova a fare i conti giorno per giorno.

Viceversa il simbolo riflette qualcosa di più ampio, indefinibile ed eterogeneo; la cui natura apre nuovi scenari in grado di promuovere a nostra insaputa le più imprevedibili metamorfosi.

Operare un processo di revisione del nostro modo di parlare, sentire e comunicare vuol dire mettere in crisi tutte quelle conoscenze acquisite nel tempo e che nel quotidiano rischiano di atrofizzare una plasticità neurale che al contrario arricchirebbe quanto già custodito nel nostro patrimonio culturale.

Occorre dunque promuovere un atteggiamento flessibile che sia in grado di mettere in crisi quei capisaldi ai quali deleghiamo un potere pericoloso, riponendo certezze assolute che altro non fanno se non definire inconsapevolmente le nostre identità, ma soprattutto i nostri pensieri.

Nel saggio, quello che più colpisce è l’invito, nonché la sfida, a far proprio quello sguardo investigativo grazie al quale ogni conclusione non può che terminare se non con un punto interrogativo, capace di ripristinare un dialogo con sé stessi e con gli altri attraverso cui accogliere l’eterna essenza di una complessità inafferrabile.

Quando il corpo si ribella alle certezze

Sotto il profilo psicosomatico è interessante constatare come il linguaggio quotidiano, proveniente dall’esterno sotto forma di prescrizioni comportamentali e normative, abbia preso sempre più le distanze da quell’intimo dialogo ormai dimenticato.

Le parole, i comportamenti e le attitudini con le quali ci orientiamo nel mondo fanno davvero parte del nostro dizionario?

Quello che comunemente viene etichettato come nevrosi è il risultato di un’omologazione sociale dove l’autentico viene sostituito con il banale e dove l’essenziale non trova posto in quello che è ormai superfluo.

Eppure senza rendercene conto la “logica preverbale” dell’errore risiede proprio nella manifestazione sintomatologica che attraverso il corpo comunica un qualcosa che non ci appartiene e che tuttavia per paura del cambiamento rifiutiamo di ascoltare: etichettandola per assurdo come un pericolo.

Accogliere l’imprevisto vuol dire quindi fare spazio a una dimensione dialogica (in)conscia che altro non chiede se non il ripristino di un linguaggio ormai obsoleto; che in superficie si impregna di trame che lo allontanano dalla propria e autentica narrazione.