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di Jacopo Triggiani

Illustrazione di Matteo de Lucia

Salgo sul treno. Destinazione Milano.
Vado a trovare degli amici.

Siamo tutti della stessa città e siamo tutti sparsi per l’Italia per motivi di studio.
Ci costruiamo un futuro, o quello che è.

Milano è un buon punto di incontro.
La nostalgia ci spinge a ritrovarci lì, perché ognuno, a suo modo, è per l’altro uno scampolo di quotidianità perduta, di quelle vecchie abitudini che fanno sentire al sicuro.

Seduto nel mio posto penso che, però, è qualcosa d’altro a spingermi.
Non basta la nostalgia né la voglia di sbronzarci tutti assieme, come ai tempi del liceo.
Mi risuona in mente la parola amicizia e mi viene in mente un libro che ho letto a riguardo.
Si chiama La simmetria dei desideri, di Eshkol Nevo, e me lo ha regalato una mia cara amica il giorno del mio compleanno.

Quattro ragazzi, legati dai tempi della scuola.
Churchill, Ofir, Amichai e Yuval. Ognuno ha le sue caratteristiche peculiari. Indubbiamente il leader carismatico è Churchill, sempre intraprendente e fascinoso. Ma Yuval ha il talento per la scrittura. È lui a dover dare voce alla storia del gruppo; è lui a dover raccontare il tradimento della sua amata Ilana, che sceglie proprio Churchill come suo nuovo compagno. Ofir, nel frattempo, subisce la sua esistenza, fino al punto di rottura. Amichai, a differenza sua, ha tutto ciò che vuole, ma, come spesso accade, gli viene tolto. Sono quattro esistenze slegate, senza alcun contatto anche solo pensabile, eppure unite.

Come dei fili trasparenti che tengono insieme le membra disgregate di un corpo unico.

Yuval parla di questi legami come se fossero naturali; dà loro l’importanza dei dati di fatto, quasi senza accorgersene, quasi fossero scontati. Come a dire che si è amici perché c’è una corda che ci tiene, e viceversa. Pura tautologia.

Su questo treno troppo veloce, mi rendo conto che ciò che mi spinge a Milano è proprio questa sensazione data per scontata. Mi rendo conto che per quanto io possa essere lontano da certe persone, nel fondo della mia coscienza, la loro esistenza per me, in relazione a me, sarà sempre un dato di fatto.
Le esperienze vissute, la conoscenza reciproca, l’affetto che ci lega saranno sempre lì, a occupare uno spazio angusto e persistente. C’è tanto egoismo, come in ogni emozione umana degna di questo nome. Ma mi ritrovo a pensare che sia un loro dovere continuare a mantenere quel posto, come lo è per me.

Ho la certezza che non è per noia che siamo rimasti amici; non perché non c’era niente di meglio. Screzi e dissapori sono solo distrazioni, come nel libro di Nevo. Indipendentemente da noi, esistiamo come amici, soprattutto quando nessuno risponde dall’altro capo del filo.

A me non è andata poi tanto male, devo dire.
Almeno non ho nessuna Ilana da reclamare, per il momento.

L’avviso della fermata mi richiama alla realtà.
Ormai siamo in arrivo a Milano Centrale. Riavvolgo il filo.
Vedo il mio amico che aspetta appena fuori dal tornello.

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di Jacopo Triggiani

Illustrazione di Matteo de Lucia

Bologna centrale.
Tanto per cambiare, piove durante tutto il tragitto per arrivare in stazione.
Il binario è il solito, il numero tre.
Mi fermo davanti alla porta della mia carrozza a entro nel mio intercity 604.
Vado a casa, o ci torno: fa poca differenza, almeno per chi, come me, non ha l’assurda presunzione di possedere un luogo.

Il posto è l’11d.
È dal lato del finestrino e, almeno di solito, il posto accanto rimane vuoto, forse perché la seduta è leggermente ristretta per la vicinanza del vano porta valigie della carrozza. Poco male, io ho le gambe corte, come il fiato del controllore che ci passa in rassegna, e quello spazio mi è più che sufficiente.

Stavolta si siede una persona accanto a me.
È un uomo anziano, ha la barba lunga, e un lungo cappotto nero. Di recente mi è capitato fra le mani un racconto di Tolstoj: La morte di Ivan Il’iĉ.
L’ho preso a mio fratello più piccolo, che non sapeva che farsene, e ora lo stringo fra le mani.
Voglio rileggerne alcune parti. So che manca qualcosa alla mia lettura.
«Un bellissimo racconto», esordisce il vecchio. Chissà perché mi aspettavo che sarebbe successo.
«Non mi è del tutto chiaro. Mi sembra banale, troppo snello. Però è Tolstoj…» faccio io di rimando. «Quando lo lessi, tanto tempo fa, mi diede la stessa impressione. Ora che sono vecchio e mi sento più vicino al protagonista, forse comincio a capirlo».
«Il problema è proprio quello. Non so cosa ci sia da capire. La storia è travolgente, in tre parole si descrive una delle morti più atroci di cui io ho mai letto. Ma non vado oltre. Un borghese della Russia del XIX secolo muore di un male incurabile. Tutto qui. Niente di più semplice. Partecipo alla sua angoscia e basta».

«Secondo me ti stai ponendo la domanda sbagliata. Quando ho letto di Ivan Il’îc pensavo che l’unico dubbio di quel povero borghesotto riguardasse il destino. Come se si chiedesse perché stesse capitando a lui tutto quel male… Non è così, te lo assicuro. Quando la morte si avvicina, come capita al personaggio, o come sta capitando a me, ci si domanda se sia vero che può succedere anche a noi». «Però la risposta è ovvia. Ci mettono davanti la morte ogni giorno; a volte, se ci va male, ci cade letteralmente affianco. Tocca a tutti, prima o poi».
«Un conto è saperlo; un conto è capirlo». Mi fa il vecchio.
«Secondo te perché Ivan chiude la sua vita urlando per ore che lui vive come un secondo? Non c’è redenzione, c’è solo paura, ed è terrificante. Tutto il tempo buttato a inseguire i sogni da salotto che gli hanno imposto, a sopportare una vita, una moglie, dei figli, solo perché deve. E alla fine muore, e neanche sa perché. Gli manca la terra sotto i piedi. Al suo capezzale non c’è veramente nessuno, a parte il servo che gli lava i piedi o lo solleva dal letto per farlo soffrire meno. Anche io urlerei, a squarciagola». Rispondo: «in effetti, è una fine proprio squallida. Nessuno riesce a comprendere il dolore, e l’unica cosa che rimane al malato è la rabbia, la paura. Non credo che sopporterei di capire che la morte è anche mia. Solo a pensarci, mi viene da piangere».

Ci penso su, come non avevo fatto prima di incontrare questo signore invadente. Penso che forse, finchè non ci prende per mano, la morte non esiste davvero. È questa la scoperta di Ivan Il’îc. Sì, forse è così.

Quasi mi viene voglia di gridare: io che mi dimeno nel vagone, valigia alla mano e zaino in spalla. Io che urlo a quei compagni occasionali che moriranno, e che devono accettarlo. Che fra i titoli di coda, c’è scritto anche il loro nome, che ci credano o meno. Dal Vangelo secondo Lev Tolstoj.

Soppeso ancora un po’ il volume fra le mani. Il vecchio deve scendere dal treno, quasi non mi saluta, l’ingrato. Dopo poco tocca a me, come a tutti: siamo in arrivo a Ancona.
Termine corsa del treno.
Scendo gli ennesimi gradini anneriti, sornione sui passeggeri ai quali ho deciso di non elargire la mia novella.
Chissà perché, questa fine, riesco ad accettarla di buon grado.