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di Mario Greco

Illustrazione di Anastasia Coppola

In fondo al pullman sta seduta una donna coi capelli rosa, simili alle piume di un pellicano. È l’unica passeggera.

«Signora, siamo arrivati al capolinea» le dice Omar. «Deve scendere». La donna si alza.
È alta e le sue lunghe ossa sembrano scricchiolare mentre avanza nel corridoio, verso Omar.
Omar è spaventato, ma lei gli dice che non ha nulla da temere, che si trova lì per alleviare il suo dolore, lo strazio che prova per averla investita col pullman, quella mattina.
«Non è stata colpa tua» gli dice. «Quando si ha la mia età, si è po’ svampiti, i riflessi non sono più quelli di una volta, e così la vista e l’udito. E poi, deve sapere una cosa: sono morta sul colpo, non ho sofferto. È successo tutto in un attimo».

La donna va a sedersi su uno dei sedili anteriori, alle spalle di Omar.
«Nella mia vita sono stata fortunata» dice.
«Non mi posso lamentare di niente. Non ho nessun rimpianto, non ho mai fatto del male a nessuno, almeno non deliberatamente. Mio marito è morto soltanto un anno fa. Siamo stati felicemente sposati per più di sessant’anni e questo credo che possa bastare. I figli stanno bene.  Non lascio debiti. Ho pagato sempre tutte le bollette, ho tenuto la casa in ordine e sono sicura che qualcuno dei miei figli si prenderà cura del gatto e dei fiori. Adesso, però, mi piacerebbe rivedere la mia adorata città per l’ultima volta, fare il tour completo, rivedere la casa dove sono nata e la strada dove giocavo da bambina, e tutte le chiese, i monumenti e le fontane. Ti dispiace farlo per me?
Ti dispiace portarmi in giro tutta la notte, da un capo all’altro della città?»

«Non posso» risponde Omar «Devo tornare a casa, dalla mia famiglia».
Si volta a guardarla.
La faccia è integra, per niente deturpata dalla morte; le guance hanno lo stesso colore dei capelli.
Sembra delusa, però.
Sta per rialzarsi, ma Omar la blocca: «Si risieda,» le dice, «su, si risieda.»

«Ha cambiato idea?»
«Sì. Si risieda, però, e si regga forte».

Zoe - Circolare View More

di Eugenio Di Donato

Illustrazione di Zoe

Esco.
È umido.
Il cielo è denso di pioggia. È notte.

Salgo sulla novanta, è mezza vuota. Mi siedo e schiaccio il naso contro il vetro. Guardo fuori. Auto puttane lampioni, e la striscia d’asfalto nuovo, nero e fumante che si allunga sotto la città. Fa caldo, la camicia si incolla alla pelle, mi serra il torace e le ascelle, sembro un lombrico sudato. Boccheggio. Non lo volevo fare questo mestiere.
Non mi andava di arrampicarmi come una blatta assonnata e paffuta intorno alla città.
Peso 127 chili, e il caldo mi sfianca.
Faccio il portiere di notte. Hotel Varisco, largo Ignesis 22, l’ennesima rotonda.
Questa città ruota. Nessuna piazza o quasi.
Solo slarghi e un’infinità di rotonde. Nel mezzo qualche albero, panchine abborracciate e recinti per cani e per bambini. Mi allungo, premo il pulsante. Il bestione gommato stride, si flette nel centro, quasi si torce e all’ultimo si ferma. L’autista aspetta, lo sa che mi ci vuole un po’ per alzarmi e strisciare giù, sul catrame rovente. Mi fa un cenno con la mano. Faccio un cenno con il capo. Non ho collo, la mia testa è incernierata nelle spalle come un pomello.
Sono in strada. L’autista accelera e il bestione gommato riparte. Macina giri nella notte.
Circolare destra, circolare sinistra.

L’hotel Varisco è di terza categoria, un misto tra un motel e un albergo a ore.
Due stelle dice la guida della città.
Una e mezza, dico io.
Ma cambia poco. Sono in ritardo, e Mohamed è fuori che aspetta con la sigaretta in bocca. Ha visto la mia sagoma scura da ippopotamo. L’ho visto anch’io, vedo la sua pupilla annacquata mentre si dilata nello sforzo di accogliere la notte. Sorride beato, deve essere stata una giornata tranquilla.
Niente urla, niente casini nelle camere, niente cimici.
Mi stringe la mano e la mia scompare nella sua. Ho le mani sorprendentemente piccole per un uomo della mia mole. Sorride di nuovo e si allontana con il suo passo africano. Seguo il busto dondolare tra le auto, balza furtivo sulla banchina e si accende un’altra sigaretta. Si siede alla fermata, nel punto esatto dove sono sceso io. Mohamed continua a sorridere, ha un sorriso che sembra un ghigno. Muove la bocca solo a sinistra, la parte destra è indurita da una sottile cicatrice. Un ricordo d’infanzia su cui sorvola. Lo guardo, vedo il torace che si gonfia, il piacere della boccata e il fastidio del sudore che gli cola lungo le tempie. 20 decimi, sono un rapace. Non volo però, per lo più sto seduto nella mia torretta. Sta arrivando di nuovo il bestione gommato che cerchia la città, ne passa uno ogni venti minuti, rallenta, stride, si accorcia nel mezzo e all’ultimo si ferma. Scarica di tutto.
Lattine di birra, skate, radio, monopattini, bici pieghevoli, un passeggino e due donne con il velo nero e il vestito lungo. La baby slitta è pesante, le donne imbavagliate l’afferrano con mestiere e la depositano sulla banchina. È intasata di buste, di pacchi, di cibo. Mohamed le guarda perplesso. Due arabe sole nella notte fonda con un passeggino carico di cenci. Troppo anche per lui, troppo per chiunque abbia una madre o una sorella velata. Peggio dei cinesi.

Mi appollaio nella mia torretta: una poltrona di pelle lucida e reclinabile. L’ho barattata per il primo stipendio, lavorare di notte passi, ma stare scomodi no. Quando sono seduto incuto paura, lo leggo nelle pupille dei clienti, ci sono tre gradini e venendo dal basso non mi vedono. E poi d’improvviso, una volta sul pianerottolo, appaio io, un ippopotamo strabordante con occhi da falco. Capiscono subito che capisco. Il Varisco è uno spazio per tramortiti, gente che tira avanti alla giornata: balordi, alcolizzati, puttane.
Coppiette rancide e coppiette alle prime armi. Divorziati che non hanno un posto dove andare. Alcuni sono violenti, ma per lo più sono spaventati. Gente che per un paio d’ore non vuole rogne, la loro vita ne è piena. Piccoli furti, qualche rissa, patenti ritirate, spaccio, figli sparsi. Alcolismo.

La novanta stride, si ferma e riparte, si arriccia per tutta la notte, e per tutta la notte fino all’alba vomita nani, storpi, minigonne, tatuaggi, nere, asiatici, cinesi, pacchi, scatole, ragazzi. Alle sei è il turno dei peruviani, un plotone di formiche armate di spugne e scopini. Si intrufolano silenziosi e assonnati nei grossi edifici, nelle banche, negli showroom, negli hotel, e anche qui al Varisco. Puliscono. Esmeralda e Maria si trascinano dietro i loro marmocchi. Bivaccano sui divani lerci della hall, un po’ dormono, un po’ giocano con il telefono, un po’ mi guardano. Non frignano mai. Sono grassi anche loro.
Ingurgitano merendine e cocacola, e come le loro madri si fanno il segno della croce.

Sono le otto, faccio il giro dell’edificio, controllo i piani, prendo l’ascensore, aspetto Berardo. Un avellinese arzillo con la faccia scavata che fa il turno del mattino. È piccolo e magro, secco come un chiodo. La novanta inchioda, una bici le ha tagliato la strada. Berardo rimbalza, si attacca al palo e scende dal predellino imprecando. Mi preparo. Lo saluto con un cenno del capo e pesantemente mi avvio verso il bar dell’angolo. È l’ora del caffè. Mi attardo, la serranda è ancora abbassata ma Giovanni il proprietario è dentro dalle sei, una donna dai capelli sporchi e radi rovista nel bidone dell’immondizia, aspetto la novantuno, tra qualche minuto scenderà Catarina.

Catarina lavora al bar dell’angolo da un paio di mesi, è portoghese e ha il culo alto e sodo delle brasiliane, la coda di cavallo e un sorriso capace di ridestare uno zombie. Ambrata, con il corpo elastico di un felino si flette e tira su la serranda. Non mi ha visto, è arrivata dal lato opposto, aspetto qualche minuto prima di entrare, il tempo di farla sistemare dietro il bancone. Sono quasi sempre il primo cliente, anche se capita che qualcuno che scende dalla novantuno la segua come un cane al guinzaglio fino alla serranda. Il caffè Ibisco è un residuo della media borghesia del quartiere. Tavolini di fattura, buona pasticceria, niente tabacchi e niente slot machine. Apre alle otto e un quarto e serve gli uffici della zona, i colletti bianchi che cominciano la giornata alle nove, i pensionati e gli universitari squattrinati. Dopo le dieci appare qualche computer, facce assonnate, barbe, occhiali da sole e camice pseudo hawaiane. Sono rari però. Qui il fashion non attecchisce.
Non ci sono ville e la metropolitana è lontana.

«Bom dia» e si apre una colonna di denti bianchi.

«Il solito?» Accenno di sì con il capo e mi aggrappo al bancone per non cadere.

Bevo il caffè, ingoio due brioche vuote, lascio la mancia e mi volto verso l’uscita. Mi sta guardando, lo so che mi sta guardando. Tutti mi guardano, si spostano perfino, mi fanno spazio. Sono ingombrante. Mi avvio verso la fermata. Il bestione gommato stride, si torce al centro e all’ultimo si ferma. Schiaccio il naso contro il finestrino. Catarina non c’è, è dietro in cucina.
Il bestione gommato accelera.

Anastasia Coppola - Peyote View More

di Leonardo Dragoni

Illustrazione di Anastasia Coppola

Corre voce che “la combinazione del Peyote” sia un miscuglio fatto di colla di calzolaio, semi di “Gorilla Glue” e qualche altro intruglio chimico dagli effetti apocalittici.
Una dose mi costa come l’incasso di un turno di notte.

Sono le tre e un quarto quando il display s’illumina e il cicalino mi segnala la corsa.
A quest’ora mi aspetto una prostituta che ha lavorato a domicilio e torna a casa. Nei due minuti che mi separano dall’indirizzo cerco di immaginare che profumo avrà, come potrà essere.
Scommetto con me stesso che si tratta di una transessuale di colore.

Invece sale un tizio anonimo che si siede davanti, di fianco a me.
Almeno così ho creduto, perché cento metri più avanti m’accorgo che invece quel tizio è seduto dietro.
Mi accorgo anche che non è affatto anonimo, perché è un nano.
Sono confuso. Deve essere qualche effetto collaterale di questa robaccia.
Comincio a guardarlo dal retrovisore e lui se ne accorge. Allora anche lui comincia a fissarmi.

Vorrei domandargli cosa ci faccia lì dietro, visto che un minuto prima s’era seduto davanti. Invece è lui a parlare per primo:
«Non lo accende il tassametro?»
«Subito, mi scusi!»

Cavolo. Eppure ero sicuro di averlo acceso.

Le sostanze che assumo trasformano le percezioni, ne alterano l’intensità, ma non mi rendono un visionario e non provocano allucinazioni. Quindi non riesco a spiegarmi cosa stia accadendo.
Quando quest’uomo è salito a bordo era una persona di media statura e si era accomodato davanti.
Ne sono certo. Invece mi ritrovo un nano seduto sul sedile posteriore.

«Non sarà mica uno di quei tassisti musoni? Il percorso è abbastanza lungo, parliamo di qualcosa, vuole?»
«Certo, perché no?».

D’un tratto ho l’impressione di viaggiare alla velocità di un razzo.
Il mondo si distorce al mio passaggio.
Mi volto indietro a guardare il cliente, voglio leggere il terrore nei suoi occhi e vedere la sua espressione mentre ci schiantiamo in tangenziale e diventiamo poltiglie al sugo, spappolate sul cruscotto. Invece quello ha un’espressione talmente serafica da convincermi che la velocità è solo un’illusione. Un quadro futurista.
Infatti sto guardando dietro, eppure non ci schiantiamo. Rimango a guardarlo aspettando che urli “guardi avanti!”, ma non lo fa.
Sorride, invece.

«Parliamo del senso della vita. Qual è il senso dell’esistenza, secondo lei?».
Parlare del senso della vita in una notte di ferragosto, imbottito di droga dentro un abitacolo con un nano del cazzo. Riesce difficile immaginare qualcosa di più onirico.

«Non è proprio semplice», dico.
«Provi»
«Trovare delle risposte?»
«Interessante. Ma a quali domande?»
«Non saprei…»
«Provi»
«Forse è proprio trovare delle risposte a domande come la sua, domande come: “qual è il senso della vita?”».
«Forse»
«E lei ne ha trovate?»
«Cosa?»
«Di risposte alla domanda, dico, ne ha trovate?»
«No»
«Ne è certo?»
«Una, forse»
«Sarebbe?»
«Il senso della vita è qualcosa di così grande e profondo, che sarebbe da sciocchi pensare di coglierlo. Non crede?»

Non rispondo, forse ha perfino ragione.
Ai miei lati la città sfreccia in mille colori stonati, luci allungate dall’eccesso di velocità. Sembra un quadro di Balla. La mia tipa mi ha portato a una mostra sul futurismo la settimana scorsa. Mi dico che non è grave, che siamo ancora nell’ambito delle sensazioni. La velocità, non è forse una percezione? Poi però guardo di nuovo nel retrovisore e quel che vedo non è più soltanto un’impressione: quell’uomo ha indossato una strana maschera bianca, da clown. No, non proprio da clown, ma da marionetta. Meglio ancora, non è una maschera.
Quell’uomo non è più un uomo, è diventato una marionetta.

Trasfigurato.
È di legno, e – insisto – lo è davvero, non soltanto nel mio mondo tossico, di percezioni alterate dalla chimica.
Questo deve essere chiaro.

Mi dice: «Non è forse per questa ragione che lei si droga?».

Fa caldo, non ho dubbi neanche su questo.
Ma quando la marionetta parla, dalla sua bocca esce del fumo della stessa consistenza del vapore generato dall’alito caldo a contatto con l’aria fredda.

Cosa diavolo sta succedendo?
Decido di mischiare le carte.
Concentro tutta la pressione che posso sul piede destro e pigio sul freno come un ossesso. Tutto quel che ottengo è rendermi conto di un’altra stranezza. La marionetta non è più da sola, ma con la sua famiglia. Sul sedile posteriore adesso ho quattro marionette.
Padre, madre e due figli. Mi fissano.

Sbotto a ridere.
Stavolta il Peyote m’ha rifilato un allucinogeno pazzesco!

Allora grido ridendo: «Cazzo! siete in quattro adesso!»
«Siamo sempre stati in quattro, signore»
«E se ora freno bruscamente?»
«Cosa?»
«Diventerete otto? Sedici?».

Si guardano come se avessi detto una cazzata e cominciano a parlottare tra loro. Sembra parlino una strana lingua. Forse Amish, uno strano dialetto tedesco. Mentre parlano mi accorgo che in effetti non sono quattro, perché ci sono anche altre piccolissime marionette che camminano sul sedile posteriore. Non le avevo notate prima, forse per le loro dimensioni ridotte, più piccole di un playmobil.

«Ma quanti siete là dietro?»
«Non c’è nessuno qui dietro signore. Siamo tutti nella sua mente».

Giorni fa ho letto un libro sul Biocentrismo.
Non ci ho capito molto, però cercava di convincermi che nulla esiste davvero, al di fuori del mio pensiero.
Forse il nano (perché quello è un nano, una marionetta di nano) mi sta dicendo proprio questo? 
Ma se così fosse, anche lui, il nano – la marionetta, il clown, quel coso insomma – esisterebbe solo nella mia testa.

A questo punto comincio a vedere marionette ancora più piccole camminare anche sul cruscotto.
Qualche impulso proveniente da qualche parte nel mio cervello mi ordina di strizzare forte le palpebre, fino a farmi male.

Poi riapro gli occhi. Sono ancora lì. Sempre più numerosi.

«Ma quanti cazzo siete?»
«Prima che tutto questo divenga il manifesto di un nuovo esistenzialismo, o forse una specie di teatro dell’assurdo, si fermi che siamo arrivati».

Fermo la macchina e ho la sensazione di non essermi mai mosso, di essere già fermo da chissà quanto tempo. Mi volto ancora e la marionetta è sola. Dove sono finiti sua moglie e i suoi figli? E tutte le altre marionette più piccole?

«Allora quanto le devo?»
«Mi deve una spiegazione. E che sia convincente».
«Bene. Tenga pure il resto».

Mi porge qualcosa. Mi caccia qualcosa in mano. Qualcosa di reale che non sono soldi. Non riesco ad aprire la mano finché non è sceso dall’auto e la portiera si è richiusa. Allora l’apro di scatto. È una marionetta. Nella mia mano c’è una piccola marionetta di legno bianco. Una cazzo di nano-clown-marionetta. Uguale a tutte le altre, ma diversa: ha le mie sembianze, la mia faccia.

Sono io.

Liliana Brucato - Girasoli View More

di Gius Petruzzi

Illustrazione di Liliana Brucato

Stamattina mi chiama quello schizzato di Berry e dice di mettermi il costume da bagno.
Lido Verde ci aspetta e sarà pieno così di tette e culi da strizzare.
Sollevo gli occhi al cielo.

Se solo bastasse questo a rimettere insieme i pezzi di me.
Gli rispondo che mi ci vuole tempo. Non è mica facile levarsi di dosso la sbornia del venerdì, e non è facile neanche togliersi dalla testa quella stronza di Diana. Maledetta.
Berry mi dice di muovermi, la statale 16 sarà nevrotica e per arrivare ci metteremo almeno un’ora. Dico ok e riattacco. Sbuffo.
Lo so, sarà un’altra estate di dolore.

Berry affonda il pedale.
La macchina corre veloce sulla statale adriatica.
Dal vetro del finestrino solo nastri colorati. Il nero della strada, il giallo del grano e dei girasoli, il blu del mare, l’azzurro del cielo.
Prendimi vento, trafiggimi, almeno per un minuto fammi dimenticare il dolore, questo mostriciattolo che salta divertito qui in petto. Non ho voglia di ascoltare i pensieri. Giro e rigiro la rotella del volume fino a far ronzare le casse.
Berry che te la ridi sempre, come fai, dimmelo.
Vorrei che la tua felicità fosse anche la mia. Ed è troppo facile, lo so, buttare giù birra su birra, gin su gin, ma serve un modo pratico e veloce per riempire gli spazi, colmare i vuoti, accelerare questo sangue freddo che s’affatica a scorrere.

Neanche mezz’ora di strada che Berry accosta alla piazzola di sosta.
Vuole fare un’altra striscia.
«Che cazzo fai…devi guidare», ma lui se la ride e piazza quella merda sullo schermo del telefono.
«Aspettami – gli dico – ho da pisciare».
Oltre il guard-rail i girasoli mi guardano.
Queste ridenti teste gialle mi mettono angoscia. Mi ricordano Diana.

Lei era un girasole dell’Adriatico e come tutti i girasoli dell’Adriatico non seguono il tramonto verso il mare.
Ma offesi gli voltano le spalle in attesa che proprio da lì, dal cobalto dell’acqua marina, arrivi l’abbraccio di una luce nuova.
Scusami cielo se anche oggi che sei così limpido, vedi queste lacrimucce bagnare l’asfalto duro; ti prego vento lasciale cadere sul terreno, fa’ spuntare una piccola gioia.

«Muoviti!» Grida lo schizzato dalla macchina.
La pipì è finita, le lacrime no.
Sfrego gli occhi e di nuovo via verso il mare. Dalla borsa frigo prendo una birra. Sono già alla quarta. Si deve far veloce prima che si scaldi. Mi sento brillo, sarà il sole su questa faccia scura, la musica a palla o quest’assurda ossessione.
Ho voglia di ascoltare Ciao amore, ciao nella versione di Tenco.
Ho proprio bisogno di te, Luigi. Ora.
Dimmi con la tua voce calda che tutto tornerà al suo posto, che ogni pezzo di questo corpo può ancora tenersi su. Come dici? Sarà proprio così?
E allora voglio volare, le sento le ali sulla schiena. Fuori dal finestrino è tutto più bello: quelli che prima erano girasoli ora sono un mare giallo. Ed io mi ci tuffo.
Ciao amore, ciao.
È tutto finito.

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Ultimo Indizio

di Stefania Coco Scalisi

Illustrazione di Anastasia Coppola

Quelle parole le risuonavano in testa mentre si rigirava nel letto, sperando di convincere il sonno a usarle la gentilezza di degnarla di un po’ d’attenzione.

Cosa poteva significare?
Era da quando aveva lasciato quel ragazzo delle consegne sotto l’albero un paio d’ore prima che ci pensava.
Castelli in quella città non ce ne erano, o meglio, c’era una specie di fortezza normanna, di quel solido color grigio pietra che a tutto faceva pensare fuorché al verde.

No, non poteva essere quello il castello verde dell’indizio: quella fortezza evocava saccheggi e catene, l’unica cosa verde a cui poteva associarlo era quello delle muffe delle sue celle sotterranee. Doveva concentrarsi su altro. Forse era il verde la chiave di volta dell’enigma? Forse erano i colori il grimaldello per scoprire la verità?
Fu a quella conclusione che giunse mentre finalmente le si chiusero gli occhi e il suo corpo iniziò a scivolare lentamente nel sonno dei giusti.

Quando la mattina si risvegliò, ci mise un attimo prima di capire dove fosse.
Aveva la bocca impastata e la fronte imperlata di sudore, complice il caldo innaturale e la massa di capelli che aveva dimenticato di raccogliere dietro la nuca. Un vero schifo.
Fu solo il bip del cellulare che riportò definitivamente la sua attenzione alla stanza e a quel letto.
Che fosse un altro indizio?
Con un fremito ingiustificato lo prese in mano e mise a fuoco il testo sullo schermo:

“Non dimenticate il vostro appuntamento per il vaccino. Ore 10.20, Unità Vaccinale Mobile, Piazza Federico di Svevia”.

Il vaccino! Come aveva fatto a dimenticarlo? Aveva preso quell’appuntamento settimane prima e ora, presa da quella smania, l’aveva totalmente rimosso. Forse era il segnale definitivo che quella storia le stava sfuggendo di mano, che doveva smettere di cercare quel bar segreto, che stava diventando pazza in nome di un cocktail.

Guardò l’orologio.
Erano le 9.30.
Si lavò rapidamente e nel giro di mezz’ora era già sulla sua vespa diretta verso il luogo dell’appuntamento.
La strada era piuttosto trafficata ma conosceva la città come le sue tasche e si muoveva sul motorino come uno scippatore in fuga con una borsetta.
Sarebbe arrivata in tempo.

E infatti, alle 10.10, era già davanti alla tendostruttura bianca e leggera, che spiccava nel suo candore in quella piazza sovrastata dall’enorme castello dietro di lei. Castello.
Quello era il castello normanno della città. Che fosse…?
Parcheggiò il motorino davanti l’entrata dell’unità vaccinale, in un angolino che sembrava aspettare solo lei, all’angolo con la macelleria Verde Pascolo. Castello, verde.

Ebbe un giramento di testa. E se..? No, non doveva farsi illusioni, non era così.
Non poteva essere così.
E se non fosse stato così, il suo povero cuore non avrebbe retto.
Scacciò quel pensiero dalla mente. Erano comunque le 10 del mattino e certamente un bar segreto non poteva aprire a quell’ora. Si mise in fila. C’era parecchia gente, ma tutti rispettavano il proprio turno ordinatamente.
Si entrava pochi per volta, ognuno secondo il numerino che aveva ricevuto al momento della prenotazione.

Alle 10.20 in punto, la chiamarono.
Compilò dei moduli piuttosto lunghi e dettagliati e dopo qualche minuto fu invitata a entrare per la sua dose.
Il medico che la accolse era un ragazzo piuttosto giovane, forse appena laureato, che tentò subito di metterla a suo agio parlandole un po’ del più e del meno.

«Allora, pronta per il vaccino?»

«Si, grazie. A dire il vero l’avevo proprio dimenticato. Se non avessi ricevuto un messaggio sul cellulare non mi sarei presentata».

«Ma davvero? Eppure non si parla di altro in questi giorni!»

«Sì, ma sono stata presa da altro. Una scemenza a dire il vero. Guardi se ci penso mi viene da ridere».

«Sono indiscreto se le chiedo di cosa si trattava?»

Lo guardò.
Era un modo di metterla a suo agio o era semplicemente un ficcanaso?
Rispose con un misto di riluttanza ed imbarazzo.

«Ma guardi, difficile da spiegare. Una specie di caccia al tesoro a indizi. L’ultimo era castello verde.
Ma davvero, non mi faccia dire di più che mi sento una stupida!»

«Come ha detto scusi?»

«Che mi sentirei una stupida»

«No prima. Ha parlato di una caccia al tesoro e un indizio, castello… »

«Castello Verde. Una cosa senza senso. È più di una settimana che perdo la testa dietro questi indizi. Sarà la solita scemenza tipo catena di Sant’Antonio e ci sono finita dentro».

Il medico si fece improvvisamente silenzioso.
Le fece la puntura in tutta fretta e le mise un cerotto.

«Mi segua».

«Prego?»

«Mi segua da questa parte. Deve compilare un ultimo modulo».

«Ok».

Fece per seguirlo.
Lo vide imboccare un piccolo corridoio e scostare una grossa tenda bianca.
Quel posto era molto più grande di quanto potesse sospettare.
Scostò anche lei la tende e all’improvviso le sue ginocchia cedettero.

«Alla fine ci ha trovati! Brava!».

Davanti a lei un piccolo bancone bar, pieno di bottiglie e bicchieri. E dietro al bancone, il medico di prima.

«Non era facile vero? Gli indizi cambiavano sempre perché ci spostiamo in continuazione. E poi non aveva senso farli troppo facili, sennò dove sta il divertimento?»

Lei fece di si con la testa, totalmente incapace di parlare.

«L’idea c’è venuta così, una mattina. Tutto è partito dal fatto che abbiamo un frigo in più che restava sempre vuoto. Poi come vedi- posso darti del tu?- di spazio ce ne è e di tempi morti pure. Di solito serviamo i drink quando gli appuntamenti finiscono. Ma se vuoi possiamo fare un’eccezione. Che ti servo?».

Continuava a fissarlo come un’ebete. Non capiva se per lo stupore o per la gioia.

«Un oldfashioned si può avere? Cioè a me piace quello col succo di mirtilli, però non so…»

«No mi dispiace. Noi possiamo solo servire cose classiche, sai, è pur sempre un centro vaccinale!»

«Certo, scusa. Va bene un oldfashioned classico allora?».

«Un po’ fortino a quest’ora ma ok. Però promettimi che non ti muovi di qui per almeno mezz’ora, in caso ti girasse la testa».

Annuì.
Lui le porse il cocktail.

«Fanno 8 euro, grazie!».

Pagò.
Lui le diede il resto.

«Ora devo andare. Tu resta quanto vuoi! E goditi il tuo drink. Te lo sei meritato».

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Colazioni Salate View More

di Stefano Tarquini

Illustrazione di Diaz


Il parcheggio buio sembra una fetta di groviera andata a male, con tutti i suoi buchi e crateri nell’asfalto.
Miriam li schiva con disinvoltura e guida via veloce, scomparendo nella notte assorta di provincia.

Nino se la guarda dallo specchietto retrovisore e la scia degli stop rossi rimane solo un ricordo, disegnato nell’aria pesante di un giorno nascosto nel silenzio soffuso di semafori dal giallo intermittente.

Ogni lunedì, Miriam è di riposo e la mattina fa tapis roulant.
Dopo aver fatto la doccia improvvisa una goffa messa in piega che le dura dieci minuti, ma che a lei piace lo stesso, e si trucca gli occhi mentre asciuga lo specchio dal vapore che ha riempito il bagno, con lo stesso panno in cui aveva avvolto i capelli in un turbante.
Mangia un boccone con Elvira, la sua coinquilina di buona famiglia, che potrebbe avere una casa tutta per sé ma preferisce così, un po’ per andare contro i suoi, un po’ perché ancora crede di essere veramente indipendente, pur essendo ricca.
Poi si fa mezza Roma in macchina per fare l’amore con Nino, che il lunedì fa solo pranzi ed ha la sera libera.

Lui si fa la doccia al Mulino, una vecchia pizzeria col forno a legna dove lavora da quando è ragazzino, in un piccolo bagno/spogliatoio improvvisato che non ha finestre, in cui Mario, detto Don Chisciotte, il vecchio proprietario dal cuore grande e dal baffo arrotolato ai bordi della bocca, scrisse, con un bianchissimo Uniposca su un piccolo specchio venti per venti: vietato cacare.

In realtà avrebbe dovuto scrivere vietato pippare, ma era stato un fottutissimo cocainomane, e quel bagnetto angusto aveva ospitato, nei vent’anni precedenti, la crema dei drogati e delinquenti della zona. Poi però aveva cercato di trasformare il Mulino in una pizzeria per famiglie, e in parte c’era riuscito, ma aveva lasciato tutte le cose com’ erano. Diceva che gli servivano per ricordare.

Lo specchio e la scritta erano ancora lì e tutti quelli che avevano lavorato al Mulino ci si erano fatti una foto: camerieri, aiuto cuochi, pizzaioli e cocainomani.

Le foto sono quasi tutte attaccate con una puntina alla parete dietro la cassa, ma nessuno dei clienti ci fa caso mentre paga o è in fila. Non sanno che posto sia quello, loro possono usufruire del bagno apposito al piano di sotto, dove si può aspettare il proprio turno in un ambiente confortevole, con un divano comodo, due candele profumate e la filodiffusione.

Oggi Nino le ha portato una busta di supplì fatti da lui.
Mangiare era un ottimo diversivo per tutti e due.
Miriam adorava parlare di cibo e di ricette, e si esprimeva quasi solo con modi di dire che poi diventavano una specie di loro linguaggio privato.
Appena conosciuti ad esempio, rispondeva ai messaggi porno di Nino con un secco: faccio finta di non aver letto, o, in caso di messaggi vocali, di non aver sentito.
Adesso lo usa rispondendo a messaggi di altro tipo, come parte di un codice tutto loro.

Oggi, per esempio, se n’ è uscita con una delle sue massime sulla prima colazione, il «pasto più importante della giornata».

«Uno dei periodi più belli della mia vita è stato quando il dietologo mi aveva prescritto la colazione salata: una fetta di pane bruscato col prosciutto crudo i giorni pari, col salmone i dispari, accompagnato da una spremuta di arance rosse senza zucchero. Che bei tempi, quelli!»

Secondo Nino, invece, il fritto una volta a settimana è come un elisir di lunga vita: riattiva il suo povero fegato ingrossato, torturato da una vita di eccessi. Le loro dritte approssimative sull’alimentazione corretta li facevano ridere così fragorosamente e con gioia, da non volere più smettere di farlo.
E a volte non lo facevano, se ne stavano lì a ridere e ridere, fino a non poterne più.

Miriam ha un Opel Corsa nera, con un vecchio adesivo attaccato sopra la targa, che non si ricorda neanche più dove l’ha preso: mortacci tua!
Lui arriva sempre prima di lei all’appuntamento e dà una pulita veloce ai sedili, sbattendoli alla buona e aprendo i finestrini per far cambiare l’aria.

Poi arriva lei con i suoi occhi luminosi.
A volte neanche si salutano, in pochi minuti si ritrovano mezzi nudi sul sedile posteriore, tanto hanno voglia di fare l’amore, e una volta venuti entrambi, si guardano negli occhi: «Ciao, sei proprio tu?».

Quasi sempre lo rifanno un’altra volta, ma solo dopo essersi cullati l’uno negli abbracci dell’altra e raccontati gli alti e bassi della settimana.

«Hai portato i supplì? Sìì!» E mentre infila la mano fino ai polsi nella carta unta che ancora fuma, Miriam gli racconta che la sera prima ha provato a fare pasta e fagioli per la prima volta.
Le era venuta disastrosamente buona, orgogliosamente fitta, ma sciapissima e con la cipolla tagliata troppo grossa. Elvira era di bocca buona e l’aveva divorata, dice, ma le aveva anche fatto notare quei particolari, e questo l’aveva un po’ divertita e un po’ offesa.

Nino stappa la bottiglia di acqua minerale con l’accendino, facendo rimbalzare il tappo oltre il tettuccio apribile da cui sta entrando la notte, scende e lo raccoglie subito per non lasciare tracce del loro passaggio.
Lasciare pulito ovunque è una cosa che si porta dietro da sempre, da quando era cresciuto con una nonna e due cani, e aveva dovuto imparare velocemente sia le buone maniere che a fare la lavatrice.

Da due settimane beve solo acqua perché la prossima deve fare le analisi per rinnovare la patente.
Esattamente sette anni prima, proprio quello stesso giorno, aveva avuto un brutto incidente e i carabinieri che erano intervenuti lo avevano sottoposto ad un alcol test molto positivo, facendolo entrare in un percorso amministrativo estenuante.

Lo racconta spesso: «Quando vado a fare gli esami al Pertini, in mezzo a tutti gli altri colleghi di sbornia, sono l’unico che ammette di aver bevuto davvero. Tutti gli altri inventano scuse con sé stessi, tipo: io stavo lucidissimo, io solo mezzo bicchiere, l’alcol test è fasullo, eccetera eccetera».
Lui non se ne vergognava, però se quella maledetta sera non avesse bevuto, sarebbe stato decisamente meglio.

Miriam è al terzo supplì e parla con la bocca piena.
Nino di solito la ascolta senza interrompere.
La loro storia è tutta qui: tanti bei ricordi e un odore di fritto che riempie la macchina.

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di Luca Cassarini

illustrazione di Anastasia Coppola

“Per quanto il mondo possa sembrarti assurdo, non dimenticare mai che offri un bel contributo a questa assurdità                                con il tuo agire o con il tuo astenerti.”

(Arthur Schnitzler, “Libro dei motti e degli aforismi”)

«Biglietto, prego».

Il controllore Antonio Prevosti era sempre lo stesso, da anni.
Decano dell’azienda municipale di trasporti in quella piccola cittadina di frontiera, assieme a cappellino e divisa d’ordinanza indossava sempre un leggero profumo a buon prezzo.
In quel momento attendeva che uno dei pochi passeggeri della corsa delle 10 e 23 esibisse il proprio titolo di viaggio. Teneva chino lo sguardo sotto una montatura di occhiali alla moda, dando ogni tanto leggeri colpi di tosse.
Abile nel suo mestiere, riconosceva a prima vista biglietti scaduti o tarocchi, ed aveva fiuto per quelli usati più del dovuto.
Non sembrava questo il caso, fortunatamente.

«Ecco a lei», annunciò il passeggero dopo una ricerca parsa infinita.
«…Grazie».
«A lei».
«Buon proseguimento di viaggio».
«Hmm-hmm».

Il viaggiatore, uomo sulla cinquantina, barba rada a coprirgli il viso, tornò a sprofondare nel seggiolino della corriera. Sapeva che il viaggio non sarebbe stato troppo breve, ma erano passati anni, se non decenni, dall’ultima volta che si era prestato ad un’esperienza del genere. Solitamente andava in macchina, tuttavia per un malaugurato incastro del destino la vettura era dal meccanico e lui aveva un appuntamento inevitabile, sicché aveva scrutato con rassegnazione l’orario dei mezzi pubblici che collegavano le sua città con la destinazione voluta.
Bestemmiando leggermente, aveva visto che ne passava uno ogni ora e mezza, per cui si era ulteriormente rassegnato a prendere il primo disponibile per poi aspettare, una volta giunto nella città di K., il tempo dovuto.
Un bar o una panchina della piazza non avrebbero fatto troppa differenza.
In fondo, era un tipo paziente.
Lo dicevano tutti quanti, ed era vero.
Con la sua stoica pazienza si sistemò dunque sul sedile, ed iniziò presto a sonnecchiare.

«Biglietto, prego».

Il controllore, che di nome faceva sempre Antonio Prevosti, lo destò dal suo torpore.
Erano già arrivati? L’uomo sulla cinquantina, ma potevano essere anche poco più di quarantacinque, in quelle fasce d’età indefinite dove sfumano le differenze nette, guardò dapprima fuori, quindi verso il proprietario di quella voce. Per un attimo pensò di aver cambiato linea alla fermata immaginaria dei suoi sogni. Notò con sospetto che era lo stesso di prima, e si chiese come mai tornasse a chiedergli la medesima cosa. Forse se n’era dimenticato, oppure era la prassi dell’azienda. Per certi aspetti avrebbe voluto protestare, ma la richiesta era tutto sommato legittima e garbata, e contro la legge sempre meglio non avere grane.
Mai, e di nessun tipo.
Sbuffando leggermente, tirò fuori il suo biglietto.

«Ecco a lei».
«…Grazie».
«A lei».
«Buon proseguimento di viaggio».
«Hmm-hmm».

Cercò di cogliere punti di riferimento per capire quanto potesse mancare  all’arrivo, ma la strada era abbastanza omogenea nel suo imperterrito scorrere, i cartelli sfrecciavano troppo in fretta perché potesse leggerli bene, forse si sarebbero fermati da qualche parte e avrebbe potuto fare mente locale.
Era certo che sarebbero arrivati a breve, questioni di decine di minuti, al più.
Iniziò a guardare fuori dal finestrino cercando di cogliere qualcosa di interessante al suo sguardo, e che lo aiutasse a passare il tempo.
Tanto valeva arrangiarsi con quel che offriva il convento.
Ovvero, un paesaggio che scorreva sempre uguale a se stesso.
Rimase presto ipnotizzato dal viaggio.

«Biglietto, prego».

Il controllore, che si chiamava ancora Antonio Prevosti, d’altronde c’era solo lui a compiere quella noiosa incombenza sulla tratta, stavolta lo prese veramente alla sprovvista. In effetti, si era incantato nel loop del viaggio.
Il rollio delle ruote sull’asfalto era sottofondo costante e, per certi aspetti, soporifero.
L’uomo, che poteva anche avere un’età quasi prossima alla pensione, stemperò la tensione in corpo con una dose d’ironia, canticchiandosi in testa: “Ancora tu, ma non dovevamo vederci più…?”.
Quanto tempo era trascorso? Mezz’ora, un’ora? A breve sarebbero pur dovuti giungere a destinazione, no?

Si azzardò a dire: «Scusi, ma…».
«Biglietto. Prego», ripetè il controllore, con la pazienza di chi ne aveva viste tante. Abbastanza nervoso, l’uomo glielo porse mezzo sgualcito e spiegazzato.
«A lei».
Il controllore impiegò un tempo infinito nello scrutarlo adeguatamente, su ambo i lati, onde evitare brutte sorprese. I cosiddetti portoghesi erano una costante nel tempo e nello spazio, leggende tramandate da generazioni di controllori.
«Grazie», disse infine allo stralunato passeggero, con un reiterato cenno professionale.
«…»
«Buon proseguimento di viaggio».
«…»

Non ci stava capendo più nulla.
Presto sarebbero arrivati a destinazione, ne era certo.
Gli pareva che il sole fosse stabile lassù in cielo, ma le giornate sembravano avere una durata immensa, d’estate.
E la strada somigliava ad una striscia di asfalto senza fine, dilatata dallo spazio e dal tempo.
Ad un certo punto sentì distintamente uno strambo rumore.
Si guardò veloce attorno, sulla corriera era rimasto solo lui.
Ignorava dove potessero esser scesi tutti gli altri, era sicuro non fosse stato l’unico passeggero a salire su quel mezzo, chissà quanto tempo prima, chissà dove.
Stava perdendo ogni riferimento spazio-temporale, in quell’andirivieni costante ed assurdo.

Antonio Prevosti, il medesimo controllore di poc’anzi, e prima, e prima ancora, sgusciò tutt’un tratto in mezzo al corridoio dell’autobus.
La sua faccia era ermetica come quelle dei tutori dell’ordine.

«Biglietto, prego» chiese puntiglioso, scandendo bene le parole.
Il passeggero, di un’età indefinita e abbastanza stravolto, per poco non si mise a piangere, o gridare.

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di Diana Colombre

Illustrazione di Stefania Brandini


Il cielo, livido per le percosse di invisibili giganti, sanguinava un’acquerugiola fine.
C’era un’atmosfera d’immota attesa nella campagna desolata.
Guardai il mio orologio da polso: le quattro meno un quarto del pomeriggio.
Si sapeva tutti che di lì a poco sarebbe successo qualcosa, eppure si aveva l’impressione che la Natura stesse ritrattando, indecisa, come chi si propone di intervenire a un discorso ma poi desiste, rimanendo a bocca aperta senza emettere alcun suono.
La notizia era stata divulgata dal telegiornale della sera prima: quest’oggi alle cinque sarebbe finito il mondo.

Io non avevo ancora deciso se crederci o meno e poi, comunque, se la Terra si fosse disintegrata proprio alle diciassette in punto, che altro si poteva fare se non tirare avanti fino a quel momento?
L’Espresso iniziò a rallentare innalzando un lamento lugubre di mastodonte ferito a morte.
Raccolsi la mia roba – l’impermeabile, il cappello e una ventiquattrore – dal sedile affianco al mio e uscii dallo scomparto accendendomi distrattamente una sigaretta.
La carrozza era vuota fatta eccezione per una coppia di anziani coniugi che si trascinavano appresso un paio di borsoni blu deformati dal loro stesso contenuto.
La donna mi sorrise. Non so perché.

Gettai nuovamente lo sguardo all’orologio mentre scendevo dal predellino: le quattro e cinque minuti.
Scrollai la testa, quel treno era puntualmente in ritardo.
M’incamminai verso casa, avevo una gran voglia di rivedere mia moglie e i miei due figli, Christian e Davide, di sette e undici anni.

Di autobus, naturalmente, nemmeno l’ombra.
Un sentito ringraziamento alle solitamente tanto bistrattate Ferrovie che almeno avevano garantito alcuni treni a lunga percorrenza (sebbene ciò si dovesse più che altro alla solitaria ostinazione di qualche macchinista).
Spensi ciò che restava della mia sigaretta in uno di quei posacenere da esterno che l’amministrazione comunale aveva sparso per il concentrico in cerca di consensi.
La città pareva semi-deserta salvo il passaggio occasionale di qualche auto stracarica di persone e oggetti.
Chissà dove credevano di potersene scappare.
Molta gente si era barricata in casa, ma dei disordini e degli atti vandalici della notte precedente rimanevano ormai solo vetri rotti, parchimetri divelti e carcasse d’auto incendiate.
Evidentemente l’annuncio diffuso dal tg aveva fatto presa su molti.

Sembrava che la città fosse già morta, fottendosene alla grande del tempo che le era stato ancora concesso.
Un ultimo, rabbioso smacco inflitto alla bomba a orologeria che ticchettava e ticchettava e che avrebbe smesso solo alle cinque di oggi.
E se, invece, si erano inventati tutto, che so, tipo per testare la nostra reazione?
Anche perché, siamo sinceri: come si può prevedere l’ora esatta dell’Apocalisse?

Non ci era stato detto nulla sul modo in cui ci saremmo estinti e ciò aveva prodotto dei godibili dibattiti televisivi a cui avevo dato una fuggevole occhiata mentre ero al lavoro. C’era chi metteva in ballo i quattro elementi, chi la religione (qualunque essa fosse), chi il nucleare, chi le comete, chi tutti questi assieme… sia come sia, per me tutte balle.

Una veneranda 126 verde muschio con un tavolo rettangolare capovolto sopra il tettuccio mi tagliò la strada rischiando di travolgermi: «Eh, diamine! Quanta fretta!» sbraitai balzando indietro.
Scrutai stizzito l’orologio: le quattro e ventitré.

Erano quasi le quattro e mezza e io me ne stavo ancora in giro.
Era davvero incredibile come scorresse velocemente il tempo.
Non che dessi peso a quelle fandonie, eh, però volevo essere a casa prima delle cinque, avevo un sacco di lavoretti da portare a termine.
Aveva fortunatamente smesso di piovere, ma le falde del mio cappello si erano ormai inclinate gocciolanti verso le spalle quasi a voler fare la caricatura di un clown triste.

Il sole incominciò a far capolino fra le nubi ed io mi sbottonai rasserenato l’impermeabile.
Uomini e donne, di diversa età e ceto, presero a uscire timidamente sui balconi e c’era chi sorrideva e chi lanciava saluti alla nostra stella come se la vedessero per la prima volta o come se fossero consapevoli che sarebbe stata l’ultima.

«Be’, ma allora» captai il discorso di un uomo obeso con le pieghe del collo sudaticce «se è uscito il sole è tutto a posto! Cosa diavolo volete che succeda con il sole?».
Mi fermai un istante davanti allo schermo a cristalli liquidi di un negozio: “diciannove gradi, sedici e quarantasei”.

Ripresi a camminare turbato.
Non mi ero mai accorto che casa mia fosse così lontana dalla stazione.
Estrassi un’altra sigaretta dal pacchetto che tenevo nel taschino ma non trovando l’accendino, per qualche motivo a me ignoto, m’accontentai di tenerla a ciondolare fra le labbra, spenta.
Potevo chiedere d’accendere a qualche passante.
Se solo ne avessi incrociato uno.

Un merlo sparuto cominciò a cantare dal ramo di uno dei platani che crescono lungo il viale, proprio mentre ci passavo sotto.
È strano: si sta tanto ad osannare l’usignolo, eppure – parola mia –  anche il merlo emette pregevoli gorgheggi.
Dopo diverse svolte mi immisi in un budello lastricato con cubetti di porfido, verso il centro storico, alla disperata ricerca di una scorciatoia.

Una bambina, una povera zingarella la si sarebbe detta, mi venne incontro.
I capelli, che si intuivano biondi, erano sporchi e scarmigliati sebbene ci fosse stato un maldestro tentativo di imbrigliarli in una coda di cavallo. Le guance, rosee, sarebbero state ben più colorite se degnamente lavate.
I vestiti, troppo grandi per il suo corpicino, le erano stati sistemati addosso con una serie di lacci improvvisati, ma l’ampio gonnellone continuava a strisciare a terra e il suo orlo era ormai inzaccherato di fango.
Frugai nelle tasche cercando qualche spicciolo, convinto che mi porgesse la manina. Ma non lo fece.

«Signore» disse invece «mi saprebbe dire che ore sono?»
«Ma certo, piccola, sono le cin…».

Simona Settembre Una foto un peso View More

di Denise Ciampi

Illustrazione di Simona Settembre

L’odore di mais riempie la camera della posada, perfino il cuscino e gli asciugamani puliti ne restituiscono la fragranza.

Ho l’impressione di lasciare sulla biancheria un’impronta estranea, una traccia discordante con questi luoghi. Asciugandomi il viso, insieme all’acqua, cerco di depositare sul cotone anche il sogno di stanotte: l’immagine ancora nitida di un uomo che cammina su una strada polverosa barcollando verso di me e che, quando mi raggiunge, focalizza lo sguardo rivolgendomi una sola parola: «Gringa», dice.

L’uomo del sogno non aveva l’aspetto di un indigeno: il sole superava la protezione del cappello a falde larghe colpendo i suoi occhi azzurri, innervati di sangue dall’eccesso di alcol e di polvere. Incrociando il suo sguardo ho avuto l’impressione di trovarmi davanti a uno specchio, uno shock violento mi ha scossa dal sonno.

Scendo nel patio, trovo Luis immerso nella lettura di un quotidiano.
Senza avvisarlo della mia presenza, vado a sedermi anch’io sul divanetto che sta occupando.
Lo vedo recuperare rapidamente il suo ruolo di guida.
Ci siamo conosciuti a Firenze un anno fa, a un convegno organizzato dall’ONG per la quale lavora. Forse, quando mi ha proposto di collaborare a una ricerca sullo sfruttamento delle risorse idriche, neanche lui si aspettava che sarei venuta fin qui.

Abbiamo programmato interviste ad esponenti locali per raccogliere informazioni sulla rete idrica e sulla penuria d’acqua. Oggi però non si lavora, Luis dice che c’è un posto che devo assolutamente vedere.
Ripiega il giornale e mi trascina al mercato della frutta.
Compriamo frutta fresca da consumare in strada, l’uomo dal quale la acquistiamo riempie i bicchieri direttamente da un contenitore pieno di frutti già tagliati. Prima della partenza mi hanno avvertita di non mangiare cose di questo genere se voglio evitare la dissenteria, ma quando Luis mi offre il bicchiere mi trovo ad accettarlo con piacere. 

Cerchiamo un colectivo, ne rimediamo uno in pochi minuti.
In questi giorni ho visto girare per il centro di San Cristóbal dei furgoncini piuttosto moderni, questo è un modello più vecchio e la cosa non mi dispiace affatto. Aspettiamo all’interno del veicolo che il mezzo sia al completo.
Osservo i viaggiatori, mentre, finalmente, Luis mi svela dove siamo diretti.
San Juan Chamula: cerco il pueblo, così si chiamano i centri abitati indigeni, sulla Routard.
Colpisce la mia attenzione la foto di una chiesa bianca con la facciata profilata di verde.
“Riti pre-ispanici e sincretismo religioso”: scorro le informazioni sommariamente, mentre il mio interesse si concentra sulle persone intorno a me.
La festa dei colori, gli odori, le voci e, tra le altre, quella ormai familiare di Luis che mi parla di una montagna. Adesso il suo indice mi mostra il Monte Huitepec cercando di darmi dei punti di riferimento: «La chiamano “la montagna d’acqua”, è un monte sacro ai Maya. Ai piedi del Monte Huitepec c’è lo stabilimento della Coca-Cola, proprio sopra una falda che è la principale risorsa d’acqua della città. Lo stabilimento consuma tantissime risorse idriche e gli abitanti hanno acqua un giorno sì e uno no, per di più non potabile. La multinazionale paga pochi centesimi per ogni metro cubo e la gente rimane a secco».

Il colectivo comincia la sua corsa, gli ammortizzatori scassati fanno oscillare i cappelli degli uomini e le grandi sporte delle donne.
Una passeggera si piega a raccogliere un mango che le è caduto dalla borsa, il movimento mette in risalto il ricamo vivace della sua camicetta.

Lungo la strada scendono passeggeri e ne salgono altri.
Dal finestrino vedo una donna con lunghe trecce nere legate insieme da un nastro.
Quando sale sul mezzo mi accorgo che, nonostante il furgoncino in quel momento sia fermo, la borsa di tela che tiene tra le mani si muove.

Prende posto abbastanza vicino a me, ho modo di continuare a osservarla.
Mi attraggono i suoi lineamenti indigeni, che comunicano una quieta fierezza.
La sue mani sono segnate dal lavoro della terra.
Sento un richiamo provenire dalla borsa, la donna vi infila una mano svelando la presenza di una piccola gallina insofferente della sua prigionia.
Insieme al collo della gallina, il gesto della donna ha scoperto anche quello di una bottiglia di Coca-Cola.
L’etichetta della bottiglia di plastica mi ricorda il racconto di Luis, mi viene in mente che lungo la strada mi è capitato più volte di vedere piccoli spacci che espongono lo stesso marchio.

Anche Luis è stato attratto dal verso dell’animale: «La gallina viene con noi a San Juan Chamula», afferma. Resto in silenzio, aspettando che prosegua. «Nella chiesa che visiteremo si compiono sacrifici di piccoli animali. Si tratta di riti indigeni molto antichi, utilizzati per liberare dal male gli ammalati. Hai visto la bottiglia della Coca-Cola?».

«Sì, ma cosa c’entra adesso la Coca-Cola?».
«Anche quella è utilizzata per espellere il maligno. Una volta gli indigeni usavano una specie di grappa, adesso è stata sostituita dalla Coca-Cola: il gas fuoriesce dalla bocca e la persona si purifica. Ma adesso siamo quasi arrivati, ti renderai conto con i tuoi occhi. Un’unica raccomandazione: non fotografare le persone, secondo le credenze indigene quando si fotografa qualcuno gli si ruba l’anima».

Entrando nel pueblo noto un uomo di passaggio: indossa un cappello a falde larghe simile a quello del sogno.
Non riesco a incrociare il suo sguardo, devo limitarmi a seguire da dietro il finestrino la sua figura che si allontana nella strada polverosa.

Scendiamo dal colectivo che già siamo circondati da un gruppo di bambini.
Mi individuano facilmente come “gringa”: «Una foto un peso, una foto un peso…», una ragazzina mi offre una cintura colorata, mentre un bimbo ripete la sua triste cantilena.

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di Rachele Fattore

Illustrazione di Anastasia Coppola

Sono a Trieste per lavoro. Hai tempo per una cavalcata? Ho appena avuto una promozione, ti pago bene. 

Sarebbe stata l’ultima notte.
Quante volte lo aveva giurato a sé stessa. Poi arrivavano le suppliche di un incontro ancora, le banconote e la bicicletta che desiderava tanto per sua figlia.
Così la speranza si allontanava, a braccetto con quella convinzione così labile da finire in un incontro ancora. 

Kadijah guardava il grembiule puntinato di schizzi di patina nera, preoccupata che non sarebbe riuscita a farlo venire pulito. Aveva passato l’intera giornata a lucidare scarpe, a passare la cera in tutte le stanze a cambiare armadi non suoi e ora desiderava solo stendere le gambe accanto alla sua bambina, dopo un bagno pieno di schiuma.
Stava finendo di riporre i detersivi nell’armadietto della lavanderia quando vibrò il cellulare.
Lo ignorò, gettandolo nella borsa. 

«Signora io vado»
«Ricordati di comprare gli stracci».

Kadijah lasciò cadere le parole dietro di sé sulla tromba delle scale, controbilanciando il peso dei  sacchi neri gonfi e maleodoranti. Affrettò il passo verso casa di Serena, una volontaria che ogni tanto le dava una mano con la piccola.
Il cellulare vibrò ancora una volta e quando guardò i messaggi si pentì subito di averlo fatto.  

Hanno trovato Irina in una pozza di sangue sulla Aurelia, l’hanno picchiata. Era incinta nessuna di noi lo sapeva. 

Lo stomaco di Kadijah si contorse in una smorfia gastrica di nausea e dispiacere.
I tempi dei fuochi del mercato della carne, delle cassette bruciate per scaldarsi, delle arterie di periferia erano lontani. La capitale era lontana, ma il marchio di quel lavoro non spariva mai e quel messaggio aveva un tempismo orribile.
Imboccata la strada di casa, una vocinala richiamò dai ricordi:
«Mamma… mamma ciaooo!».
Alzò lo sguardo e vide la piccola Zohra che la seguiva oltre le sbarre dal poggiolo.
«Mamma coiiii».
E lei corse, corse per strizzarla, corse perché era in ritardo.  

Serena sapeva.
I suoi occhi pieni di disappunto si piantarono nella notte di quelli di Kadijah e vi lessero un’inquietudine.
«Tutto bene?» le chiese
«Tutto come sempre. Doccia e poi scappo altrimenti perdo il tram».
«Non mangi con noi?»
«No».
«Mamma racconti tu ‘toria?» le chiese la piccola tirandola per la camicetta. 
«Mamma fa presto, olufẹmi» rispose, sapendo che si sarebbe addormentata sulle gambe di Serena.

Sarebbe stato bello, pensò di nuovo, chiudere quella sera. 
Uscì di casa alla svelta, in lontananza il cigolio del tram che scendeva.
Era una serata ferma ed inquieta, e l’afa toglieva il respiro.

***

Sveva stava rincasando.
La testa pulsava e il tram sembrava non arrivare mai.
L’ennesima seduta dallo psicologo e non era ancora giunta a capire se fosse incapace di trovare persone che non fossero tossiche o se fosse lei ad esserlo per sé stessa. 

«Lei cosa vorrebbe fare?».

Ogni volta quella domanda, come se lei dovesse conoscerne la risposta.
Continuava a rimbombarle nella mente come in una caverna senza via d’uscita.
Ecco. Forse era quello di cui aveva bisogno.
Scappare. Scappare, certo.
Cambiare città, cambiare lavoro, cambiare compagno.

Il tram arrivò puntuale.
Quando salì la vettura era quasi vuota: due adolescenti che scendevano per il venerdì nei locali, il solito vecchio Stella di ritorno dalla pedalata sul Carso e una ragazza africana che aveva l’impressione di aver incrociato altre volte. Profumava di buono ma questo ora le dava solo una grande nausea. 

Sveva continuava a carezzarsi il grembo, come se qualcuno potesse portarle via qualcosa di prezioso.
Lo sguardo, puntato oltre al finestrino, si condensò nel ricordo della sera prima, quando si era chiusa a riccio per proteggersi.
«Ti ho vista mentre uscivi con quelli, puttana…» nemmeno il tempo di rientrare e già la accusava.
«Uscire dall’ufficio per tornare a casa non è un appuntamento Cosimo» disse cercando di stare calma.
«Taci!».

Poi quella furia che ogni tanto gli scattava, le percosse, gli antidolorifici e il trucco per il giorno dopo.
Portò la mano alla guancia come fosse appena successo senza allontanare l’altro braccio.
Il figlio che portava in grembo era suo, non aveva dubbi.
Lui ancora non sapeva nulla ed era certa che lui avrebbe accettato di essere messo da parte.
Gliel’avrebbe portato via. 
Vedeva i suoi occhi ovunque, telecamere costantemente puntate sulla sua libertà.

Il tram iniziò a scollinare, avvinghiato alle vecchie rotaie.
Sveva alzò lo sguardo oltre alla cabina; l’unica consolazione dopo una giornata come quella era il bello di quel ritorno, era l’impressione di tuffarsi nel mare.
La sensazione che prima o poi il tram avrebbe perso aderenza e sarebbe planato oltre al molo anziché darle i brividi la faceva sentire libera. 

Ma anche quella sera il tram venne inghiottito dai palazzi della città, e il senso di oppressione si fece sempre più forte.

***

Kadijah e Sveva.
Discesa al capolinea: nessuna fantasia di strade alternative. 
Sveva aveva sperato fino all’ultimo che quel volo cominciasse, invano.
Kadijah aveva cercato dentro di sé il coraggio di rinunciare al guadagno facile di quella sera, per raccontare a sé stessa la storia della buona notte, invano.
La porta di legno si aprì, cigolando come se avesse le ossa rotte, spalancandosi in un moto improvviso privo di grazia. Laggiù l’aria era ancora più stagnante.
Il mare quieto sembrava covare qualche malanno.
Le due donne si scambiarono uno sguardo, dalle parti opposte del tram, arricciando il naso: c’era puzza di alghe marce.

Kadijah affrettò il passo; prima di ricevere lo squillo doveva darsi una sistemata, passare la crema sul viso e domare i ricci nell’acconciatura che piaceva al suo amante. 
Sveva tuffò il capo dentro alla borsa alla ricerca delle chiavi di casa, quelle che non trovava mai come fosse un messaggio inascoltato. Camminava a testa bassa, con le vene che pulsavano nelle tempie e una nausea sempre più forte.
Camminava, mettendo insieme a fatica i passi, su tacchi troppo alti per la sua stanchezza.
Fu questione di un istante.
Il tram riprese la sua salita faticosa in collina e lei, uscita dalla sua scia, inciampò sulle rotaie.
Poi furono due coincidenze uguali e contrarie: il tacco incastrato e la fretta di una consegna.
Il rider distratto dalla musica e intento a bruciare le tappe nella sua mappa mentale delle consegne, prese velocità appena prima del rosso. Guardava oltre, guardava lontano così che il tempo di reazione si annullò nello scontro.  
Le grida di Sveva frantumarono l’immobilità della sera torbida e malata.
Kadijah, non ancora lontana, si girò e vedendo quel fagotto incastrato sotto alla bici, riconobbe la donna del tram e corse indietro per aiutarla.

Non tutti gli appuntamenti sono destinati ad un incontro“, pensò. 

Sveva urlava di dolore ma non il dolore.
Temeva che Cosimo avrebbe scoperto il suo segreto.
Il rider alzatosi senza grandi fatiche chiamò subito, in un italiano stentato, un’ambulanza.
Sveva invece continuava a stringersi il ventre.
Cercava di sentire i suoi due cuori, li cercava con le mani, tentando di proteggere quella vita che poco prima, sulla poltrona dello psicologo, si sforzava di accettare.
Malediceva Cosimo e sé stessa e mentre malediceva aumentavano le pulsazioni ovunque, come se da un momento all’altro potesse esplodere in infiniti brandelli di infelicità. 

«Il bambino, il mio bambino» sussurrò all’orecchio di Kadijah, accolta dai suoi seni morbidi, mentre tra le gambe avvertiva un liquido caldo.
«Non andartene».
Quando arrivò l’ambulanza i lampioni della città finalmente si accesero e dal mare cominciò ad alzarsi il vento.
Kadijah rifiutò la chiamata in arrivo, poi compose il numero di Serena:
«Non so se rientro per tempo. Per favore, pensa tu a Zohra»

***

Nei mesi seguenti, e quelli dopo ancora non ci furono chiamate di amanti pieni di pretese o occhi immaginari dai quali trovare rifugio.
Non tutti gli incontri sono frutto di un appuntamento e alcuni, inattesi e improvvisi, hanno la forza del vento che porta nuovi semi e nuove consapevolezze.

Kadijah e Sveva non si incontrarono più anche se alle volte a tutte e due scappava un sorriso pensando alla forza di quell’ingranaggio rotto che quel giorno aveva cambiato le loro vite. 

Il tram continua ad inerpicarsi dal mare all’aspra collina che lo domina.
Prima o poi prenderà il volo sopra il mare.  

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di Giulio Iovine

Illustrazione di P.Black

Si conobbero sulla Stellidaura, la linea della metropolitana che va da un capo all’altro dell’Universo.
Si partiva da Livonia, un pianeta colonizzato di fresco nella galassia MACS0647-JD, e si percorreva l’asse maggiore della grande ellisse fino alla stazione di ricerca Panuozzo sul pianeta Torre Annunziata nella galassia GN-z11, per un totale di una settantina di miliardi di anni luce.
Siccome era un diretto faceva solo quattro fermate (Amphiparnaso, Y, Wren e Curculione), grosso modo in un’ora di tempo, il che era perfetto per Irma, che abitava nell’unica città di Livonia (gli appartamenti in periferia costano meno) ma lavorava da qualche mese come amministrativa nell’ufficio centrale della stazione Panuozzo.

Irma fu teletrasportata a bordo della metro ancora imbacuccata nel suo cappotto con sciarpa a quadretti e guanti, perché in quell’emisfero di Livonia era inverno; era sola.
Si sedette, la testa appoggiata al cuscino del sedile, cercando di sdormicchiare per almeno una mezz’oretta.
Fece appena in tempo, prima di chiudere gli occhi, a vedere dal finestrino le stelle che si allungavano e si fondevano mentre il treno entrava in curvatura, e la sua galassia che rimpiccioliva rapidamente alle loro spalle.

Fu svegliata ad Amphiparnaso dal rumore del teletrasporto.
Altri dieci o quindici passeggeri.
Uno, un ragazzo più o meno della sua età, si sedette davanti a lei e senza volerlo si scambiarono uno sguardo.

Prossima fermata: Y.

Irma provò a leggere sul suo tablet.
Anche il ragazzo sconosciuto provò a fissare le stelle fuori dal finestrino che, ipnotiche, tornavano ad allungarsi.
Ma bastarono pochi minuti per tornare a guardarsi avidamente.
Volevano copulare.

Provarono a resistere cinque minuti.
Ma si sa che più l’umanità procede nei secoli, più si libera delle sue pastoie morali, e più è disinibita.
Scattarono in piedi, si avvinghiarono l’uno all’altra, si dissero i reciproci nomi (Irma, Clemente) e cominciarono a spogliarsi e strusciarsi.
Gli altri passeggeri, sospirando un po’ per invidia un po’ per tenerezza, si misero chi le cuffie e chi il visore per vedersi un telefilm; ci fu chi provò ad attaccare bottone per parlare dell’ultima crisi di governo.
L’argomento riuscì ad assorbire i partecipanti alla conversazione a tal punto da non sentire, ripartiti alla volta di Wren, le urla d’amore e i sospiri sudati di questi due.

La carrozza cominciò leggermente a oscillare, poi a sbandare proprio.
Gli abiti di Irma e Clemente, buttati in giro per il pavimento, scivolarono da un capo all’altro.
Si sentì la voce del conducente all’altoparlante:

Attenzione. Il motore a curvatura in servizio su questo treno è parzialmente empatico.
I passeggeri Irma Michelini e Clemente Ricci sono pregati di interrompere o moderare l’attività sessuale in corso, in modo da non causare disagio ai meccanismi di propulsione.

(Per raggiungere velocità come quelle che ti servono per andare da un capo all’altro dell’Universo in tempo utile, devi fare certi pasticci con lo spazio-tempo. Nulla di pericoloso, ma c’è il problema che il motore sente il livello di ormoni nei paraggi, dopamina ossitocina endorfine eccetera, quello che altri scrittori hanno chiamato l’orgone, quando scopiamo tutti all’ammucchiata e per un secondo ci scordiamo dell’assenza di significato del Tutto.
Se lo fai in una carrozza di pochi metri quadrati questo può incidere sulla tenuta di strada.)

A Wren alcuni scesero, altri salirono.
Clemente cambiò posizione, montando da dietro Irma, la quale si teneva ad uno dei piloni di sicurezza mordendosi l’avambraccio per non gridare “chiamami puttana”. Lui, non cogliendo, badava a dire – con mozziconi di frasi – che era tanto che non praticava e che lei era fantastica eccetera.
La carrozza ripartì da Wren, le stelle si allungarono nuovamente, e il livello di ormoni cominciò a fare cose con la realtà.
Quando si fermarono a Curculione, Clemente si ritrovava un membro di un metro, percorso da nervi e canali; Irma una vagina larga come la bocca di una megattera, e due seni e due chiappe gonfi di amore come due melograni immersi nell’olio. Liquori e sudori schizzavano un po’ ovunque sul pavimento. I due corpi cominciarono a diventare incandescenti e a fondere il metallo intorno, sparando scariche elettriche a caso nel vagone.
Arrivarono a Torre Annunziata che la carrozza non rispondeva più ai comandi.
Dalla stazione teletrasportarono via tutti i viaggiatori e il conducente, ma non Clemente e Irma, parzialmente fusi con la struttura atomica della carrozza che schizzò in avanti, si incendiò, penetrò nei cieli di Torre Annunziata.

Era estate in quell’emisfero, una mattinata fresca.
Clemente stava per concludere, ma siccome Irma ancora no, si trattenne.
Il treno senza guida, i suoi atomi percorsi dal fremito di quell’amore in corso, sbandò, puntò dritto su un’isola verde in mezzo ad un mare azzurro chiaro, sorvolò la sua foresta.
Irma ordinò a Clemente di venire anche lui (“ORA, TE LO ORDINO” “SIIII”).
La carrozza andò a sbattere contro una montagna, e se Dio vuole i due vennero.

Il treno si aprì in due.
Tutt’intorno al luogo dell’impatto la materia coagulò, si fece energia e tornò materia;
fu il terremoto, il maremoto, la luce accecante, e dalla cima della montagna si aprì un buco e ne uscirono mischiati come un fiotto di acque vulcaniche metallo, carne, capelli, sperma e sangue.

Poco dopo si ritrovarono tra i rottami del treno, nudi e illesi sul fianco della montagna, mano nella mano, rincoglioniti dalla sazietà. La foresta intorno a loro fioriva.
Nascevano foglie sui tronchi, gli alberi morti tornavano in vita, gli animali ringiovanivano, le piume e il pelo ricrescevano, le acque stagnanti si agitavano e tornavano a scorrere.
Sui loro corpi traslucidi e trasparenti correva un reticolo di arterie, vene e nervi – si vedeva ogni globulo, ogni enzima, ogni ovulo, ogni spermatozoo.

«Buon controllo dei tempi», mormorò lei.
«Mi ha insegnato la mia prima ragazza», rispose lui: «Ha insistito molto».
«Ha fatto bene», approvò lei.

Fiammeggiava sul mare sotto di loro e su tutto il bosco intorno un sole generoso.
Si addormentarono abbracciati.

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Secondo Indizio

di Stefania Coco Scalisi

Illustrazione di Serena Saia

“Piramide. Blu notte

Quale mente perversa si celava dietro questi indizi?
Ma poi, che indizi erano?
Un indizio ti dovrebbe aiutare a capire qualcosa, imbeccarti un’epifania, non crearti confusione ed ansia!

Era questo quello a cui pensava mentre percorreva senza sosta con la sua vespa le strade della città.
Vuote, vuotissime, come se tutti avessero deciso di lasciarla sola nella sua disperata ricerca dell’El Dorado alcolico mentre lei continuava  ad arrovellarsi su quelle tre parole: piramide, blu notte.
Che fosse un night club?
Una cosa tipo Dea della Notte o Sexy Disco.
Sì, aveva senso, sentiva essere una buona pista.

Cercò su Google i night club che facessero un qualche riferimento alle piramidi ma l’unica cosa che si avvicinava era un locale, in una zona recondita della città, che si chiamava Kleopatra, con la K, non con la C.
Così, priva di altre intuizioni, seguì quella traccia.
In fondo Cleopatra, quella con la C, era o non era stata la regina d’Egitto, il cui indiscusso simbolo erano le piramidi? Beh, sì, doveva per forza avere ragione.
Si rimise in sella, e partì.

I palazzi le sfilavano accanto, rapidi, e lei per un attimo si sentì la padrona assoluta della città.
Sola, col vento in faccia, unica impavida cercatrice di un tesoro.
Fu mentre raggiungeva questa nuova consapevolezza che lo vide: un puntino che avanzava e che diventava a mano a mano più grande. Quando erano praticamente accanto, fu accecata dal rosso della sua maglia, un bagliore durato un attimo e seguito da un rumore sordo.
Si voltò, e vide che si trattava di una persona, su una bici, a terra.
Oh Dio, e se fosse stata lei a buttarlo giù?
Frenò subito e corse indietro, per vedere cosa si era fatto.

«Ehi, stai bene?» disse scuotendolo per il braccio
Quello non si muoveva.
Non è che forse…No, non voleva neanche pensarci.
«Ehiiii» urlò ancora più forte.
Poi finalmente si rasserenò. Lo vide muoversi, o meglio, muovere le spalle, in su e in giù, in su e in giù, ancora ed ancora. Accanto a lui, l’abbaglio in rosso: un’enorme zaino di consegne, e, sparpagliate a terra, dei cartoni della pizza.

«Ti sei fatto male? Come stai?».
«Niente, niente».
«Sei sicuro?».
«Si, si, sto bene».
«Ma come sei caduto?».
«Il ramo. È colpa del ramo» disse indicando un punto a terra.

Rasserenata, sorrise.
Non era colpa sua, poteva riprendere la sua caccia al tesoro in tutta tranquillità.
Ma quando fece per andarsene, qualcosa la trattenne. Uno strano lamento, una specie di guaito dolente.
Stava piangendo. Il ragazzo piangeva. Tornò indietro, maledette scuole cattoliche.

«Ohi, perché piangi? Ti fa male qualcosa?».
«Perdo il lavoro, perdo il lavoro» continuava a ripetere dondolandosi su e giù.
«Ma no dai, vedrai che non è un problema. Cioè hai pure avuto un incidente, vedrai che capiranno».
«Perdo la casa, perdo la casa» continuava imperterrito.
«Senti hai avuto un incidente, non è colpa tua!».
«È colpa mia!! Io sono caduto! Se non consegno queste pizze mi licenziano! Vuoi capire?» le urlò contro.

Fu combattuta tra la voglia di mandarlo a fanculo e la pena per quel pianto che non sembrava riuscire a fermarsi.
«Ho avuto un’idea!»
Lui si sollevò a guardarla, asciugandosi il naso col dorso della mano.
«Ti accompagno io col motorino. Lascia la bici qui, legata all’albero, e poi torni a prenderla! Vedrai che con la vespa facciamo in un attimo!».
«Davvero? Davvero lo fai?».
Davvero lo avrebbe fatto.
E se quello stronzo del karma non la ripagava, erano problemi suoi.

Così, partirono.
Lei guidava il più velocemente possibile, lui scendeva al volo a consegnare le pizze.
In nemmeno un quarto d’ora avevano terminato.
Lo riaccompagnò alla bici e senza scendere dalla vespa gli chiese:
«Senti ma non è che per caso te sei egiziano?».
«Si, perché?».
«No perché dovrei cercare una piramide è proprio non saprei…».
Prima di terminare la frase, sentì il solito trillo in tasca.

“Per oggi terminiamo qui. Ci rivediamo tra due giorni. Parola d’ordine: Castello. Verde scuro.

Avvilita, si accasciò sul manubrio.
«Ehi, non piangere! Perché cerchi una piramide, qui?».
«No guarda, lasciamo perdere. È una lunga storia…».
«Ti aiuto! Come tu hai aiutato me!».
«No davvero. Non c’è più nulla da fare. Cioè mi serviva prima, ma adesso non mi serve più. Ora devo cercare un castello!»
Lui la guardò intensamente negli occhi.

«Amica mia, sicura di stare bene?» chiese con un tono vagamente preoccupato.
«Ma si certo! Sto benissimo. Non capiresti, davvero!».
Ed in effetti, sentita dal di fuori, la sua richiesta era quantomeno strana.
Ma come faceva a spiegargli di più se lei stessa non ci stava capendo nulla di tutta quella storia?
Così tacque ed il ragazzo, di fronte al suo afflitto silenzio, capì di non poter essere di alcun aiuto.
Senza aggiungere altro, prese la bici ed andò via.

Mentre lo guardava allontanarsi, credette di sentirlo urlare:
«Addio ragazza pazza! Vedrai che alla fine quello che cerchi lo trovi! Inshallah».

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di Heiko H. Caimi

Illustrazione di Anastasia Coppola

Berlino.
Postdamerstrasse.
Fermata dell’autobus.

Persone salgono, persone scendono.
L’autista, impaziente, le fissa attraverso lo schermo. Le telecamere gli rimandano immagini dall’alto di gente comune che si affretta a salire.
Teste calve, teste appena uscite dal parrucchiere, teste unte, teste tonde, teste quadre.
Le detesta, le detesta tutte.

Attende con impazienza che una vecchietta riesca a fare l’ultimo passo per entrare. Con il desiderio di partire sgommando e di farla cadere.
Improvviso gli ritorna in mente il sogno dell’altra notte: lui alla guida dell’autobus che corre su una strada di campagna a tutto gas, al massimo della velocità consentita dal mezzo. E poi inchioda, all’improvviso. Tutti morti.
Quanti? Quaranta, cinquanta.
Cinquanta teste, cinquanta anonime mediocrità che sono salite sul suo autobus.
Gli piacerebbe, eccome se gli piacerebbe!
Gli piacerebbe che non fosse solo un sogno.

Riesce finalmente a richiudere le porte.
Parte piano, mentre la vecchietta si siede. Quella si lamenta che lui non abbia aspettato: «Così poteva anche farmi cadere!».
Vorrebbe inchiodare, uscire dal posto di guida, prendere la vecchia per le spalle e scaraventarla giù dal finestrino.
Ma non può, deve guidare.
Anche lentamente, perché il traffico procede a passo d’uomo.

Guarda nello specchietto retrovisore.
Cinquanta teste, sedute o in piedi, proprio come nel sogno.
Cinquanta teste in attesa che lui arrivi a destinazione.
No, non gliela darà questa soddisfazione.

Ferma di colpo e tra qualche scossone, tante urla e qualche urto ben assestato, il bus fa fischiare le gomme sull’asfalto per poi bloccarsi, di traverso, in mezzo alle corsie grigie ora strisciate di nero.
Quindi, schiaccia il pulsante che fa aprire le porte anteriori e, quasi fischiettando, esce e scende.
Si incammina in mezzo alla strada immaginando le facce dei passeggeri: il loro smarrimento, la loro paura di non arrivare in tempo, il disorientamento e l’odio.

Poi ci pensa su un attimo.
Torna indietro, quasi con l’aria di chi ha capito l’errore commesso: ma è in errore chi pensa questo.
Infatti, sempre con fare normale, ignorando le espressioni interdette dei passeggeri e le loro iniziali, timide richieste di spiegazioni, aziona dall’esterno i comandi manuali. Le due porte si chiudono contemporaneamente in un sonoro sbuffo d’aria, e le blocca da fuori con il chiavistello che, per sicurezza, porta sempre in tasca, creando una sorta di acquario, mobile ma immobile, fermo di traverso in mezzo al grande viale.
Sorride mentre attraversa la strada col rosso e senza voltare le spalle, senza ascoltare neanche i clacson delle automobili costrette a fermarsi per non prenderlo in pieno.

Di fronte alla fiancata del mezzo, si siede al tavolino di un bar che ha il vantaggio di avere una vista spettacolare: le vetrate del bus.
Popolato adesso da cinquanta teste e cinquanta mezzibusti che si agitano sbattendo i pugni contro gli spessi vetri di quell’acquario fatto d’aria.

«Un caffè americano macchiato, grazie e sì…anche uno di quei croissant al miele: adoro il contrasto del miele con il sapore burroso dell’impasto, sa?», ordina al cameriere che, fermo accanto a lui, non lo ascolta ma, inebetito, guarda impalato verso quel mondo sottovuoto che una volta era un autobus.

Continuando a sorridere, l’autista – ex autista in realtà, ora solamente spettatore interessato, se non artista di un quadro di esistenze sofferenti e iraconde – si gode lo spettacolo: il suo sogno che, bene o male, prende vita.
Beh sì sa, la realtà è sempre diversa da quello che uno immagina, ma anche così questa giornata ha assunto tutto un altro senso.

Sì, questa è proprio la più bella giornata della sua vita.

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di Lorenzo Tuci

Illustrazione di Francesco Pioli

Una volta in salvo sul brigantino della Serenissima, cambiatisi gli stracci sozzi e sudati con abiti da cristiani, e ben rifocillati, i cinque naufraghi furono convocati dal capitan Dandolo presso la sua sontuosa cabina, che occupava la maggior parte del cassero a poppa, lasciando due soli corridoi laterali sia ad ospitare le cabine del resto dell’equipaggio sia a schermire l’alloggio del capo dal sole infuocato o dai ceffoni degli alti marosi.

«Allora, signori,» esordì sonoramente Dandolo, stando in piedi dal retro della sua scrivania, non appena i cinque vennero introdotti, «mi è stato detto che vi siete or ora azzuffati. Dico io, proprio ora, a poche ore dall’aver scampato la morte, vi sembra opportuno tra voi venire alle mani? Mi meraviglio di voi Scarpin, che, come me, siete suddito di sua maestà il doge Silvestro Valiero! È forse questo il modo di comportarsi di un veneziano?»

Il padron giurato, addetto all’ordine della nave, che aveva accompagnato i superstiti del naufragio, intervenne: «Chiedo scusa capitano, ma il povero Gianni Scarpin non ha alzato mano, ché anzi lo abbiamo trovato sul ponte, attaccato per il bavero all’albero di trinchetto, mentre il tabarchinolo immobilizzava e il greco giùa menarlo.»

«Oh, questo poi è grave,» disse il capitano, «due forestieri, oltretutto, che attentano alla vita di un veneziano che ha appena scampato la morte, e su una nave veneziana per giunta!»

Scarpin, che ancora ansimava, era soltanto un po’ paonazzo, scomposto e gualcito sul collo del camice, ma non livido né sanguinante.
Quasi non riuscisse per l’affanno a replicare, durante e dopo le parole del padron giurato, si limitava ad annuire, con un ghigno e sfuggevoli occhiate, dirette ai colpevoli, che ne invocavano il castigo.

Dimitri il greco, detto Cleffino, pareva il più indomito.
Era l’unico a non aver voluto cambiarsi gli abiti. Aveva infatti lavato in fretta i vecchi e poi li aveva indossati ancora umidi.
Il respiro gli restava palpitante sotto la fascia rossa di fustagno che affiorava dal corpetto di pelle. Le grosse mani, che si protendevano dalle larghe maniche della camicia, strizzavano rabbiose l’aria e i lunghi baffi erano una metafora di zanne pronte a mordere.
«Gàidaros1 inveì contro Scarpin; poi, rivolto al capitano: «Escusi comandante, non parlo bene la vostra lingua, ma quel Gianni lì è un còiros 2! Voleva noi tutti morti di non bere.»

«In nome di nostro Signore Gesù Cristo,» intervenne il gesuita, che dal naufragio, oltre alla fede, aveva salvato anche la berretta di seta nera a tricorno che gli stava in capo, «siamo salvi! La Divina Provvidenza ci fece la grazia: permarremmo quaggiù qualche ora in più; e lor signori cosa fanno? Danno piglio alla violenza invece di rendere grazie al Cielo!».
«Insomma,» intervenne il capitano, «qui è andato a picco l’Ermagòra, un brigantino della nostra serenissima Repubblica; ci sono decine di cristiani morti e voi, come dice giustamente padre…padre?».
«Don Zenobio» suggerì il gesuita.
«Padre don Zenobio, appunto. Voi, dicevo, voi due signori, signor greco e signor tabarchino, vi accanite contro un cittadino della Serenissima, anziché gioire d’esser scampati alla morte, e mi raccontate poi di non esser riusciti a bere? Come avreste potuto bere in mare, a cavallo tutti quanti di una polena? Perché accusate costui di avervi assetati, anziché accusare il mare o l’implacabile sole d’agosto?».

«Lo spiego mi» intervenne il tabarchino «a voiotra Signoria illustre», e avanzò tenendosi nella mancina il polso destro, da cui affiorava una mano gonfia e paonazza, in contrasto col colore olivigno smorto della pelle e del capo pelato.
«Innanzitutto qual è il vostro nome?» chiese Dandolo perentorio.
«Mi chiamo Gianni, come quello là, onta della stirpe veneziana, che turco dovea nascere anziché veneziano. Gianni Canepa e son tabarchino, genovese d’Africa. Amico di Clettino, gran cuore greco, a cui detti ospitalità nella mia isola di Tabarca e che con me e gli altri qui presenti s’era imbarcato da Taranto sull’Ermagòra. Noi per altri affari, questi per raggiungere Creta e ripartir poi, dalla fortezza di Spinalonga, per guerreggiar contro il demonio turco, oppressoredi terre cristiane e predone del mare Nostru. Ma u Scarpin vostru ci volea far a tutti noitri le scarpe appunto! Ci fe’ patir ‘a sài 3! Niotri saiemu tutti morti de sài!».

«Di che?» chiese capitan Dandolo protendendo il viso verso l’ometto e corrucciando la fronte.
«Di sài, saite, insomma come si dice per farvela intendere?».
«Di sete» intervenne il giovane dalla chioma leonina, che sinora se n’era rimasto in disparte ad ascoltare attento.
«Voi sareste?» lo interrogò il capitano.
«Sono Jacopo Serrati, mercante di lane e stoffe, suddito del gran duca di terra Toscana, sua eccellenza Cosimo de’ Medici. E, se vostra signoria, data la mia spigliata favella natia e la mia pazienza nell’aver ascoltato tutto questo discorrere inconcludente, me lo concederà, vorrò raccontare per filo e per segno cos’è successo a noi sventurati nei tre giorni che passammo in mare, a cavallo di quel rudere di legno. Che sia benedetto quel bastone, scheggia del nobile brigantino Ermagòra, che cavalcammo sulle acque per tre giorni e per tre notti senza affogare».
«Ebbene ve lo concedo» gli rispose Dandolo, e poi ammonì: «E voialtri signori statevi zitti e lasciate parlare sor Jacopo».

«Io non so se il mar Ionio abbia mai visto una procella come quella, fatto sta che a poche ore dall’aver mollato gli ormeggi, sopraggiunta la notte, un vento titano e onde che si confondevano con montagne rovesciarono l’Ermagòra, che per cause oscure aveva iniziato a imbarcare acqua dalla chiglia.
Noi cinque, visto l’inabissarsi della nave, per non fare la fine dei topi in trappola, ci eravamo portati fuori, sul ponte, ma, per non essere sbalzati in mare, ci tenevamo abbarbicati agli alberi – chi a quello di mezzana, chi a quello di maestra e io a quello di trinchetto. La pioggia non solo cadeva su di noi, ci frustava, mentre le folgori scandivano i secondi che accompagnavano lo sprofondare di quel legno negli abissi. A un certo punto io vidi un lampo abbattersi sulla prua, a poca distanza da me. Poco dopo il brigantino iniziò a imbarcare acqua anche da là, sul davanti, dove la saetta gli aveva tagliato il muso. Prima che la nave venisse sommersa, mollai il mio palo e, per un tempo che mi parve interminabile, venni sciabordato come un burattino da quelle acque infernali, cercando soltanto di riprendere fiato non appena io potessi cacciare la testa fuori dall’onda. Quando il mare si acquietò, alla flebile luce delle stelle che tornarono a far capolino, vidi a poche bracciate da me sor Canepa tabarchino e il greco Cleffino avvinghiati al solo legno che dell’Ermagòra fosse rimasto a galla. Li raggiunsi, senza che inizialmente se ne accorgessero. Quando mi issai a cavalcioni su quel legno, lo fecero anche loro, e di lì a poco recuperammo a pelo d’acqua anche i corpi di don Zenobio e di messer Scarpin, che poi scoprimmo essere ancora vivi.

Arrivò l’aurora e, dal conoscerci solo di vista, passammo a raccontarci chi fossimo, mentre tutti e cinque ci trovavamo a cavallo di quella che era stata la polena del brigantino: un solido tronco conico la cui cima, un imponente leone alato di san Marco, era passato dal fendere il vento, indicando la rotta, a dare ospizio a cinque morituri,portandoseli a dorso. Prossimo al podice della belva argentata, sedeva messer Scarpin, dietro a lui don Zenobio gesuita, dietro a questi stavo io e, dietro a me, sor Canepa e infine il greco guerrigliero. Data la precarietà della nostra scialuppa, era difficile cambiare postura. Le gambe poi, dal ginocchio in giù, dovevamo lasciarle quasi tutto il tempo in ammollo, così come il leone veneto immergeva zampe e Vangelo, mentre sulle nostre teste, anche se coperte con stracci o cappelli, martellava, nelle ore pomeridiane, la rivalsa del sole sulla passata tempesta.

Il primo giorno e la prima notte, su quella bizzarra cavalcatura, passarono per noi sì con fastidio, ma non ancora con tormento. Il secondo giorno però, le cose cambiarono. Già dal mattino, avendo dormito pochissimo, per la paura che quell’abisso là sotto potesse essere il nostro anonimo sarcofago, ci sentivamo stanchi e ormai indolenti, anche a discorrere tra di noi. L’unica voce inarrestabile era quella di don Zenobio, che continuava a salmodiare e a sfogliare le paginette fradice e increspate del suo breviario.

Ben presto iniziammo a lamentarci per la fame e poi per la sete. La fame, dopo averci fatto mugolare i visceri, con la fierezza del Re di Franciaa cui si diserti un abboccamento, se n’andò sdegnata; ma la sete… quella no! con la tenacia d’un usuraio giudìo, presentava irriducibile il conto. Allora io dissi agli altri che, benché ciò potesse solo prolungare la nostra agonia prima della fine, a tracolla avevo una bisaccia piena del vin leggero delle mie vigne, che ero aduso a portare sempre meco viaggiando. Ne avrei lasciato sorseggiare a ciascuno giusto la quantità contenuta dal palmo concavo della sua mano.
E così tutti ne avemmo un sorso, che poco poco ci ristorò.

Giunse la notte e, vinti dalla stanchezza, riuscimmo un po’ a dormire, ciascuno caduto prono sul dorso di chi gli stava davanti e sor Scarpin sulla schiena del leone. Quando fu giorno, sempre con davanti quel deserto d’acqua e cielo, fame e sete tornarono ad affliggerci. Prima che qualcuno me lo chiedesse, sul volgere del mezzogiorno, offrii di nuovo, ai naufraghi compagni,il vino nel palmo, come la sera prima. E dopo che lo avemmo trincato, don Zenobio si rivolse a sor Scarpin in un modo che lasciò tutti perplessi.
Gli disse infatti: “Perché non vi conducete anche voi come messer Jacopo e dividete con gli altri ciò che avete?”
“E cosa g’ho mi più de voaltri? Furse la fam o la sete?” rispose il veneziano.
“Vi ho visto, sapete!?” replicò lesto il sacerdote, “Quando ancora non era giorno, voi stavate mangiando. Esurivi enim, et dedisti mihi manducare…” 4Sitivi et dedisti mihi bibere 5, com’ho fatto io con tutti voi” completai io la citazione evangelica.
“Appunto,” proseguì don Zenobio, che si era brevemente voltato con approvazione verso di me, felice di avere in simili circostanze un compagno di favella latina, “fate come recita il Vangelo di Matteo,” riprese in direzione di Scarpin,“dividete con tutti da buon cristiano e Dio ve ne renderà grazia, ché forse presto sarete al Suo cospetto”.

A queste parole, avvertii i due dietro di me agitarsi e presto passare a rivolgere contumelie contro costui che nascondeva il desinare. Dopo aver per un po’ sgomitato nel tentativo di allontanare le mani del tabarchino e del greco, che cercavano di strattonarlo passando sopra le spalle mie e di don Zenobio, mentre noi, dal canto nostro, cercavamo di riportarli a più miti consigli, sor Scarpin gridò: “Xiti! Fermi! Scolte’!” 6 e, acquietando gli animi con questo annuncio di un discorso incipiente, si distese poggiando il fianco sinistro sul dorso del leone per vedere tutti meglio con quella postura. Poi riprese: “G’ho co mi dea carne salada, ma no vea darò miga in cambio degnente. Mi so’ un mercante e so che el mondo pende da un piato de stadera. Tanto qua morimo tuti, e mi vojo morir mbriago, par patir de manco” 7 e rivolgendosi a me disse: “Se ti, toscan, te me dà el vin avansà, mi te do ‘a carne salada” 8.
Al che, io non sapevo davvero cosa rispondere.
I miei due compagni a tergo mi dicevano di non barattare; don Zenobio spostava lo sguardo da me a Scarpine riprese a salmodiare: “Domine Deus, amo Te super omnia et proximum meum propter Te…” 9

Dopo molto indugio, non fui io a decidermi, ma il veneziano a farmi una nuova proposta: “Ti, se te gheun fiorin de oro, ‘a monea toscana, ‘a metemo qua drento” e mostrò un piccolo fagotto di pelle chiudibile con una cordicella, “e ghe metemo anca na bea lira venexiana. Dopo te tiri su e…la moneda chea vien su la xe el voler de Gesù: si te tiri fora el fiorin te dago ‘a carne, coa lira teme de’ el vin.”10

Io, che di cibo non ne avevo quasi punto, ma di fiorini un po’ di più, accettai, e porsi a sor Scarpin la mia bella moneta d’oro, che risaltava accanto alla lira argentata, ma spenta dall’ossido, ch’egli mostrava tra le dita,voltatosi verso di noi. Preso ch’ebbe il mio fiorino, tornò a darci le spalle e appoggiò la bisaccia sul dorso del leone. Poi fece vista di aprirla e di mettervi le due diverse monete. Nel frattempo, don Zenobio si era sporto di sottecchi sopra le spalle del nostro amante della sorte e, riabbassatosi subito, si era messo a recitare ad alta voce, voltato a guardarmi, un salmo latino che giammai avevo sentito, né in Santa Maria del Fiore né in Santo Spirito oltrarno, né scritto sui Vangeli né in bocca di predicatore: “Fuscos tantum nummos in culleo posuit!”, ossia nel sacco ci ha messo solo monete scure.

E io, compreso dal messaggio in codiceavere lo Scarpin riposto solo ducati nella bisaccia, risposi,pur’io nell’antica favella, salmodiando: “Ora pro nobis ac ne hoc impedìeris!”11.
Così, quando Scarpin mi porse la sacca da cui estrarre la moneta, sotto lo sguardo sbigottito del nostro curato, io, facendo finta di niente, v’infilai la mano ed estrassi; ma, prima che si potesse vedere cosa avessi tirato su, mi feci cadere il metallo di mano lasciando che si perdesse negli abissi.

“La ghera ‘na lira, la g’ho vista!” 12 disse subito Scarpin, ma io lo contradii subito: “No, era un fiorino, era d’oro!”.
Sennonché, lesto come un fulmine, don Zenobio gli strappo la bisaccia dalla mano e disse: “Non è difficile sapere cosa ha estratto sor Serrati, basterà guardare cosa c’è rimasto qui dentro”. E così, signor Capitano, chi ci voleva far passare da bischeri, mettendo due lire in saccoccia e il mio fiorino nelle mutande, bischero fu».

Gli sguardi dei salvati e dei marinai presenti puntavano tutti dritti come sciabole sguainate verso il volto del mercante, che, in cerca di qualcosa da dire, dissentiva oscillando il capo.
«Siete un’onta per la Città che vi diede i natali!» affermò Dandolo, «avete comunque salvata la vita, ma non fate ch’io vi incontri di nuovo, né per mare né per terra».
E poi, sottovoce, «Slandron da ciapar a peae intel dadrìo!»13


[1] Lett. “asino”

[2] Lett. “maiale”

[3] Lett. “sete”

[4] Vangelo secondo Matteo 25.35: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare”

[5] Ibidem: “Avevo sete e mi avete dato da bere”

[6] “Zitti, fermi, ascoltate!”

[7] “Ho con me della carne secca, ma non ve la darò certo in cambio di niente. Sono un mercante e so che il mondo pende da un piatto di stadera (antica bilancia portatile usata dai mercanti N.d.A.) Tanto qua moriremo tutti, e io voglio morire ubriaco, per patir meno”

[8] “Se tu, o toscano, mi dai il vino rimanente, io ti do la carne secca”

[9] Dalla preghiera cattolica Atto di carità: “O Signore, ti amo sopra ogni cosa e il mio prossimo accanto a te”

[10] “Se hai un fiorino d’oro, la moneta toscana, la mettiamo qua dentro, e ci mettiamo anche una bella lira veneziana. Dopo tu estrai e… la moneta che ne esce è il volere di Gesù. Se tiri fuori il fiorino ti darò la carne, con la lira tu mi dai il vino”

[11] “Prega per noi e non fermarlo”

[12] “Era una lira, l’ho vista!”

[13] “Lazzarone da prendere a calci nel deretano!”

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Primo indizio

di Stefania Coco Scalisi

Illustrazione di Serena Saia

Parola in codice: rosso di sera.

Chissà perché avevano scelto quelle parole, ma a quel punto non si poneva più molte domande.
Forse era stato il fatto che da mesi i colori erano diventati la chiave di volta per capire il tuo grado di libertà: giallo, tutti a fare i brunch; arancio, inizia a sfogliare il catalogo Netflix; rosso, riprendi in mano quel lavoro all’uncinetto che avevi iniziato l’anno prima.

Poi però, era venuta a sapere di quella forma di ritrovo clandestina, una cosa molto esclusiva, dei bar mobili, stile speakeasy, che agli eletti in grado di trovarli e pronunciare la parola segreta, schiudeva le porte di un aperitivo sorseggiato con calma, con musica di sottofondo e barista pronto a fare il pieno a un tuo cenno della testa. Galvanizzata dalla sensazione di essere una newyorchese pronta a sfidare le rigide regole del proibizionismo, prese il suo vecchio motorino e si mise alla ricerca di quel santuario del piacere.
Ma non aveva molti dettagli,  le era stato solo detto che il luogo si trovava accanto a un obelisco e che la parola in codice era “rosso di sera”.

Con un misto di perplessità ed eccitazione per quell’inutile vaghezza nelle indicazioni, iniziò a peregrinare per le strade della città vuota.
La vespa, ormai sempre parcheggiata, iniziò a borbottare infastidita da tutta quell’attività che di colpo le era richiesto di fare.
Ma non le importava, voleva un Manhattan e avrebbe attraversato i chilometri a piedi, se necessario, per averne uno.
L’unico problema era però che non aveva idea di dove si potesse trovare un obelisco. Lei in tanti anni non ne aveva mai visto uno. Ma se avevano parlato di un obelisco doveva per forza significare qualcosa. Cercò su Google, ma di obelischi neanche l’ombra.
Rilesse attentamente il messaggio che aveva ricevuto quella mattina, ma niente, c’era solo scritto: “Obelisco. Rosso di sera”.

Perse una decina di minuti per raggiungere un posto dove era quasi sicura di aver visto una cosa che ricordava un obelisco, ma con sommo disappunto si accorse essere invece una pagoda all’ingresso di un ristorante cinese, maledetta memoria che si inventa le cose per farti felice. Senza più idee, si rivolse a un passante. 
Quello vedendola, fece un balzo all’indietro.
Ed in effetti, tra casco, occhiali da sole e mascherina, poteva sembrare una tipa poco raccomandabile.
Realizzato il malinteso, il signore si offrì di aiutarla.

«Obelisco, dice? Mhmm, non so se si può aiutarla, ma mi pare di ricordare un obelisco vicino lo Stadio, dall’altra parte della città».
Ma si certo, come aveva fatto a non pensarci prima?
L’obelisco vicino allo stadio!

Senza perdere altro tempo, mise il turbo alla vespa e partì.
Le strade erano vuote e l’unico rumore che sentiva era quello del motore a scoppio e del vento sulla faccia.
Passò i semafori, tutti verdi, felici come lei per quella piccola gioia che stava per ricevere.
Vide da lontano una volante della Polizia, rallentò per evitare problemi.
Ma quelli erano distratti e non si accorsero neanche del suo passaggio.
Accelerò di nuovo. Nel giro di pochi minuti, vide lo stadio.
Parcheggiò.

Cercò con gli occhi l’obelisco, ma l’unica cosa che vide fu una mezza colonna rotta.
Ricontrollò sul cellulare la foto di un obelisco.
Non è che ci assomigliasse molto, ma magari era solo rotto. Magari se ci fosse stata la punta, allora si che poteva essere un obelisco.
C’era solo una casa, accanto il quasi obelisco.
Suonò.

Rispose una voce maschile, vagamente impastata, magari proprio dall’alcol:
«Chi è?»
«Rosso di sera»
«Chi è?»
«Rosso di sera!» urlò più forte.
«Bel tempo si spera. Arrivederci!»
«Aspetti, non è questo il bar…».

Terminò la frase per se stessa.
L’altro le aveva chiaramente chiuso il citofono in faccia.
Sconsolata andò verso la vespa. Mentre agganciava il casco, sentì una leggera vibrazione del cellulare. Lo prese, vide un messaggio: “Piramide. Blu notte”.

Sorrise.
La caccia ricominciava.

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