di Jacopo Triggiani
Illustrazione di Matteo de Lucia
Stazione di Bologna Centrale.
Salgo sul solito regionale stipato di pendolari. Oggi la situazione è anche più critica del solito: c’è stata la manifestazione.
In genere non partecipo a questi eventi collettivi, lo trovo ipocrita.
Mi sembra sempre di non saperne abbastanza, di non capire fino in fondo, e sicuramente non ho bisogno di una scusa per uscire a bere e conoscere gente. Ma la questione di Giulia Cecchettin è diversa.
Conosco perfettamente la sensazione di rabbia che mi stringe lo stomaco quando vedo un abuso, di qualsiasi genere. Conosco la rabbia cieca che mi prende ogni qual volta un essere umano viene cancellato, nel suo diritto alla vita, prima che nella sua esistenza fisica.
Sono stato anche io a Bologna a manifestare. Era il minimo.
Sono praticamente steso sul mio sedile sdrucito; sono stanco. Eppure continua a ritornarmi alla mente la parata, e in particolare uno slogan: BRUCIAMO TUTTO.
Cartelloni arsi, oggetti gettati nelle fiamme. Tutto brucia, e mi ricordo di un bellissimo libro.
Il titolo probabilmente gioca un ruolo fondamentale in queste associazioni quasi oniriche: Bruciare tutto.
Non c’entra nulla con Giulia, o quasi.
Walter Siti racconta la storia di don Leo, un prete che lotta contro la propria pedofilia in una parrocchia milanese di provincia. Leo non ha sempre avuto questa forza; una volta ha ceduto. Da quel giorno, mai più un rapporto o un atto impuro, almeno fino all’arrivo di Andrea, con la sua ingenuità di bambino. Almeno fino all’epilogo del romanzo.
Ricordo una metafora in particolare.
A un certo punto, Leo riflette sulla situazione della sua parrocchia e sulla fede dei suoi frequentatori, spesso di comodo. Pensa al sacrificio di Isacco.
Pensa ad Abramo, alla sua dedizione incorruttibile. E infine pensa al momento successivo, all’omicidio mancato. Immagina che Abramo decida di bruciare tutto: l’altare, i propri abiti. Non vuole scagionare se stesso, ma vuole scagionare dio. Preferisce che il figlio lo odi come un padre degenere, pronto a ucciderlo senza motivo. Isacco non deve avere prove per odiare un dio che lo aveva scelto come agnello sacrificale. Il patriarca biblico prende su di sé le colpe del suo Signore, e brucia ogni indizio.
Anche oggi abbiamo bruciato tutto, ma questo gesto aveva la sensazione di un rifiuto. Le fiamme non scagionano il colpevole diretto, non scagionano Filippo. Ma non si può guardare solo a lui. C’è un dio che è necessario incolpare, questa volta. C’è una società di stampo patriarcale da modificare, da bruciare. Non si può più accettare il femminicidio come caso estremo, isolato e sopportabile, di un sistema che insegna il sopruso mentale e fisico come paradigma relazionale. Non ci si può più nascondere dietro gli slogan: “Non è colpa di tutti gli uomini!”; “Tutti gli uomini sono ugualmente colpevoli”.
Bruciamo tutto, anche le frasi di comodo, e guardiamo in faccia una realtà di violenza alla quale ci siamo abituati in ogni contesto, non solo in quello sentimentale. Bruciamo una società costruita sulla diffidenza di genere e su gerarchie imposte in base agli stessi criteri. Bruciamo tutto ciò che ci rende colpevoli, per essere finalmente innocenti.
La voce metallica mi richiama. È la mia fermata.
Mi trascino sugli scalini e accendo una sigaretta, la più buona della giornata.
Penso che sono fortunato, perché mi hanno insegnato ad amare.
Penso che un po’ di cenere, comunque, ce l’ho addosso anche io.
Ma va bene così.
Oggi abbiamo acceso una fiamma. Abbiamo dato a Giulia quella “cremazione” che meritava.
Continuiamo a attizzare i carboni, finché ce ne sarà bisogno.