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di Mariangela Romanisio

illustrazione di Anastasia Coppola

Sono il sessantatré, faccio sempre lo stesso percorso, guidato dal solito autista che non mi strapazza troppo e mi dà quello che mi serve per andare avanti. Però mi annoierei, se non fosse per la varia umanità che mi usa e mi calpesta quotidianamente, o mi verga i sedili con scritte ironiche, tipo: “Quanta fretta, ma dove corri, dove vai?…” o con altre non dirette a me.

Sì, sono guidato, ma il lavoro più pesante lo svolgo io, a piano carico.

Non sono mai stato un autobus con la spocchia, io ricevo tutti quelli che vogliono salire, agevolando (sono predisposto) anche gli invalidi e i portatori di handicap, ma certi personaggi mi stanno sulle sospensioni più di altri.

Come quel giovinastro, oggi, che mi guardava in lungo e in largo col labbro schifato e il naso arricciato, di certo pensando di stare su un mezzo inadeguato a trasportare la sua persona. Mentre era lui ad umiliare me, un autobus militante dalla gran carriera, dal motore rodato, che ha trasportato centinaia, ma che dico centinaia, migliaia di persone in salvo da un capo all’altra della città, e spesso a sbafo. Non sono io a puzzare di mio, è gente come lui che mi fa puzzare!

Lui, col suo collo da giraffa bonsai, un cappello con un residuo filamentoso di nastro argentato da uovo di Pasqua, l’aria da borioso tracotante, il tipo di passeggero che non si fa da parte quando chiunque altro si accorgerebbe di dover lasciare un corridoio sulla piattaforma per l’altrui discesa.
Lui, il tipo di passeggero che si fionda sull’unico posto libero, senza fare circolare lo sguardo in cerca di un anziano, una donna incinta, cui il sedile spetterebbe per consuetudine civile.

Sono stato contento per lo strattone datogli da quell’altro nell’occasione di una fermata affollata, proprio mentre l’autista (che combinazione efficace) mi frenava di colpo, così all’arrogante gli si è staccato anche un bottone del soprabito. Ben gli stava!
Come il mio gas di scappamento addosso, quando è sceso, mentre mi girava dietro per attraversare la strada.

Mi piace percorrere il Viale dei tigli, con le fronde che mi accarezzano le fiancate, è una gradevole sensazione.

Lì l’ho rivisto, stasera, nei pressi di un bar, quel collo da giraffa bonsai col gozzo in evidenza, mentre stava con un altro che lo fissava con uno sguardo obliquo, lui e il suo soprabito stazzonato e strattonato, blaterando di sicuro per recriminazioni del suo quotidiano rapportarsi al prossimo.

È capitato a proposito centrare in velocità con una gomma la pozzanghera che gli ha schizzato una scarpa: quello ha emesso un verso sguaiato e mi ha gridato dietro, anche se non mi ha riconosciuto.

So di essere meglio di lui:  c’è più vento di boria in lui che aria nelle mie gomme, di sicuro, che non sono a terra.
Io sono un mezzo di trasporto al servizio altrui, lui è un mezzo uomo che serve solo al trasporto della sua vana tracotanza fra l’altrui deprecazione.

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di Marco Di Travertino

Illustrazione di Stefania Brandini

Quella specie di tartaruga è un uomo: intabarrato nel pastrano stinto in un alba che potrebbe esser livida, ma è il mondo reale e, quindi, un’alba di merda.
Esita nell’atrio del casermone scrostato, fatto apposta coi piedi per farti sentire inferiore. Il chiarore fuori è un riverbero grigio tra le pozze fangose increspate da pioviggine e vento, spasmi terminali di una notte squassata dalla tempesta.

Le sette meno un quarto: l’ora del raccapriccio.
Strattona il cancello e si lascia investire dalla tramontata.
Quel po’ di stufelettrica-moka-carezzalgatto, disperso in un attimo.
La tartaruga incassa le gocce, rabbrividisce e allunga il passo.
Va a lavoro coi mezzi, che non passano o sono in sciopero, zeppi di carne o prendono fuoco. Ci sarebbe da ridere ma è lunedì.
La sera ha bevuto e mancano otto mesi alle ferie.
La tartaruga si sente truffata e stanca.
Un inizio giornata tragico. Anche eroico, però: il lavoratore che soffre a testa alta… Un eroe proletario!
Bell’eroe del cazzo, pensa la tartaruga, che tra mutuo, alimenti e spese varie non può mandare tutto a puttane.

Da quando ha lasciato la patente in mano a un appuntato – guida in stato di ebbrezza – ha bisogno ogni giorno di una metro e due bus.
L’attesa del primo è febbrile, non ci si abitua mai. Al momento giusto guadagna un buco senza troppi complimenti nel marasma umido: cappotti impregnati di fritto, ombrelli, zainetti cenciosi, adipe, membra, respiro.
La tartaruga non riesce a timbrare il biglietto e se ne cruccia.
La forza dell’abitudine.
Se ne guarda bene il controllore dal mischiarsi a cotanta canaglia…
È al bar, mastica una bomba alla crema. Lo zucchero gli atterra sul golfino alla faccia di quel quarantotto di monossido di carbonio, cipolla-sudore e alitosi impiegatizie al cappuccino-cornetto.

Il traffico? Un patimento.
Si striscia lungo la dolorosa arteria di periferia, un tempo industriale. Fracasso persistente di clacson punteggiato di cordiali vaffanculo.
Un fiaterello di operai, alcol stantio, si incunea nell’aria già di per sé vivace. Sciami di motorini zigzagano tra le vetture ferme, il medio dal finestrino è quasi un “baci ai pupi”. L’orologio non fa sconti.
La tartaruga reprime una loffa.
«Se avessi il teletrasporto – pensa – sarei ancora a letto. Farei la doccia solo qualche minuto prima di arrivare a lavoro fresco e pulito, in orario. Ma se avessi il teletrasporto, avrei bisogno di lavorare?».

Il metrò: l’ingresso è una bocca sdentata in cima alla salita.
Mandrie intere, armenti ferrigni giù per le scale sdrucciolevoli per la fanghiglia. Si lotta per guadagnare terreno.
Un ragazzotto in pettorina spinge in mano alla gente un “notiziario” gratuito: monnezza, propaganda, merda. La tartaruga ha fretta, lo maledice gettando l’almanacco com’è verso un bidone.
Manca il bersaglio, le pagine tutte per terra e neanche un minuto per raccoglierle. Un colpo al suo senso civico.
Tre raccapriccianti fermate: porte che frollano arti, asfissia generale, gomiti in testa, per aria, nel culo. Due ragazzine commentano il fatto del giorno: un tizio ha sparato alla moglie davanti alla figlia, ha sparato alla figlia davanti al cane, poi s’è sparato.
Non bisogna far male agli animali, pensa la tartaruga.

«SAN GIOVANNI», gracchia l’altoparlante.
Una marea solo vagamente umana, partecipe della stessa convulsione si riversa all’allungo finale: il bus delle sette e trequarti, ultimo possibile per l’altra parte del mondo.
La tartaruga corre e ridacchia: assurdo che esistano corse delle otto meno un quarto da “prendere o lasciare”, ritardi, contestazioni disciplinari e lavori da sciacquatazzine.
Ride come un cretino e corre: mica è semplice farlo assieme.
Il ragazzo ha talento ma viene bloccato da un semaforo.
Il “ragazzo”, non il talento: quello è pietrificato da tante cose.
Depressione, pigrizia, un discreto alcolismo, autostima zero fin dalla culla e quasi quarant’anni di sfiducia nel prossimo. Flusso infernale di macchine e il rosso più lungo dell’universo. Tre minuti più preziosi dell’acqua persi per sempre, la lancetta lunga in fuga sull’orologio del Laterano e le gambe a friggere. Le automobili continuano a sfrecciare…
Il 714, Dio Cristo, l’autobus!
Miseria impotente.
Quel serpentone verde, quella cazzo di fiera dell’est che ci mette venti minuti per fare tre metri, stamani inforca la curva sciolto come una ballerina russa! La tartaruga realizza, s’arrende, lo dice ad alta voce perché trova giusto assaporarne il peso esistenziale: Sono In Ritardo.
Il transito è ancora impedito. Un leggero tamponamento ha l’effetto d’ingigantire l’ingorgo.

Fuoristrada manovrano per rubacchiare mezzo metro di strisce pedonali.
Il frastuono è ovunque. Assoluto filosofico: clacson come urla di strazio. Ominidi in piena escandescenza a rantolare tricchetracche di madonne dietro a finestrini appannati, capacissimi di ammazzarsi a vicenda.
Ma ecco il pezzo forte: un vigile urbano tutto marziale, maschio latore del nerbo quirite, farsi largo come un centurione tra SUV e berline per fischiare contro tutti e nessuno, gesticolando come il Direttore Maligno dell’Orchestra dell’Indistricabile.
Fa casino anche peggio!
La mischia appiedata ondeggia su e giù dal marciapiede decisa a saltargli alla gola, a quel pezzo di merda frapposto tra la luce verde e l’altra sponda selvaggia…
Scatta l’arancione, è troppo!
Esonda, lo lascia ecce homo al pizzardone: culo a terra e ben gli sta! Il nostro è nel mucchio, ma il mezzo è già oltre.
Inutile pure affacciarsi alla traversa: perso quello persi tutti.

 Il taxi lo scarica a qualche metro dal bar.
Venti euro per incassarne quaranta e un quarto d’ora di ritardo.
«Alla buonora!», sibila la cassiera dall’alto del suo sgabello. Quel paio di metri.
Insulti soffocati dalla porta della cucina.
Il capo è già all’opera. La tartaruga afferra il caffè che un qualche collega gli lancia sul banco e lo butta giù incendiandosi lingua, esofago e budella: sofferenza sorda che è innesco a curvare la schiena e sgobbare anche oggi.

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di Alessandro Mambelli

Illustrazioni di Simona Settembre e Anastasia Coppola

“Ci aspettiamo tutti più di quel che c’è.”
Charles Bukowski, “Il grande

“Non ricordo più, ma sono sicuro di avere amato una donna indimenticabile.”
Stefano Benni, “Pantera

La nebbia avvolge la stazione come un asciugamano il viso di un uomo seduto su una vecchia poltrona scheggiata nel salone di un triste barbiere di paese e le luci sui binari assomigliano alle lampade fredde al neon sopra lo specchio che tolgono ogni gentilezza al negozio.

La gente cammina su e giù per l’enorme atrio, attraverso le porte a vetri delle biglietterie. Le teste abbassate tracciano i pensieri nelle fughe delle mattonelle e nei rilievi gialli e blu per i non vedenti e per i carrellini degli addetti. Qualcuno ogni tanto alza la testa per leggere le scritte arancioni delle partenze e per accertarsi che il suo treno arrivi ancora al solito binario.

Nell’angolo buio fra l’atrio e l’edicola, una vecchia chiede qualche spicciolo per comprarsi un caffè; poco lontano una donna coi capelli corti ammicca ai passanti promettendo voluttà che non può mantenere.
Sul binario 1, uomini in cappotti lunghissimi e senza pieghe camminano spediti per prendere l’Intercity della notte, maledicendo le riunioni di lavoro in altre città.
Uno di questi è probabilmente un medico, perché sta spiegando al suo smartphone che quando siamo gastrule si forma prima l’ano e poi la bocca:
– No, no, gastrule… sì… no, non siamo montati al contrario.

Al binario 2 il treno arriva in ritardo di venti minuti; alcuni bambini sbuffano perché sono stanchi e hanno freddo; il capotreno scende come un eroe di guerra, sudato e afflitto; un uomo tutto sporco e sciancato si
avvicina brandendo l’indice e chiede:

– Va a Venezia questo?
– Sì.
e poi sale senza biglietto.

Seduti su una panchina, posizionata senza motivo fra un negozio di intimo e uno di vestiti, due amici discutono animatamente di qualche storia d’amore finita:

L’amore è effervescente, sai?
– Cosa?
– Hai mai provato a scioglierlo in un bicchiere d’acqua?
– …
– Fidati di me, ascolta Renato Zero.

Mentre parlano una ragazza bionda e bellissima passa loro davanti dondolando come una di quelle bamboline hawaiane sui cruscotti delle auto, ma nessuno dei due amici riesce a stabilire chi si è innamorato
prima e così la guardano sfilare via per sempre dalle loro vite ancorate alla panchina.

La stazione continua a vorticare intorno ai rappresentati, agli studenti pendolari, agli spazzini, alle commesse dei negozi, all’uomo col caffè americano appoggiato contro la parete del bar, alle amiche che vanno a fare shopping, ai vecchi barboni che ciondolano senza meta al binario 3, agli occhi di Vanessa che aspetta il regionale per Piacenza, ai gelati spiaccicati e sciolti sulla banchina del 4, al binario 5 che non è mai esistito,
ai treni ad alta velocità che transitano al 7, portando con loro cartacce volanti e teste di centinaia di persone mentre il tempo scorre scandito dalle partenze e dagli arrivi.

Un elettricista cambia un led nel corridoio sotterraneo davanti all’ingresso per gli ultimi binari; un inserviente svuota i cestini dentro un enorme sacco nero; un agente della sicurezza dà indicazioni a due turisti.
Al binario 8 una ragazza seduta sul suo zaino ripassa una qualche materia fitta di appunti mentre poco più in là, anche lei assorta, un’altra ragazza legge qualche libro di cui nasconde la copertina con una mano.

Il binario 6 è gremito di persone: alcuni, troppo impazienti, si affacciano oltre la linea gialla sperando di veder arrivare il treno; altri si distraggono col telefonino, giocando o messaggiando con chissà chi e ridendo di nascosto per non sembrare stupidi; gli ultimi, i più soli, si guardano i piedi tenendo le mani in tasca, avvolte in pesanti guanti di cotone termico.

illustrazione di Anastasia Coppola
Illustrazione di Anastasia Coppola

Il treno arriva e i viaggiatori tornano a casa dopo una giornata di lavoro, di studio o di svago; la gente sulla banchina all’improvviso comincia a spingere e a strattonare quelli davanti, tutti speranzosi di riuscire a trovare un posto a sedere: non vicino a quelli che puzzano, però, per favore, non vicino a loro e neanche a quelli che stendono le gambe o allargano i gomiti, per favore, loro no, e neanche in piedi o in mezzo al corridoio…

Fra la gente che scende e che sale c’è chi va, chi torna e chi rimane sospeso fra l’atrio e i binari senza decidersi mai.
Ogni persona che riempie lo spazio-tempo della stazione ha la sua storia, e quelle più interessanti hanno quasi sempre due protagonisti: due amici, un genitore con il figlio che parte, due amanti che si baciano.
Le più storie più brutte, invece, sono quelle in cui lei lo lascia salendo sul treno e sparisce oltre le porte scorrevoli, immergendosi nell’appiccicume dei regionali veloci mentre lui rimane fermo in piedi sul binario come una statua o come quei vecchi barboni che non possono permettersi un biglietto, e la guarda sparire insieme al treno finché il treno non viene mangiato dalla notte e chi li vede pensa a cosa farà lui quella sera ora che è solo, se guarderà un film o un varietà alla televisione o se magari andrà a letto presto, e poi si chiede cosa facciano in generale gli amanti abbandonati per ingannare il tempo.

Il binario 6
illustrazione di Anastasia Coppola

Quando arrivo al binario 6 il treno è ormai partito e io l’ho perso per poco.
Sulla banchina non c’è già più nessuno e così mi siedo su una di quelle freddissime sedie di metallo finalmente libere per aspettare il treno successivo pensando alla vecchia, ai tabelloni, alla bionda, agli elettricisti, ai caffè, agli occhi di Vanessa, alla polvere, alle mani di una donna passata velocemente e agli amanti non amati che forse sono già tornati a casa.

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di Luca G. Manenti

Illustrazione di Liliana Brucato

«Tipo costruttivo dotato di estese funzionalità sonore, motorizzazione con massa volanica e cerchiature di aderenza. Deflettori negli ingressi all’estremità della vettura. Colorazione in blu oceano con righe zigzaganti d’oro puntinate d’argento. Due fanali di coda rossi commutati in modo digitale. Illuminazione garantita da diodi esenti da manutenzione a luce bianca calda. Pantografo monobraccio e carrello anteriore con vomeri scaccia sassi. Telaio del rodiggio finemente dettagliato. Respingenti in esecuzione incurvata e piatta».

Leggere nel catalogo da collezione “Materiale rotabile” la descrizione minuziosa del treno perfettamente riprodotto su cui era seduto, gli dava un piacere al cubo, impossibile da comprendere per i profani del ferromodellismo.
Il mezzo che lo stava trasportando era stato concepito a partire da una miniatura dedotta, a sua volta, dal veicolo originario, di cui erano andati perduti esemplari e progetti ingegneristici.
I complementi d’arredo ben definiti, le poltrone rivestite di pelle in tinta caffellatte con schienale reclinabile, i divisori in cristallo, le cappelliere, i portabagagli, l’insieme armonioso e opportunamente disposto, insomma, della carrozza, gli provocava, man mano che si rendeva conto del grado di fedeltà esibito (da intendere, dunque, così: fedeltà a un formato in scala ridotta fedele a un archetipo reale che, se davvero tali le fedeltà, era identico al convoglio in movimento calcato sulla maquette, e così via), una sensazione di goduria quasi sessuale.

Dal finestrino scorrevano immagini che avrebbero potuto essere di un diorama.
Nulla mancava: l’erba verde brillante, i passeggeri in attesa sotto la pensilina, il ponte ad archi in mattoni, la galleria che forava il monte, la casa cantoniera, la torre dell’acqua, il villaggio con la locanda e la chiesa, l’edificio del casellante.
Trascorsi due minuti, ancora: l’erba verde brillante, i passeggeri in attesa sotto la pensilina, il ponte ad archi in mattoni, la galleria che forava il monte, la casa cantoniera, la torre dell’acqua, il villaggio con la locanda e la chiesa, l’edificio del casellante. Dopo centoventi secondi, da capo: la medesima erba, i medesimi passeggeri, e poi il ponte, la galleria, la casa, la torre, il villaggio, la locanda, la chiesa, l’edificio: tutto era uguale a prima.

Il «tipo costruttivo dotato di estese funzionalità sonore, motorizzazione con massa volanica e cerchiature di aderenza» proseguiva con ritmo monotono, indefettibile, accompagnato da un lungo e sottile ronzio, senza mai fermarsi alla stazione, scivolando dinnanzi alle figure immobili degli aspiranti viaggiatori che pazientavano invano, muti, con i piedi saldamente incollati alla banchina.

Si guardò attorno, accorgendosi d’essere l’unica presenza nel vagone. Sebbene ordinato, pulito, razionale, l’ambiente appariva, a uno sguardo più attento, stranamente artefatto, come di plastica. Toccò il sedile, i braccioli, le paratie: plastica. Il tavolino, l’appendiabiti, il poggiatesta: plastica.
Deluso, si chiese se perlomeno la scocca fosse in metallo.

Posò gli occhi sulla pagina della rivista, scorgendo nella foto, al di là del vetro della locomotiva artisticamente ritoccata per renderla più simile al prototipo, la cui impeccabile imitazione, ricavata da una copia di piccole dimensioni, stava ripassando, in quell’esatto momento, sul ponte ad archi in mattoni, un viso conosciuto. Il suo.

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di Matteuccia Francisci

Dobbiamo cambiare, lo so.
Ancora un’altra volta. Non so più da quanto tempo non faccio altro che cambiare nome. Solo così possiamo continuare ad esistere, hanno detto.
Lo so, lo sappiamo tutti ormai, inutile ripetercelo ogni volta.

Vorrei riuscire ad avere paura, ma non posso fare neppure quello.
Vado avanti e indietro in questo vagone della metropolitana, sapendo che la mia ora sta per arrivare. E che però non morirò.

Sono così stanco, vorrei quasi morire se sapessi cosa voglia dire.
Mi domando cosa ne sarà di me quando, di nuovo, cambierò nome.
Ce lo domandiamo in tanti. Ce lo siamo domandati prima e ce lo domanderemo ancora e ancora, lo so.

Una signora ha abbassato la mascherina e dice «Mamma mia, mi sento soffocare». Ha i capelli rossi, ma non sono naturali, si vede che sono tinti e neppure troppo bene.
Si alza per scendere e la seguo, devo farlo, è quello che dobbiamo fare. Alcuni ci chiamano assassini, ed è buffo che lo facciano con quel disprezzo. Siamo tutti assassini di qualcun altro, è così che funziona, ma loro sembra lo abbiano proprio dimenticato. È il Sistema, io uccido te che uccide lui che ha ucciso l’altro. Ne parlano come se fosse un crimine e non, semplicemente, ciò che deve essere

La signora con i capelli rossi parla al telefono, ora.
Alza la voce, parla sincopato, poi taglia corto dicendo «Senti, io non ce la faccio a parlare ora, questa mascherina mi sta soffocando».
Sono proprio dietro di lei, mi basta farmi un po’ avanti e…no, ha attaccato. Si rimette la mascherina sul naso e se ne va a passo svelto per la scala mobile.

Fanno tenerezza con queste mascherine, hanno dimenticato chi sono.
Noi, invece, non dimentichiamo e non ricordiamo.
Se non trovo subito del cibo, ho paura che morirò.
Non voglio morire, non voglio neanche vivere, che questa non è vita.
Forse non so neppure cosa sia la volontà.

In banchina sono in molti. Tesi, arrabbiati, sporchi. Sono sempre sporchi. Credono di essere puliti, ma sono sporchi. Popolati da ogni genere di cosa che se la vedessero rabbrividirebbero. Ricoperti dalla testa ai piedi di polvere, batteri, acari. Cumuli di immondizia in cui tuffarsi e nuotare fino a trovare l’entrata.
Sono molto stanco, sento che mi sto indebolendo ogni giorno di più.

Ogni volta è lo stesso, provo la stessa paura, e poi accade qualcosa e ricomincio da capo. Da millenni, forse milioni di anni.
Ricordo ancora la prima volta che ci hanno scoperto, pensavamo fosse finita per tutti e invece si trattava solo di cambiare aspetto.
Cambiare tutto per non cambiare niente.

Con gli umani riesce sempre il trucco.
Anche con gli altri, ma è più divertente con gli umani, perché si affannano così tanto, perché si credono così tanto.
E soprattutto perché si spaventano così tanto.
Oh, gli umani hanno così tanta paura che ci si potrebbe riempire una galassia.
Gli altri no, si abbandonano senza paura, quasi affidandosi.
Sono meno divertenti, ma più…giusti.

Eccone un altro con la mascherina abbassata, che buffi che sono con la loro tecnologia e la loro stupida inconsapevolezza. Del resto sono così giovani, che ne sanno di come si sta al mondo?
Ha toccato il sedile, si sta toccando il naso.
Ecco, si è reso conto, sento che ha paura.
Lo sa, lui lo sa. Beh, comunque lo saprà.
Una ragazza con le gambe lunghissime sta venendo verso di me.
Se rimango fermo non dovrò fare assolutamente nulla, lei è già predisposta, lo vedo chiaramente.
Direi che posso annusare il suo essere mia, se potessi sentire gli odori. Vorrei dire che ho un fremito nel vederla venire verso di me, che provo una qualche emozione fortissima, che…ma noi non parliamo.
Nessuno parla. Solo loro. Parlano, parlano, fanno rumori di ogni tipo.

Quante cose fanno, questi maledetti. Dicono di avere paura quando tutti hanno paura di loro. Tranne noi, non abbiamo paura di loro.
Né di alcun’altra cosa, in ogni caso. Noi, semplicemente, esistiamo.
Da sempre e per sempre.
La ragazza bionda è arrabbiata, sai che novità.
Sei mia, umana.
Staremo insieme per un po’. Per te forse per sempre, per me solo il tempo di una corsa.
So che poi dovrò scappare ancora per un po’ e poi abbandonare questo nome, questo luogo, questo tempo, e aspettare di poter tornare.

Dai, avvicinati ancora un po’, bella mia eccoti qua, ora faremo conoscenza piano piano e poi sarò dentro di te e farò con te quello che mi pare per il tempo che mi pare. Ehi, bella biondina, come ti…oh! No! Che fai! Maledetta bastarda, no, ero così vicino alla tua bocca…no, ahia, cazzo se fa male, devo scappare via immediatamente.
Stronza.
Gli assassini siete voi, maledetti schifosi, feccia dell’Universo.


Il ragazzino, oh, eccolo finalmente, voilà.
Facile facile.
Ciao ciao bel cucciolo, sai che una volta ho conosciuto un cucciolo come te, ma era moolto più carino, aveva ali e un udito molto sviluppato e non mi ha mai odiato e non mi ha mai chiamato nemico, mi ha ospitato e poi è semplicemente morto.
Come deve essere.
Si vive, poi si muore, poi si vive di nuovo.
Come so queste cose?
Perché io sono l’eterno, l’immortale, il mai vivo e mai morto.
Gli altri neppure mi hanno dato un nome, ma tu sì, piccola sottospecie di mammifero.
Mi hai chiamato Virus e mi hai dichiarato guerra, ma io sono un pacifista. Io esisto.

Oggi mi hai dato un nome, perché tu hai sempre bisogno di un nemico da chiamare. Dirai che mi hai sconfitto, ma io avrò cambiato nome e aspetto. Giusto un po’, un’aggiustata ai baffi, uno spostamento della riga dei capelli, una lente colorata. Ahahahah!
Dai si scherza scemo, io non ho corpo e non ho anima.
E non ho paura.
Tu mi troverai e mi eliminerai e io, beh, qualche cosa farò.
Cambierò, ecco cosa farò e tu non mi troverai più e poi….peekaboo!

A te piacciono gli scherzi, vero, coso?
Dolcetto o scherzetto? Scherzetto, Uomo.

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di Giuseppe Fiore

Illustrazione di Liliana Brucato

Ero solo nella mia macchina e potevo guardare dal finestrino: succedeva tutto senza un vero motivo.
Succedeva tutto e basta.

Già da qualche giorno, sui social e in tv, iniziavano tutti a parlare di questa fine del mondo, di una specie di esplosione. Forse una profezia scritta con il sangue.
Avrebbe dovuto ucciderci tutti, ma c’è qualcuno che ci crede davvero a queste notizie? Gente che si gioca tutto quello che ha, immaginando che il giorno dopo sarà ben che morta? Non credo proprio.

Comunque, quel pomeriggio, mi ero messo in macchina per andare a comprare un panino o un pezzo di pizza. Non avevo troppa fame, giusto un buchetto scomodo da riempire.

Ero nel traffico, con la freccia che ticchettava, una canzone merdosa che scorreva fuori dalla radio, quando vidi, dallo specchietto, il fuoco.
Una specie di bomba, uno scoppio assurdo.
Prima fuoco, poi rumore.

Per qualche attimo non riuscii a sentire nulla, pensavo di essere diventato sordo. Ogni oggetto, per me, aveva perso i suoi confini e il mondo mi sembrava una massa unica. Quasi un flusso uniforme. Solo colori diversi. Come quando, a scuola, da bambino, creavo delle enormi palle con plastiline di diversi colori. Il risultato finale era piacevole, ma confusionario.

Per qualche minuto rimasi immobile.  Non riuscivo a costruire un pensiero, a passare da un nodo ad un altro. Una bomba, un pazzo esaltato, la fine del mondo: non potevo saperlo. Avevo solo visto uno scoppio dallo specchietto. Avevo quasi perso l’udito per l’esplosione.

La gente urlava, usciva dalle macchine e scappava.

Mi rimisi in marcia. Ero inutile e avevo, comunque, pur sempre fame. Esplosione o non esplosione, pizza o panino.

Sciami di camion dei vigili del fuoco, di macchine della polizia, di ambulanze, sfrecciavano nella corsia opposta alla mia, vuota.
C’ero solo io, con la mia vecchia macchina e la voglia di mangiare qualcosa. Non troppo, un boccone.
Giusto lo sfizio pomeridiano.

Un pazzo si era fatto saltare in aria. Ormai non era più una novità così cruda. Si sa che esistono, l’hanno già fatto e lo rifaranno.
Che senso ha perderci la testa dietro?

Poi la gente a cui piace guardare le catastrofi: ecco, quelli non li capisco proprio. C’è qualcuno che ancora sostiene che l’uomo nasce buono, che cattivi si diventa, che Dio ci vuole bene, però poi scoppiano le bombe alle sei del pomeriggio.
In un giorno sceneggiato come tutti gli altri, mentre uno vuole solo mangiare un boccone.

Misi la freccia a destra, ormai arrivato al piccolo negozio.

Fuoco, dallo specchietto. Ancora.
Forse, se possibile, anche più forte del primo scoppio. Frenai di botto a causa del rumore.
Sentivo la testa scoppiare.

Un’altra bomba? Non ci capivo più nulla con quel dolore assurdo alle orecchie.

C’erano urla ovunque.
Il locale “della felicità”, della mia felicità almeno, era chiuso o comunque abbandonato: la gente pensava a scappare, non a sfornare pizze o panini. Allora uno che ha fame cosa diavolo deve fare?
Può essere anche la merdosa fine del mondo, ma uno deve pur riempire i buchi allo stomaco o no? Almeno moriamo sazi.

La strada era vuota. Da brividi.

Cercavo di capire la situazione, ma c’era solo confusione e di tornare indietro, verso casa mia, non se ne parlava proprio.
In quel momento realizzai che casa mia, probabilmente, non era più in piedi. Che quel fuoco doveva aver avuto effetto anche su di lei.
Bombe di merda.
Almeno la macchina era salva.

Non ricordo bene cosa mi passasse per la testa in quel momento. Avevo solo una strada dritta davanti a me e una città infuocata dietro.
Non c’era troppa scelta.

Iniziai a tirare con l’acceleratore.
Non che fossi un grande conoscitore di strade, ma se si va dritti si arriverà sempre da qualche parte. Magari ad una città vicina dove trovare una pizza veloce o un panino, al massimo un tramezzino.

Vidi una donna sulla strada.
D’altronde, c’eravamo solo io e lei.
Era sul ciglio che chiedeva un passaggio, con il pollice in su: vecchia scuola.
Misi la freccia per accostare, sempre ligio alle regole.

Terzo scoppio.
Fuoco, poi il solito rumore, forte, da orecchie bucate.
Non riuscii a frenare per bene.
Quella salì al volo, mentre la macchina ancora camminava e subito ripresi a massacrare l’acceleratore.

«Indiani del cazzo» mi disse la vecchia.
«Crede che siano bombe?»
«Cosa cazzo dovrebbero essere?»
«La fine del mondo, dicevano al tg».

Era abbastanza incazzata con il mondo ma almeno non puzzava.
Era sempre quello il mio problema con gli autostoppisti: la puzza.
Di solito non si lavano e sono sudati da morire. Se c’è una cosa che non sopporto è proprio dover guidare con una puzza costante di sottofondo, non so mai come uscirne.
Quella non puzzava come un autostoppista, perchè non lo era.

Era solo una vecchia che si faceva una passeggiata su una strada a scorrimento veloce.
Non  sapeva nulla della fine del mondo. Era convinta fossero indiani del cazzo, anche se non capivo il maledetto collegamento.

«Indiani del cazzo, sono troppi, ci vogliono mangiare».

Alla fine era vecchia abbastanza per poter dire quello che voleva. Erano solo parole di pura follia.
Forse aveva perso il cervello, forse il tempo l’aveva rosicchiato, poco alla volta. Giorno per giorno.

La nuova città faceva abbastanza schifo.
Sembrava tutta uguale. Le luci erano spente e non c’era nessuno in giro.
Solo io e la vecchia, nel mio carro a motore.
Diceva che la figlia abitava in quella zona. Voleva trovarla.
Doveva avere anche una bambina, ma non un marito.
Mi faceva fermare, si guardava intorno e mi faceva ripartire.

«Più avanti, è più avanti quella merda di palazzo».

Diceva sempre così. Io non avevo idea di dove stessimo andando. Avevo la sensazione che quella fosse totalmente fuori, ma non volevo contraddirla.

«Gira a destra ora».

Tirai su la freccia.
Dallo specchietto vedemmo il fuoco, poi, collegato da un filo invisibile, arrivò il rumore “spacca orecchie”.

 La vecchia continuava ad urlare questa frase.
Come un’isterica.
«Indiani maledetti del cazzo».
Mi faceva paura, quasi più della fine del mondo.
Sbatteva i pugni contro il finestrino, lasciava scorrere le unghie, come la strega di qualche fiaba.

A destra non potevo più girare. Saremmo finiti dritti nel fuoco.
Ripresi a massacrare l’acceleratore e continuai dritto.
La vecchia fissava il fuoco, in velocità. Fissava sua figlia, forse vera o forse no, ma comunque morta. Fissava la sua nipotina bruciata.
Vittime della fine del mondo, come tutti.

Mi sembrava quasi di essere al sicuro nella macchina. Sentivo che se fossimo usciti, respirare quell’aria ci avrebbe uccisi.

La vecchia non sembrava pensarla come me.
Tirò il freno a mano, con una forza impressionante per quelle braccia solo ossa. La macchina sbandò e si fermò, girando per un poco su sé stessa. Le urlai qualcosa contro, ma non mi stava proprio a sentire.
La vecchia scese.
Non morì, non eravamo sulla Luna.

Si mise in ginocchio e guardò il fuoco dietro di noi.
A quel punto scesi anche io, mi accesi una sigaretta e guardai lo spettacolo.

La fine del mondo.
Mi sembrava di essere in spiaggia o ad un cinema all’aperto.
La puzza di bruciato, però, era fastidiosa. Il fuoco sembrava aver voglia di bruciare tutto. Sembrava avere una fame pazza.
Non lo sfizio pomeridiano, ma un pranzo di Pasqua fatto bene.
La vecchia stava zitta, fissava solo.
Forse pensava agli indiani o alla figlia.

Dopo la sigaretta rientrammo in macchina e tornai a massacrare l’acceleratore.

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di Carlo Rossi

Illustrazione di Valentina Scalzo

Non ho mai sentito nessuno urlare in quel modo.

Avvinghiata al cancello, singhiozzava, a tratti usava una lingua incomprensibile, dopo piagnucolava fino ad andare in apnea. E poi ricominciava la supplica: «Aiutatemi! Fatemi uscire!».
Una litania disperata, ripetuta tanto da aver saziato il mio udito, tanto da aver perso ogni significato.

Domenica sera, 2 dicembre, ho fatto quel che dovevo.

Il sabato, la notte aveva calato il suo manto freddo sulle spalle della collina adagiandolo tra cipressi e marmi. Mi stavo occupando del registro.
Lo redigo dopo la chiusura, quando resto solo, così posso concentrarmi meglio e scrivere con grafia chiara, io che ci impiego tempo a vergare le pagine. Annotavo i dettagli e l’orario di tumulazione del povero notaio Nagel nel mentre avvertivo il rumore.
Proveniva dalla camera mortuaria attigua alla segreteria. Il pendolo segnava le ventitré quando mi sono alzato per andare di là.

Nella sala tutto era come doveva essere.
La bara sulla sinistra dell’ingresso era sorvegliata da due lumini che aprivano piccole finestre di luce nell’oscurità. Un solo mazzo di fiori era adagiato sulla destra della camera e il coperchio della cassa poggiava sul muro opposto all’ingresso. Ho avvicinato la lanterna al feretro.
Non la conoscevo.
Era giovane, dai lineamenti gentili. Il suo biancore era equivoco.
La sua pelle non recava il pallore della morte ma lo stesso candore della luna.
Sembrava come sospesa in una dimensione a metà tra questo e l’altro mondo. I suoi capelli erano ondulati come dolci pieghe di mare, ma scuri come gli abissi. Indossava scarpe logore e un abito di modesta fattura, come quelli di cui posso dotare mia moglie.

Sulla bara, in legno di abete, era fissata una targhetta d’ottone:
Elena Caruso, 15 V 903 – 1 XII 928. 

Non ho trovato spiegazione al rumore capace di attirare la mia attenzione. Dopotutto, in questo luogo deputato al silenzio, di notte, anche una foglia secca schiacciata dal passo felpato di un gatto può detonare come una piccola esplosione. Così sono tornato in ufficio per completare l’aggiornamento delle inumazioni. La solita complicata operazione che occupava buona parte del mio servizio notturno di guardiania.

Finito o no, tuttavia, il fischio del treno che sfrecciava veloce lungo i binari della ferrovia che sfiora il lato est del muro di cinta del camposanto, segnava il passo. Ho chiuso il registro e ho proceduto con la solita perlustrazione. L’umido vinceva la fiammella di parecchi lumini e corrodeva le viti che fissano le cornici ai marmi.
C’era sempre qualche riparazione da effettuare.

Soccombevo al freddo che abbracciava le mie ossa mentre in lontananza ancora avvertivo il fischio del treno ad intervalli regolari: invidio i passeggeri al caldo delle cuccette che si abbandonavano dolcemente al dondolio del vagone che li portava in grembo.

Ripristinavo una cornice nel lotto “C” quando, verso le ore due, ho sentito dei passi provenire dalla camera mortuaria.
Il panico mi ha paralizzato.
Ho serrato il martello con una mano e con l’altra ho alzato la lanterna nell’oscurità.
Pochi passi fino all’obitorio e, la bara vuota.

Ho pensato alla stanchezza dei miei cinquantatré anni, ho pensato che quel giorno avevo messo in corpo solo un tozzo di pane, ho pensato che non dormivo bene da qualche tempo.
Ho cercato una spiegazione plausibile, ma non ne ho trovata una.

Guardingo, per tutta – tutta – la notte ho girato tra le lapidi, ho guardato nelle fosse già scavate e pronte ad accogliere nuovi ospiti, ma di lei nessuna traccia.
Iniziavo a credere di non averla mai vista.

Alle sei di domenica mattina ho faticato poco per convincere Ruggero a non darmi il cambio. Gli ho promesso un litro di latte fresco e gli ho chiesto di inventarsi una scusa da porgere a mia moglie.
Nell’orario di apertura mi sono piantato all’ingresso del cimitero per analizzare le pochissime entrate e, soprattutto, le uscite.
Ho studiato i lineamenti di coloro che lasciavano il camposanto perché ho anche pensato che lei potesse celarsi sotto mentite spoglie, per ingannarmi e fuggire.
Ma non ho ritrovato il suo viso in nessun viso.
Nulla è accaduto finché il sole non è calato. Ero stanco, angosciato e avevo la mente ottenebrata.

Alle diciassette ho sbarrato il pesante cancello di ferro dell’ingresso. Sono tornato ad indagare ogni centimetro del mio territorio in cerca di un indizio, ma non ho trovato neanche un’impronta nella terra umida. Poi, dopo la chiusura pomeridiana, quelle urla laceranti hanno squarciato il silenzio. Sbucata dal nulla, correva come il vento.
Il suo biancore autentico era mutato in pallore, i suoi capelli, ora, erano increspati come un mare in tempesta e i suoi occhi, spalancati, erano iniettati di sangue.
Urlava con il viso tra le sbarre del cancello, percuotendolo fino a farsi strappare le carni dai palmi delle mani.

Era arrivata al cimitero senza respiro, non poteva uscirne risuscitata.
Non è concesso, me l’ha detto Don Orazio: «c’è stato un solo Lazzaro: chi entra da morto nel camposanto non può uscirne vivo, se non è il diavolo». Mi sono fatto coraggio e l’ho raggiunta. Poi l’ho afferrata per il collo e ho stretto più forte che potevo mentre pregavo: «L’eterno riposo dona a lei, o Signore».
Il passaggio di un altro treno, il suo clangore sulle rotaie, il suo insistente fischiare hanno coperto le sue urla al resto del paese.

Poi, il silenzio, rassicurante, è tornato a regnare tutt’attorno.
Quando l’ho riposta nella sua bara aveva riacquisito il suo originario candore. Le ho messo in ordine gli abiti, ho scrostato il fango dalle scarpe logore e ho pettinato i suoi capelli con le mie lacrime.

Era bella.
Bianca come la luna che rischiarava cipressi e marmi,
domenica 2 dicembre 1928.

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di Matteuccia Francisci

Illustrazione di e con Simona Settembre

La finestra sbatte.

C’è vento, e sbatte. Non le va di chiuderla, vuole che entri aria e luce in casa in primavera ed estate, almeno tanto quanto la vuole chiusa in inverno. L’inverno non esiste, è un passaggio dell’anima, buio.
Ogni anno sembra impossibile da superare, e quando arriva la primavera vorrebbe aprire anche i muri, vivere solo di luce e di calore.

Sbam!


Che fastidio il vento.
Neanche il vento le piace, le fa anche paura, sembra un’entità invisibile che si aggira intorno a noi e che può spazzarci via senza che neanche vediamo da dove arrivi.

Sbam!

La signora si alzò e riaprì il finestrino del vagone della metro B.
I vagoni della metro B erano ancora quelli vecchi, quelli della A li avevano cambiati e non si potevano più aprire perché c’era l’aria condizionata, quelli della B ancora si potevano tenere aperti, unica fonte di aria (schifosa) nei millemila gradi che si sviluppavano d’estate.
Era il 30 luglio, l’ultimo appello della sessione, e l’avevano bocciata.
Aveva studiato due libri su tre, le avevano chiesto Peròn.
Però stava nel terzo libro.
Bocciata all’esame facoltativo.
“Clap, clap! Per gli autografi dopo, grazie” pensò mentre l’aria sporca e calda le veniva in faccia dal finestrino.

«Può chiudere per favore?» chiede il signore alla donna seduta sotto il finestrino.
«Ma fa caldo!» risponde la donna.
«Sì, ma l’aria in faccia mi dà fastidio» replica il signore.

È un po’ anziano, ha una camicia bianca a maniche corte e dei pantaloni grigi con le pinces, da vecchio insomma. Alla ragazza piacciono i pantaloni con le pinces, lei non li trova da vecchio, si dice da sola come se qualcuno avesse fatto quel commento ad alta voce.

«Io ho caldo, se chiudo soffoco» Replica la donna, con poca grazia.
Il vecchio, inaspettatamente veloce, con uno scatto repentino si sporge in avanti e chiude il finestrino.
Sbam!
«Ma vaffanculo, va!»

Hai capito il vecchietto, pensa la ragazza, e le scappa un sorriso.
La signora si rialza e riapre il finestrino.
«‘A stronzo!»,e si risiede.
«Allora sei de coccio!» dice il vecchio, e richiude il finestrino.
Sbam!

No, non è vero, è solo il rumore della finestra che sbatte.
Le ha ricordato quando sulla metro si creavano delle vere e proprie faide su “finestrino aperto/finestrino chiuso” perché d’estate i vagoni erano caldissimi, ma l’aria che entrava era fastidiosa se ti arrivava in faccia.
E lei non sapeva mai che parte prendere perché avevano ragione tutti e due.
Ci ripensa quasi con nostalgia, adesso che deve stare chiusa in casa in questa nuova vita a “Fasi” che sembra tanto la stessa storia dell’Anno Nuovo, che è uguale a quello vecchio.

Non è vero neanche questo.
Ma quale nostalgia. Di cosa?

Dei mezzi pubblici affollati, dei turisti che salgono a Colosseo tutti sudati? Delle conversazioni altrui a voce troppo alta o del tipo che non sa levare il suono allo stramaledetto giochino idiota?
Non lo sa, eppure la nostalgia è sempre là.
Forse dei suoi vent’anni.
Ma no, odiava avere vent’anni, odiava l’università e tutto quello che stava intorno.

Sbam!

Forse ha nostalgia di uscire, vedere gli amici, andare al cinema. Si fa una risata. Ma quando mai, sta benissimo in isolamento. Tanto non usciva quasi più lo stesso, ormai.

Sbam!

E allora? E allora niente. Chiude la finestra, e pensa a quel vecchio. Sarà morto ormai.

Beato lui.

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di Giuseppe Fiore

Illustrazione di Liliana Brucato

Avevo parcheggiato la vecchia Twingo nel giardino pieno di erbacce e aghi di pino. Battevo a macchina per 6 ore al giorno.
Mangiavo pasta, di solito al sugo, ma quando potevo ci mettevo anche il tonno.
Passavo ore nel giardino, steso sulla sdraio, guardavo il cielo, cercavo di seguire le nuvole, di capire se fosse davvero il vento a muoverle.

Cercavo di scrivere una storia, qualcosa che parlasse di me, ma non della persona che tutti conoscevano, volevo scendere in profondità, partire dalle unghie per arrivare agli occhi.

Non sono mai stato davvero uno scrittore, non ci avevo nemmeno mai pensato, ma quella macchina da scrivere, così vecchia e rumorosa, mi aveva incatenato, mi torturava e spingeva le mie dita a battere di continuo, in certi momenti la odiavo, volevo solo smettere di pensare, chiudere quel flusso.
Non rileggevo quello che scrivevo, ricordavo ogni particolare della storia: forse faceva schifo, forse c’erano incongruenze, errori, oppure era solo brutta, senza nessuna scusa, ma non mi importava.

Ero nella vecchia casa al mare del nonno, dove avevo passato ogni singola estate della mia infanzia, ogni stupido gioco, ogni stupida goccia di sudore, ogni stupida doccia per lavare via la maledetta sabbia dal corpo.
Odiavo quella casa, quei ricordi, quelle persone che avevo amato, che mi avevano regalato i loro sorrisi, il loro tempo, lasciandomi poi solo, come tutti, con tanti soldi e nessuna emozione da soddisfare.

La mia storia parlava di Maria, una ragazza con le palle, che aveva lasciato l’università per diventare un’ attrice: bella, tenebrosa, sempre pronta a criticare tutto e tutti.

Parlava di Giulio, un ragazzo magrolino che aveva voglia di conquistare il mondo con le sue parole, ma aveva paura, di non essere capito, di non essere bravo, di annoiare.

Parlava di Roberto, che voleva sposare Maria, ma faceva il poliziotto. Così normale, mediocre, un non artista in un mondo di parole e false speranze.

C’era una parte di me in tutti questi personaggi.
La storia di tre amici, con sogni diversi, rinchiusi nella mia mente, in celle di paura e malinconia, sporche e trascurate nel tempo.

Non avevo iniziato a scrivere con una precisa idea, non sapevo davvero che tipo di messaggio volevo inviare.
Qualcosa di deprimente, qualcosa che facesse sentire il lettore solo tra quelle parole tutte uguali, così piccole e potenti.
Cercavo un modo per chiedere scusa per tutto quello che non avevo fatto durante quegli anni, un modo per apparire diverso.

La mia infanzia era stata bella, piena di amore.
La mia adolescenza aveva stuprato tutto il bene ricevuto.
Mi aveva reso cieco. Avevo cambiato mille scuole, mille compagni, mille danni.
Ho perso i miei genitori quando avevo 18 anni ed ero nel pieno della pazzia, nel vortice più scuro.
Una famiglia ricca come la mia, dove da generazioni non c’era bisogno di lavorare per tirare avanti: sono nato per spendere e questa è stata la mia sfortuna.

I miei personaggi, invece, sono tutti poveri.
Cercano vendetta contro un Dio che li ha rinchiusi in quella situazione, vogliono essere me e io vorrei essere loro.

Ero venuto in questa casa per allontanarmi da tutto, da quella persona che ero diventato, da quell’essere così simile ad una bestia che andava rinchiusa, qui i ricordi mi avrebbero accarezzato, mi avrebbero calmato, ma ho scoperto di odiarli più di qualsiasi cosa, più di me stesso.

Così un giorno simile ad altri, noioso e senza colore, avevo preso la mia vecchia Twingo che usavo al liceo, un regalo del nonno per la mia maggiore età, lasciando nel garage le macchine di lusso che non avevo voluto io, che mi erano rimaste sulle spalle, quasi come un peso; volevo provare la sensazione adrenalinica di uno sterzo duro, di un viaggio pericoloso, la sensazione di essere sorpassato da tutti, di essere bestemmiato per la mia lentezza, per la mia prudenza sulla strada. Volevo riprovare quel senso di immobilità che mi dava quella macchina, così vecchia da non accelerare mai, come se il pedale non funzionasse davvero, come se spingerlo non servisse a nulla; quella macchina che mi aveva insegnato a guidare, con quei sedili tutti rotti, bloccati, con i finestrini lenti e una leggere puzza di chiuso, sempre presente, dal primo giorno.

Stavo per scappare, fuggire via da quel posto, ormai una prigione, quando il mondo si è bloccato: forse un segnale, anche se è troppo stupido pensare che Dio mandi una tragedia solo per farmi capire qualcosa.

Ma esiste veramente Dio?

Così sono rimasto qui, in questa vecchia casa costruita in una località marina, vuota in questo periodo dell’anno: c’è solo un negozio dove fare la spesa, ma il commesso non ama parlare.

Ci sono io, c’è Giulio, Roberto e Maria, basta.
Loro vogliono me e io voglio loro.
Poi c’è la macchina da scrivere che muove i nostri fili.
C’è la vecchia Twingo fuori, immobile.
Giorni tutti uguali, fatti di parole e nuvole nel cielo, fatti di respiri e pasta con il tonno.
Non ho nemmeno il wi-fi, solo una vecchia Tv dove danno il telegiornale.

Sono vecchio già a 28 anni.
Maria, Roberto e Giulio hanno rubato la mia giovinezza, hanno rubato i sogni che avevo, mi hanno addomesticato.
Vorrei che il mondo conoscesse questi tre ragazzi, vorrei che il mondo leggesse quello che provano, vorrei che il mondo li amasse come io li amo, ma non credo succederà, non credo lasceranno mai quelle parole.

Certe volte Maria inizia ad urlare parolacce, di solito contro di me. Non riesco a fermarla: è così forte, così determinata, vorrebbe non avere paura di amare il piccolo Roberto, così perso nella bellezza della sua amica.
Un bravo poliziotto, dovrebbe essere libero di esprimere la propria dolcezza verso qualcuno, ma è incatenato dal contorto amore, stupido e irrealizzabil.
Poi Giulio: lui spesso piange per le ingiustizie nel mondo, per le lettere che scrive ai suoi genitori e che lascia ristagnare nei suoi zaini, per le persone che vede nei pullman e su cui vorrebbe scrivere, per i pensieri malinconici che lo accompagnano mano nella mano.

Quanto durerà ancora tutto questo?
Quanto ancora dovranno rubarmi?
Quanto ci metteranno ancora a prendere un corpo loro e a farmi fuori?
Mi odiano e sono arrabbiati con tutti, usciranno dalla macchina da scrivere e sarà la mia fine.
Sarà bello per qualche attimo vedere le loro facce, i loro occhi.
Le mie creature, i mie figli che taglieranno il mio corpo e ruberanno quello che ancora sarà rimasto.

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di Federico Cirillo

Illustrazione di Tern Pat

Non prende. Niente da fare.
Come dentro la B1, come dal profondo ventre di Sant’Agnese Annibaliano, anche qui a Re di Roma non prende il telefono.
Questo vuol dire smettere di, nell’ordine:

  • eliminare la sottoscrizione ad una mailing list che mi perseguita da anni con offerte di lavoro nell’ambito del settore “creativo”;
  • smettere di far caricare la pagina google “come cancellarsi da una miling list” (sì lo so, ho scritto male, ma la grande G ha capito lo stesso);
  • doverla smettere di polemizzare all’interno di un gruppo WhatsApp.

Fortuna che ho un po’ di musica dall’offline di Spotify, così posso applicare qualsiasi colonna sonora al mondo circostante, affrescato con le espressioni imbarazzate e smarrite dei passeggeri improvvisamente privati dei loro giga: meraviglioso.

Tom Waits non ha fatto in tempo ad arrivare nelle mie orecchie con il refrain di Downtown Train che qualcosa, qualcuno, mi spinge con la schiena verso la parete della metro, facendomi anche sbattere contro il giornale del tipo che da quando sono salito era sulla stessa pagina. Mi giro di scatto e noto che, quasi fosse un Mar Rosso nel pieno dell’azione che l’ha reso famoso, la folla si è aperta per far da cornice ad uno spettacolo primordiale.
Il letto del fiume di gente è infatti occupato da due ragazzi, alti, palestrati e pieni di tatuaggi che si spintonano, strattonano e scalciano, come due gladiatori all’interno dell’arena.

Ho ancora le cuffie e non riesco a sentire cosa si sputano addosso, faccia contro faccia, fronte contro fronte, pugno contro pugno.
Me lo posso immaginare facilmente però: un insulto alla Mamma (Nun t’azzardà manco a nominalla, hai capito)? Un’offesa alla Squadra del Cuore (ah zozzo!)? Un biasimo o una polemica nei confronti dei metodi di allenamento di uno dei due (e quelli li chiami porpacci? Ah secco)? Uno sguardo di traverso di troppo (aoh, ma che cazzo te guardi)? Un apprezzamento non richiesto alla ragazza dell’altro (ah coso, ma nun lo vedi che è a’donna mia? Abbassa quell’occhi si nun te voi ritrova’ cieco!)?

Non lo so, ma con la voce di Tom nelle orecchie, tutto diventa così surreale: i “mortacci tua” sono sostituiti da “Will i see you tonight”, le bestemmie che si lanciano contro da “On a downtown train”, i “nun me tocca’” dai “Every night, It’s just the same, You leave me lonely”, e così via.

A Termini si aprono le porte della metro e i due, che ancora non hanno finito di menarsi selvaggiamente, tra un pugno e un calcio si avvicinano pugnacemente all’uscita.
Decido di capire: che cazzo è successo?
Tolte le cuffie, dalla nuvola di botte che i due energumeni hanno creato esce fuori quello che non ti aspetti:
«Servo Tullio!» urla uno dei due, tenendo per la gola l’altro e pulendosi del sangue dalla bocca. «Anco Marzio!» risponde l’altro con la voce rotta e sfiatata mentre cerca di sferrare l’ennesimo pugno che, visto il braccio, abbatterebbe un toro.

«T’ho detto Servo Tullio, Servo Tulliooo!» fa in tempo a gridare il primo, nell’attimo esatto in cui il destro del secondo gli atterra sulla guancia, accompagnato da un «Anco…Marziooooo!! Era Anco Marzio!!», e la spinta è così forte che, finalmente, i due precipitano insieme fuori dal vagone.

«Assurdo» penso ad alta voce, rivolgendomi ad un ragazzo vicino che, come me, ha assistito a tutta la scena «Ma che cazzo è successo? Perché litigavano? Che c’entra Servo Tullio?»
«Ma boh» risponde il ragazzo in tuta mentre si aggiusta gli occhiali da vista.«Hanno iniziato a litiga’ a Re Di Roma su chi fosse stato il secondo re di Roma, appunto. ‘Na cosa tira l’altra, non si sono trovati d’accordo, ed ecco che l’hanno risolta nel modo più peripatetico possibile: se so’ presi a pizze».
«Assurdo» commento mimando un “no” non la testa e guardando verso la porta della metro ancora aperta sulla banchina di Termini «Ma come se fa a litiga’ per una cosa del genere? Quei due, poi? Mah. Che poi si sa»azzardo con tono saccente,«il secondo Re di Roma è stato Tarquinio Prisco, era facile».

Non l’avessi mai detto. Il mite ragazzo dagli occhiali spessi gira di scatto lo sguardo verso di me, e un lampo di follia e rabbia repressa gli illumina gli occhi. Carica corpo e braccia, digrigna i denti e con ira funesta, improvvisa e inaspettata, mi spinge fuori dalla carrozza e anche io mi ritrovo eiettato sulla banchina, culo per terra e faccia sorpresa.

«Ma che cazzo dici a’scemo: era Numa Pompilio!» mi urla il ragazzo, proprio mentre le porte si chiudono e il treno riparte direzione Battistini.

Rimango così: fermo per terra, a fissare il treno che mi scorre davanti. Riprendo il telefono in mano e mentre la voce nelle cuffie si dissolve in un “All my dreams fall like rain”, sempre da terra controllo rapido su google, sempre con gli occhi sgranati e con il cuore che mi batte a mille. Il telefono adesso prende. Tom Waits ha smesso di cantare. La mail è rimasta è in bozze.

Il gruppo ha cinquanta nuovi messaggi. Google rapidamente mi dà la risposta: cazzo, aveva ragione.

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di Antonella Dilorenzo

Illustrazione di Simona Settembre


Ho visto un morto sul ciglio della strada.
È successo ieri sera mentre tornavo dall’appuntamento con rocky43,
il coglione di Tinder di cui mi ero innamorata per il suo viso orientale.

Era figo in foto. Peccato che solo all’incontro abbia scoperto che quelle cazzo di foto non erano sue, ma di Nagase Tomoya, un giapponese famoso.
Me l’ha detto, si è scusato.
Ma la serata è andata a finire male: la conversazione si è interrotta a metà Spritz.

Viaggiavo a velocità sostenuta con la mia Matiz scassata che sta venendo via a pezzi. “Mai una gioia”, pensavo, quando all’imbocco del raccordo dall’Aurelia ho inchiodato di botto incolonnandomi in una fila infinita di auto che procedeva a passo d’uomo.
Niente di nuovo. Traffico noioso. Vita noiosa.
A Roma è così: rimani incolonnato per ore nel traffico e non sai mai il perché. Arrivi alla fine della fila con l’ansia di conoscere il motivo, e magari non c’è nulla. La colpa è solo degli automobilisti curiosi che rallentano per guardare magari un cane che passeggia, o un tipo che piscia sulla corsia d’emergenza, oppure carabinieri in procinto di fare l’alcol test a qualche ragazzino. Rallentano, commentano da soli o con il passeggero accanto, e poi riprendono la loro velocità. Se c’è una situazione grave o qualcuno in pericolo, il rallentamento può solo aumentare. Credi che almeno qualcuno si fermi ad aiutare, per esempio, ma nulla.
Solo lunghe colonne di macchine lente.

Stavolta la questione era seria.
No cane, no piscio.
C’era un morto sul ciglio della strada e i curiosi erano tanti, ma nessuno accostava per fare il proprio dovere.
Nulla.
Era coperto con un telo bianco. Solo, immobile.
Tutti abbiamo bisogno di una degna sepoltura. Pure lui.
Mi è preso il panico.

Superato il morto, ero tra Montespaccato e Casalotti/Boccea e non potevo lasciarlo lì da solo. Ho deciso di prendere la prima uscita e rifare il giro.
No, non ho paura dei morti.

Il primo cadavere l’ho visto a 7 anni, quello della nonna Rosetta. E di lì in poi è cominciata la serie funerea della mia famiglia e dei vicini di casa, tutti anziani.
Ho visto nonno Filomeno morto stecchito dopo essersi scolato un cartone di Tavernello; la comare Agatina, pure lei morta sul colpo dopo essere caduta all’indietro trasportando otto forme di cacioricotta nella sporta.

I morti non mi fanno paura. Tant’è che andare ai funerali era diventata una festa di paese: rivedevo i miei cugini, e i nipoti dei
vicini. Tutti insieme a giocare fuori dal cimitero mentre seppellivano il vecchietto di turno. I morti non mi fanno paura e quello andava assistito. Era una questione di principio: perché nessuno si ferma?
Che stronza la gente!
Volevo dare anche un senso a quei venti minuti di fila che mi ero fatta per aspettare le comari che guardavano senza avvicinarsi.

Superata l’uscita di Montespaccato mi sono messa sulla corsia destra procedendo a 30 km/h circa onde evitare di perdermi il corpo esanime. Sarei andata lì, avrei preso i documenti, il cellulare e avrei chiamato la
Polizia.
Procedevo lentamente, e tra lampeggianti e colpi netti di clacson alle mie spalle, ho trovato il mio morto.

Ho accostato in corsia d’emergenza, sono scesa dall’auto lasciando i fari accesi puntati sul cadavere e mi sono avvicinata. Lungo, steso sull’asfalto c’era un telo bianco, uno di quelli che si usano per fare gli striscioni da portare allo stadio. Il morto non mi è parso coperto bene, il telo era disordinato.
A debita distanza con il pollice e l’indice della mano destra l’ho sfilato facendomi coraggio. Grande respiro. Uno, due, tre, via.

Sotto c’era l’asfalto.
Era solo un telo. Aggrovigliato. Nessun morto.
L’ho sgrullato d’istinto come a voler cercare quel cadavere: ma come?
Io avevo visto il morto!
Ma l’unica cosa reale era la scritta su quello striscione:
“Genitore 1, Genitore 2 #iosonogiorgia”.

Ho lanciato il drappo del cazzo in aria e mi sono infilata in auto.
Ho preso dalla borsa la bottiglia d’acqua e nel cercarla mi è caduto tutto: chiavi, rossetto, fazzoletti e la custodia dei miei occhiali da miope.
Con dentro gli occhiali da miope.
Li avevo tolti per mostrarmi più bella al finto giapponese.

Li mortacci sua!

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di Davide Ceraso

Illustrazione di Simona Settembre


Il 4 è come un bisturi affilato, taglia l’asfalto al suo passaggio e lo ricuce dietro a sé con binari metallici, una cicatrice che divide a metà la città deserta.

Alzo lo sguardo e vedo la nebbia della sera deformare i contorni di case e automobili, ologrammi offuscati di altre esistenze le cui dinamiche, oggi,appaiono insignificanti,lontane anni luce dal mio interesse. D’improvviso sporco e umidità solleticano i gas ionizzati che di rimando scintillano sul pantografo del tram, un lampo accecante che ferma il tempo soltanto per un attimo prima di riavvolgerlo su se stesso. Mi volto e le luci stroboscopiche della discoteca costringono le mie pupille a contrarsi. Poi la scorgo tra le ciglia di occhi socchiusi,poco prima che il cervello metta a fuoco l’immagine.

Ride. Alza un calice di vino. Sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Ci salutiamo. Parla muovendo le mani. Fisso le sue labbra. L’incavo del collo profuma di mandarino, sandalo e vaniglia. Dita intrecciate. Macchie di rimmel sulla mia camicia. Rossetto sbavato. I nostri respiri si perdono uno nell’altro.
Viola abbraccia il mio corpo, nuda, mi stringe e sento i suoi seni premere contro il petto mentre promette che sarà per sempre…

Il tram sobbalza su uno scambio, una mioclonia notturna che riporta la realtà in primo piano e spezza il filo dei ricordi. Lo stridio dei freni rallenta la corsa in prossimità della fermata. Una coppia si alza. La donna, magrissima, è fasciata in un abito rosso plissettato, l’uomo vestito con un impeccabile smoking le tiene una mano intorno alla vita. Sembrano fantasmi, forme vacue, pennellate di colore in panorami vuoti, come i ballerini nei dipinti di Vettriano.
Le porte scorrono verso l’esterno e la notte penetra fulminea nella carrozza con freddi tentacoli che avvolgono le mie gambe provando a tirarmi ancora più a fondo. Resisto, i muscoli irrigiditi dall’acido lattico. Intanto la coppia scende sulla strada buia, il tram riparte con uno scossone e il finestrino sudicio riflette i protagonisti dell’ultima corsa di giornata,volti celati da maschere alla disperata ricerca di momenti che valga la pena ricordare. La vita, d’altronde, è solo un susseguirsi di attimi, ma ci sono attimi che dividono la vita stessa in un prima e in un dopo. E questo è certamente un dopo.

I Blur sussurrano alle mie orecchie quanto sia tenero dormire con qualcuno disteso al tuo fianco.
Impreco sottovoce. Questa notte sarò da solo, per la prima volta dopo molti anni, l’insonnia quale unica confidente cui chiedere il perché Viola abbia raccolto la sua roba e sia andata via per sempre. Non abbiamo avuto figli. Li abbiamo cercati senza che fossero mai una priorità, andava bene a entrambi, una sorta di muta rassegnazione condivisa.
Ci piaceva viaggiare ma ho più fotografie che ricordi.
Leggevamo uno a fianco dell’altra, separati da centimetri che parevano distanze sconfinate,perduti in storie più attraenti della nostra. Forse non era abbastanza.

Sfilo le cuffiette e sento in sottofondo i singhiozzi sincopati di una ragazza che piange e i respiri profondi di un uomo che sonnecchia disteso senza scarpe sui seggiolini. Davanti a me, un poco a sinistra,siede una madre con un bimbo sulle ginocchia. È vestita a strati, quasi indossasse ogni capo del suo esiguo guardaroba. La pelle del viso è un dedalo di rughe profonde che corrono lungo i lineamenti spigolosi, i capelli sono arruffati come pelo di cane randagio. Il bambino, avrà sì e no cinque anni, dondola in sincronia con il tram, la schiena dritta, le braccia lungo il corpo. Sua mamma lo abbraccia, gli carezza le guance, la fronte.
Quella donna non ha nulla, né soldi, né fortuna, né un lavoro, forse neanche un futuro, ma il figlio è il pieno che riempie il vuoto di una vita intera.

Una voce metallica gracchia monotona, avverte i passeggeri che la fermata successiva sarà il capolinea. Io sarei dovuto scendere prima, così da rinviare l’eco dei miei passi tra i muri spogli di una casa ormai priva di sogni, ma non riesco a distogliere lo sguardo dalla donna con il bambino. È il modo in cui lo stringe a sé che contorce le budella, che intorpidisce i sensi, che blocca il diaframma nel mezzo di un respiro. Poi il tram si ferma di colpo, le luci sfrigolano e le porte mostrano il mondo esterno con un ronzio. Mi guardo attorno e nessuno si muove.

Allora rimango anch’io qui, immobile, in apnea, testa china, seduto dentro la carrozza di un tram fermo al capolinea e aspetto senza far nulla, aspetto come tutti quelli che non vogliono scendere da vite a loro modo al capolinea…

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di Federico Cirillo

Alle 2 di notte la vita sul 90 è sempre uguale: tanti posti liberi, qualche passeggero che riposa testa e pensieri sul vetro unto e opaco, un paio di ragazzi che, in piedi, cercano di reggere se stessi e tutto l’alcool che hanno mandato giù, biascicando commenti mentre scorrono la timeline di chissà quale social.

Tutto questo e poi io, che come ogni giovedì ho finito il turno intermedio e aspetto a Termini che ‘sto bus, già in moto, riparta e la smetta di vibrare.  Tutto è come sempre qui dentro e così decido che  anche per me è arrivato il momento di staccare il cervello e di abbronzarmi la faccia con lo schermo dello smartphone.

Non faccio in tempo a sbloccarlo che, come in un testo Shakespeariano, mi ritrovo in compagnia di tre entità: tre donne, una di fianco e due di fronte, si materializzano e mi guardano, come in attesa che io faccia un gesto, un qualcosa, un…

F: Aó, ma te voi sbriga’?

I: eddaje e sblocca

F: dai su Paoletto che c’hai già ‘na notifica…eccola!

Paolo: ma che cazzo? Ma chi siete? Come conoscete il mio nome?

(ridono tutt’e tre)

T: buongiornoDaniele, buongiornoLuca, BuongiornoSonia, BuongiornoPaolo

Paolo: buon…giorno, ma che??

I: il tuo nome? Ahahah ma noi conosciamo tutto di te…

F (inizia a leggere da uno smartphone che tira fuori dalla tasca dei jeans): Paolo Miccari, 33 anni, single, ti piacciono le donne, nato il 18 aprile 1986, ateo, lavori presso FS Ferrovie dello Stato, hai frequentato la facoltà di Ingegneria di Tor Vergata dal 2005 al 2013 – 8 anni, complimenti, ce la siamo presa comoda eh? – 1132 amici, vivi a Roma ma sei nato a Lanuvio, iscritto ai gruppi: sei di Lanuvio se…, Lanuvio unita per il clima, Sardine dei Castelli tutt* in Piazza, Lanuvio Bella&Brutta, Teneri Musetti (lo guarda con aria ironica a sfottò)

Paolo: sì…vabbè era per la mia ex, le mandavo…oh ma insomma??

F: (riprendendo) Smezziamo nel Mezzo del Racconto – mica male bravo – Cuore Giallorosso, Il Romanzo della Roma. Libri preferiti: le frasi più belle di Oisho…continuo?

I: No te prego fermate…guarda Paolè, lascia perde mi zia che sta sempre a fasse i cazzi degli altri…ci facciamo un selfino? (si mette in posa abbracciando voluttuosamente Paolo e clicca) ecco qua: filtro Juno che qua c’è poca luce, hashtag picoftheday, viaggioinbus, Rome, noidue – basta che poi so’ troppi – e ci registriamo a…Terrazza Termini, fa un sacco cool. Dai, postala, che famo rosica’ tutti. Poi facciamo anche una storia, anzi una decina con un po’ di musica, un po’ di GIF, loghi…

T: Greta Thunberg fotografata con la madre su una poltrona da 9.000€ in vera pelle di animale: ritwitto?

F: ma che ritwitti, guarda qua (prende il telefono di Paolo) ci sta un gattino piccolo dolcissimo, lo postiamo con un po’ di glitter e una frase in maiuscolo: QSTO GATTINO E’ PER IL BUONGIORNO DAL MIO CUORICINO, KONDIVIDI IL MICETTO PER UN GIORNO PERFETTO, SE IL GATTINO HAI IGNORATO I TUOI AMICI HAI INDINNIATO, BASTA NEGRI CHE SPACCIANO ALLA STAZIONE DI LANUVIO, STOP AL DEGRADO, TOLLERANZAZERO ETCETCETCETC….che dici posto??

T: L’Europa ci affossa! Italia fuori dall’Euro, ORA! Il Parlamento Europeo è tutta una montatura pan Germanica ecco la dimostrazione. Che faccio Ritwitto e Commento?

I: aó cì, guarda che Laterizio2005 sta live adesso…che dici gli facciamo sapere che ci siamo????

(si accavallano una dopo l’altra)

Paolo: oooh e basta un po’!!! Ma che Laterizio2005 è il figlio di mio cugino (riprende il telefono), e tu (girandosi verso T) che ritwitti e commenti, manco ce l’ho mi sa l’account Twitter

T: Ce l’hai: iscrizione effettuata il 5 maggio 2012. Primo Tweet un’accozzaglia inutile forse copiata dal Laboratorio di Satira di Spinoza e modificata per farla sembrare tua (patetico), hai pure sbagliato l’hashtag…

Paolo: no, è che ai tempi…aó ma fatti i cazzi…anzi fatevi i cazzi vostra…e tu (girandosi verso F che prova a riprendere il telefono) fermate che me fai posta’‘ste cose brutte, ‘ste cose da…cinq..

F: NO! Non dire 50enni che me incazzo!!! Io sono nata coi pischelli, postavamo cose fighissime neanche ieri…

I: eh e mo te ritrovi coi vecchi davanti ai cantieri. Rassegnate zia, è così…spazio ai giovani. Piacere Instagram me trovi nelle app, nella cartella Social, so’a più fashion…me posti?? (accattivante).

Paolo (imbarazzato ma un po’ lusingato e ammaliato): pi…piacere mio…Paolo…che…che devo fa’?

F: Ma lo vedi che sei aggressiva? Non lo vedi che lo spaventi? Basta che metti in mostra ‘ste due…’ste due cose (indicandole il seno) e pensi che sei sulle timeline de tutti i regazzini. Che poi guarda (indica un giovane che con cuffie e telefono si riprende e commenta un gioco ad alta voce) te stanno a preferì Twitch ah bella, altro che tette! Voi fa’ la fine del mio ex marito Youtube eh? Che mo se sta a accolla’ ai terrapiattisti?? Sfigato!!
Comunque piacere mio, (rivolgendosi di nuovo a Paolo) sono Facebook, mi riconosci, sono sempre attiva e ho ben due app. Perché non condividiamo qualcosa, dai…posso riattivare i poke se me lo chiedi,  dai mettiamo un like a CommentiMemorabili?? Giochiamo a PetSociety o a Farmville? Te lo ricordi…avevi certe zucchine! Dai…

Paolo: Mamma mia è un incubo…e tu quindi saresti…(rivolgendosi a T)

T: (meccanica) Twitter piacere, scusa sono presa da una miriade di informazioni non riesco a seguirvi e poi mi sa…aspetta…(urla) TIE’ (Facebook e Instagram si addormentano come svenute improvvisamente proprio mentre il bus si ferma ad uno stop) #Instagramdown e #Facebookdown ! Che figata…guarda come viaggio adesso, ah ridicole! Hashtag “e allora Bibbiano!” Hashtag “mai con Salvini!” Hashtag “Governo Giallorosso!” “Sapevi che la curcuma può guarire dalle lesioni alla spina dorsale? Clicca qui…”, l’ho trovato su Telegram, il mio fratellino piccolo. Dai clicca qui, qui, qui…qui RITWITTAMI!!

Si svegliano F e I e insieme                                                                                  

F,I: aó uccellino del malaugurio nun ce prova’ più, eh? Paolo è dei nostri vero? (strattonandolo)

T: No Paolo, usa me! Informati, diffondi, debunka, analizza, crea una nuvola di hashtag…(cercando di portarlo verso di lei)

Ad un tratto si fermano tutt’e tre e, vedendo che Paolo a iniziato a sorridere a una ragazza seduta dall’altro lato, si girano prima verso di lei e poi di nuovo, guardando Paolo…

F: aó , ma che stai a fa’??

I: ah cì,  guarda che stai a fa’‘na cazzata!

T: Ah coso, quella è minorenne

I: ma guarda questo, se vole butta su TikTok

F: ah bello, a noi quelli come te ce fanno schifo.

T: Ma sai che famo? Te scaricamo noi.

I: ciao sfigato (facendo il segno dell’ hashtag)

L’autobus si ferma al capolinea, Paolo scende e nel mentre disinstalla tutte le app Social dal telefono.

Paolo: oddio che incubo…meglio WhatsApp a sto punto guarda…ma che… (arriva un messaggio proprio da WhatsApp nello stesso momento):

“Ciao Paolo, a Mamma, ti volevo dire che da oggi Whatsapp sarà a pagamento. Se vuoi mantenerlo gratuito invia questo messaggio a 400 persone…”
Paolo: NOOOO!!

Fine.


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Degli effetti della privazione del sonno (e degli anni ’90) 

di
Matteuccia Francisci

Presento tutti i sintomi della privazione del sonno, mentre trascino i piedi per Via Altomonte nel mio non-luogo dell’anima, l’Anagnina.
 Cattivo umore, irritabilità, incapacità di prendere decisioni, viso pallido.
La discesa all’infero della stazione sembra donarmi qualche giovamento.
Anelo al buio e al sottoterra neanche fossi una revenante.

Tremori, viso gonfio, ce li ho proprio tutti, perfino… alterazioni della vista? Sulla banchina mi sembra di vedere una maglietta dei Take That. Impossibile, dai, non esistono più. Arriva il treno, troppa luce. Leggo Metro per far scorrere il tempo. È stato un periodo all’insegna di elezioni ovunque, ma la foto è riservata al calcio. Piccolo piccolo, in basso, qualcosa sulle elezioni europee e, ancora, sulla Brexit, i suoi effetti e le sue ultime conseguenze. 
 
Mentre lotto con la nausea e sfoglio le pagine, odo a destra squillare le parole: 
«Non posso ancora credere di averlo visto così da vicino. Ma quanto è bello Gary?» .
A sinistra risponde un’altra voce:
«Quando hanno fatto Back for good stavo morendo, senti che voce che ho, mi sono sgolata». 
E attacca… Back for good dei Take That. 
Davanti a me due ragazze di non più di 20 anni. Magliette della prima boy band della musica (o sedicente tale). Cellulare con video e commenti live: «O mio dioooooooooo!». 

Presento tutti i sintomi della privazione del sonno, ma il suono lo sento davvero: il telefonino della ragazza di sinistra squilla. 

«Ciao mamma, sì siamo arrivate, l’aereo da Londra è atterrato in anticipo, siamo già sulla metro. Bellissimo, mamma, è stato il più bel regalo di compleanno che mi abbiano mai fatto, mi hai regalato un sogno».  
Nella mia mente rimbomba il colonnello Kurtz (L’orrore! L’orrore!) mentre comprendo che queste due ragazzine sono di ritorno da Londra: sono andate a sentire – l’orrore! l’orrore! – i Prendi Questo.  

Presento tutti i sintomi della privazione del sonno. 
Era il 1995 o lo è di nuovo? Forse loro non erano neppure nate ancora. Margaret Thatcher si era finalmente levata dai coglioni, dopo 10 anni di un governo che alcuni ancora ricordano come salvifico. Tra gli altri, i sostenitori dell’apartheid e Augusto Pinochet. La Margherita ora è morta, rispondendo al gentile invito di S. P. Morrissey. Pinochet pure. Ma i Take That no, fanno ancora concerti e le pischelle ancora ci vanno.
Nel Regno Unito ci sta una donna con la faccia cattiva come quella di Margherita. Hanno le iniziali scambiate, ma gli stessi tailleurini blu e collane di perle, il medesimo rossetto rosso su labbra piccole che quando sorridono fanno paura. Come Carmilla di Le Fanu, che si chiama anche Mircalla e Millarca.

Vabbè a breve andrà via anche lei, la Teresa il 7 fa la sua exit…ma poi? Magari arriva un Simon Le Bon ciccione e invecchiato che al posto del fascino pop trash da Duran Duran è solo trash. Torneranno Gigi D’Agostino, Gabry Ponte e Berlusconi senza la cravatta e le maniche arrotolate? Berlusconi senza cravatta… ah! Panico. Accanto a me un ragazzo ha le mèches bionde, le ragazzine canticchiano Could it be magic e la vampira mi guarda dal quotidiano gratuito: Teresa, forse? Ho paura.  

Presento tutti i sintomi della privazione del sonno e mi sento male: «A livello mentale si è rilevata una maggiore vulnerabilità nello sviluppare patologie psichiatriche quali stress, ansia, depressione, paranoia, aumento del rischio di suicidio e raramente episodi psicotici». 

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di
Federico Cirillo

Gli altri. È sempre pieno di altri qui sul 23.
Tutti diversi ma tutti così diversamente accomunati da una cosa: il tragitto. Anzi no, in realtà da due cose: il tragitto e farsi i cazzi degli altri
Ed eccoli qua: 

«Te dico che è così a Fa’…non ce volevo crede!» 
«Si, ma è assurdo! Ma lei non se n’è mai accorta?» 
«Ma chi, Camilla? Macché! La conosci mi sorella no? Se fidava. D’altronde stanno insieme da quando so’ regazzini!» 
«Si, però checcazzo! Io posso pure capi’ co n’altra, lo posso accetta’: ma così è pesante eh» 
«Pesante sì. Pensa che l’ha sgamato a vede pure i video sull’internet: gli ha preso il telefono e ha trovato di tutto! Foto, video, messaggi co tutti quelli come lui!» 


«Assurdo, assurdo, n’ce se crede. Ma poi così, senza un cenno de preavviso o un sintomo?» 
«Eh, così, all’improvviso. Che poi comunque lui ha sempre fatto parte del gruppo nostro e noi bene o male, stiamo sempre a parla’ de quello. Però, guarda, te posso dì che sinceramente lo vedevo sempre un po’ diverso, sempre sulle sue e a disagio quando se ne parlava…tipo faceva il vago, interveniva poco, non se schierava mai…». 


«Vabbè, ma che c’entra? Uno può pensa’ che non abbia il chiodo fisso e ok.  Ma addirittura così diverso no, dai! Così dell’altra sponda, te l’aspettavi? Eddaje Riccardi’…così no: guarda, io non ce lo facevo proprio. Ma senti, mica l’ha saputo tuo padre? Magari l’ha sentito in giro…? No perché ‘ste cose, lo sai è n’attimo che…». 
«No, no fermate, per adesso no. Gliela stiamo a tene’ nascosta…capirai se devono pure sposa’. Pora Camilla, guarda che pena…st’infame». 
«E tu madre? Che dice tu madre?» 
«E che deve di’? S’è fatta tre segni della croce e s’è rimessa a stende’ i panni…ma che doveva fa’ quella pora donna? Non ce se crede…dopo anni…e ce lo siamo pure portati dentro casa… ‘tacci sui» 
«Assurdo…me fa schifo» 

Così, quella sera, tra Lungotevere Tebaldi e Lungotevere Aventino, sul 23 era scesa una pesante cappa di silenzio.  
 
Poi, d’improvviso, il coraggio di un uomo. Vabbè un ragazzotto in realtà: alto bene o male la metà dei due energumeni e largo quanto l’avambraccio tatuato di uno di essi.  
Occhialetti da vista tondi, pashmina bordeaux e ciuffo scomposto ondulante, decide di affrontare le curate sopracciglia, in quel momento corrugate, dei tipi.

«Bestie – urla non riuscendo a trattenere la rabbia – e trogloditi! Ecco cosa siete! Ma vi rendete conto voi di quello che dite?  “Me fa schifo”, “assurdo” “diverso” e “quelli come lui”.
Sapete una cosa? Siete voi che mi fate specie…e no – azzittendo con fermezza uno dei due con un movimento repentino di un dito – non cercate di interrompermi che ho ragione.
Come potete fare commenti del genere su un ragazzo che ha capito la sua vera natura? Come potete, voi, giudicarlo diverso?
Ignoranti, buzzurri e trogloditi! Ancora con questi luoghi comuni sugli omosessuali e sugli orientamenti sessuali. Che pena, mi fate!». 
Così, girandosi di scatto, scende stizzito a Marmorata, continuando a bofonchiare. 

«Che cazzo ha detto? » riprende uno dei due, sbigottito e mezzo imbarazzato: «Che c’entrano i froci mo’? Mica perché sei della Lazio devi esse pure frocio…e poi – sporgendosi dal finestrino per urlare in direzione del tipo ormai lontano – me stanno pure simpatici a me…- tornando a parlare con l’amico – i froci, mica i laziali!». 
«Anfatti». 

E soddisfatti scendono dal 23, ad Ostiense.