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di Rachele Fattore

Illustrazione di Anastasia Coppola

Metà reportage di viaggio e metà mappa dell’anima del suo autore, Balkan Circus, edito da Ediciclo Editore nel 2013, è un’esperienza che racconta i Balcani come un cuore dell’Europa ancora tutto da scoprire.

Per chi ama le mappe.

Non è cosa per tutti ma la fatica sarà ricompensata.
Sono posti insoliti quelli visitati dall’autore, inutile nascondere che serve una bella mappa sulla quale resettare la bussola. Anche un buon dizionario etimologico sarebbe di aiuto, ma questa è una finezza da linguisti.
Fiumi, vallate e montagne, bettole e biblioteche antiche: una lettura che solletica la fantasia e anche la voglia di viaggio.

Per chi non teme andare oltre il confine.

Questa serie di racconti è, come racconta il titolo, un circo balcanico.
Sono incontri, voluti o inaspettati, che portano nella vita dello scrittore un continuo arricchimento.
Al di là di confini e guerre, di fazioni, vinti o vincitori, il messaggio umano di queste storie è forte ed estremamente attuale per la crudele e sempiterna attualità delle guerre e delle dinamiche di confine.

Per chi ama percorrere strade secondarie battute dai venti.

Massacri e fosse comuni, eccidi che dividono come lembi di una ferita insanabile, terremoti che uniscono. I racconti di Balkan Circus rappresentano un reportage di viaggio narrativo ricco di lirismo e di descrizioni generose di profonda conoscenza sia della lingua sia della storia. Fitti di note emotive e sensoriali, ci portano ad esplorare luoghi sperduti, spesso oltre il confine dell’immaginario. Le suggestioni degli elementi balcanici mescolano eroicità, furore, attaccamento alla terra, nostalgia, necessità di abbracci e presentano anche conti salati.
Una camera oscura dell’Europa dove luce e buio creano alchimie.

Il Tram-E non si ferma mai: qui trovi tutte le fermate!

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di Davide Paciello

Illustrazione di Francesca Bosco

Alla fermata del tram due giovani amanti si baciano.

Da piccolo pensavo che l’amore dovesse essere qualcosa di puro, assoluto, incondizionato: ma quel tipo di amore solo un Dio può darlo.

L’amore, ripulito da fantasie e chimere, non è altro che il difficile e improbabile equilibrio tra natura e cultura. Non una forza eterea, ma viscerale, basata su degli interessi specifici e materiali.
È meno romantico, ma più concreto.

Certo, un equilibrio di contingenze, resta un fenomeno raro come la vita nell’universo.
Nella maggior parte dei casi le coppie sono in bilico tra la rappresentazione sociale e la paura di restare soli. Né amore né odio, ma condiscendenza e rassegnazione, una vita di quieta disperazione, direbbe qualcuno.

Si indossano le relazioni così come è socialmente accettabile ed ecco che convivere diventa un’abitudine: l’abito sporco di un’esistenza grigia.

Arriva il tram del ragazzo. Si salutano.
A scommettere su di loro direi: una settimana di sesso, poi il silenzio imbarazzante e infine il disprezzo. Ma ora sono la coppia più bella e innamorata del mondo contro degli ipotetici altri, gelosi e invidiosi.
Se fossero più onesti tra loro e chiudessero il mondo fuori si godrebbero una settimana di puro piacere per salutarsi con stima.

Dal canto mio ho messo un guardiano ad ogni istinto, ho dissezionato ogni infatuazione e capitanato i miei desideri come Ed Smith col Titanic: ho trasformato il viaggio della vita in una corsa a qualcosa che non c’è, circondandomi di ghiacci invisibili. Se avessi diviso il piacere dall’amore magari avrei scopato di più e migliorato una mezza giornata a me e ad un’altra persona.

Smetto di guadare la ragazza per paura si scambi il mio riflettere sulle ingenuità della giovane con il desiderio di predazione.

Il sesso è centrale nella nostra società, patriarcale ed eteronormata e non riguarda il piacere: quello sì che sarebbe puro.
No, il sesso riguarda il potere: quanto scopi e con chi lo fai.
L’espressione di un rapporto di forza tra un soggetto attivo, il maschio ed uno passivo, la femmina.
Non importa neanche che tu lo faccia il sesso, quel che conta è come gli altri interpretano la tua vita sessuale.

Al netto delle pulsioni, non sto costantemente a pensare al sesso e mi scoccia parecchio muovermi in un mondo che mi manda in palestra e a ballare, mi fa studiare l’oroscopo e la cultura pop, mi fa tatuare e bere il sabato sera, solo per aumentare la mia scopabilità, le mie chance di fare sesso.
Un’intera vita piegata alle esigenze della selezione sessuale perché, in fondo, è l’unico metro di giudizio che abbiamo.

Se il tram arriva in tempo prendo la pizza per stasera e con la mia compagna ci vediamo un film brutto. Se dopo scoperemo non è importante.
Ci diamo abbastanza piacere già a condividere le cose.

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Pulmino Giallo View More

di Luca Turci

Illustrazione di Liliana Brucato

Quando i suoi amici tornavano a casa, Carlo rimaneva solo nel pulmino giallo ad aspettare la sera.

In cuor suo sapeva benissimo che se non ci fosse stato quel pulmino giallo senza ruote parcheggiato nel retro del cortile di casa, non avrebbero mai rischiato di andare a trovarlo.
Carlo aveva sentito spesso gli adulti parlare male della sua famiglia e i genitori dei suoi amici non erano da meno, alcuni non si curavano nemmeno di abbassare la voce in sua presenza.
Era come invisibile per loro, anzi peggio, era un essere inanimato, senza emozioni, di cui non darsi tanta pena.

Carlo non sapeva molto dei suoi genitori, a lui non parlavano.
Nemmeno se rivolgeva loro delle domande.
Per esempio non aveva la benché minima idea del perché avessero quel rottame dietro casa, ma in fondo l’importante era che ci fosse, almeno questo andava bene così.

La TV a casa di Carlo era un altro rottame, funzionava sì, ma non bene.
Metà schermo diventava spesso verde e se ogni tanto gli davi delle botte di lato tornava normale.
Altre volte le immagini si rovesciavano e in quel caso l’unico modo per continuare a vederla era tenerla spenta per un po’. Queste erano tutte cose che aveva visto fare a suo padre, tra una bestemmia e l’altra. In fondo, anche lui, qualcosa glielo aveva insegnato.

Un giorno, Antonio, quello che riteneva il suo migliore amico, all’uscita dalla scuola lo aveva invitato a pranzo a casa sua per vedere insieme i cartoni animati. Finalmente Carlo avrebbe potuto guardare Kenshiro e I Cavalieri dello Zodiaco senza doversi mettere a ricostruire i fatti accaduti nei momenti di buco video.
Era felice, non vedeva l’ora.
In quella casa però, quel pomeriggio Carlo ci era entrato e uscito nel giro di pochi secondi.

La madre di Antonio aveva davvero un bel sorriso, ma dopo averlo visto in compagnia del figlio, quel bel sorriso le era come morto sul volto, un giglio bruciato dal napalm.
Aveva posato la mano sulla schiena di Carlo e, senza dire niente, lo aveva spinto fuori e aveva chiuso la porta alle sue spalle.
Con Antonio poi, non ne avevano mai parlato.

Dopo quell’episodio però, ogni tanto, Carlo nel suo pulmino giallo pensava alla mano di quella donna che gli si posava sulla schiena e lo spingeva fuori di casa e l’assurdo è che gli veniva da sorridere, perché nel frattempo pensava anche: ah ecco.
Ah ecco, questo è il tocco di una madre.

La madre di Carlo se ne era andata di casa ormai da anni e lui ne ricordava solo le grida che di tanto in tanto risuonavano ancora nelle sue orecchie. Nonostante tutto immaginava spesso che un giorno entrasse nel pulmino, si guardasse intorno e poi, nello scorgerlo, sorridesse come la mamma di Antonio: ah ecco dove sei.
Ti ho trovato figlio mio.

Dopo che se ne era andata, suo padre aveva passato giorni interi a bere (e bestemmiare) seduto sulla poltrona in salotto. Poi una sera aveva avuto un’idea geniale ed era uscito di casa, si era piazzato sul bancone di un bar e quella era diventata un’abitudine fissa. Se gestori o camerieri non lo avessero cacciato a turno, sarebbe rimasto là anche di notte e la mattina dopo, come la spillatrice, come i boccali, come le sedie o i tavoli, come parte dell’arredamento di quel locale.
Sicuramente, almeno chi ci lavorava, si era abituato a vederlo là e lo considerava ormai tale: veniva messo fuori addirittura dopo la spazzatura.
Ah, già, l’ubriacone. Forse, suo padre, sentiva solo di appartenere finalmente a qualcosa.

O per lo meno questo è quello che pensa Carlo.
Sono anni che non varca il cancelletto pieno di ruggine di quella casa e non mette piede in quel cortile: è rimasto tutto uguale, a parte l’erba alta e i segni di usura, come la vernice gonfia ed esplosa sulle pareti, o qualche tegola spaccata in terra; forse c’è meno tristezza, o un tipo di tristezza diversa, che aleggia nell’aria come un filtro fotografico anni ottanta di Instagram.

Malinconia, sì, ecco la parola giusta. Malinconia.
Perché nonostante tutto, a Carlo, ora, quei tempi mancano e si rende conto che, anche dopo tutti questi anni passati, è ancora quel ragazzino solo che attende la sera dentro un pulmino giallo.
Che attende la notte, i sogni, che tutto passi e si torni a scuola.

Dentro la scuola, dentro il pulmino, dentro il grembo di sua madre.

Tutte le persone, sentendo la sua storia, concludono quasi sempre con: è incredibile come nonostante tutto tu sia venuto su così bene.

Così bene.
Nel sedile in fondo, Carlo guarda dritto a sé e strofina la nuca sul vetro: i suoi capelli raccolgono polvere e sporcizia, ma a lui non interessa. A lui interessa solo tornare indietro, ripercorrere con la memoria il tempo a ritroso, ritrovare i volti dei suoi amici e cercare di capire. Capire se senza quel pulmino giallo che diventava base, nave spaziale, galeone o rimaneva anche un semplice autobus, lo avrebbero accolto O accettato.
Come amico, come essere umano, come loro simile: cosa che i loro genitori non ritenevano evidentemente lui fosse, pensiero con il quale ha dovuto scontrarsi tutta la vita, ogni volta che conosceva persone nuove, fino a riuscire a domarlo.
Ad abituarsene.

Così bene.
L’unica colpa di Carlo era stata quella di essere nato figlio di quei due, due persone sole e tristi, due persone che molto probabilmente avevano avuto bisogno di aiuto e non ne avevano mai trovato.
Due persone che vorrebbe odiare, ma così simili a lui, troppo simili a lui.
Lui che ora non riesce a legare la sua vita con nessun’altra e li comprende sempre di più: le uniche persone simili a lui sulla faccia della terra. Due persone che ormai non ci sono più e gli hanno lasciato quest’eredità così pesante sulle spalle.
E un pulmino giallo.

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di Rachele Fattore
Illustrazione di Anastasia Coppola


Edito da Iperborea, “La saggezza del mare” è quasi un diario di bordo interiore tenuto dallo scrittore svedese in un periodo passato a navigare senza soste.


Per chi soffre il mal di mare

Pare che i portolani siano carte per sognatori.
Per chi soffrisse il mal di mare, seguire le tappe del Rustica potrebbe essere un buon modo per levare gli ormeggi. Basta scegliere un porto impostare una velocità di navigazione a nove nodi e abbandonarsi alle pagine.

Per chi non teme le tempeste ma sa fare i conti con la propria esperienza.

Motivazione della sentenza: Il Signor Larsson non vuole che altri decidano cosa deve fare.

Così, all’età di diciott’anni, si manifesta in maniera plateale il rifiuto per gli obblighi e le convenzioni che porterà l’autore lontano dagli schemi di una vita tradizionale. Un biglietto di sola andata per Parigi, un treno e una vendemmia per pagarsi una chambre de bonne. Inizia la ricerca di libertà, il vagabondare per il mondo “senza fissa dimora”, l’affidarsi agli elementi come termometro del proprio benessere. Larsson racconta in prima persona traversate ed ormeggi nel mare del Nord. Sono le riflessioni e le tappe del viaggio interiore ad ammaliare come sirene.

Tra mare, terra, whisky e caffè

Questo romanzo non è solo mare, è anche terra ben salda.

Terra, mare e quella necessità di partire. Ma anche di avere un porto e un altro ancora unite alla malinconia degli incontri fugaci e all’inquietudine sottile e costante propria dell’essere umano. Un romanzo fatto di incontri e di osservazioni: pescatori bloccati in porto da onde troppo alte, giovani fuggiti alla prigionia delle petroliere che si improvvisano navigatori e suonano la chitarra per le strade di Lisbona e colleghi di navigazione. 

Si entra nei pensieri del narratore come se si fosse seduti con lui in pozzetto a discorrere tra una tazza di caffè e un bicchiere di whisky, carezzando la brezza leggera e discontinua.

Quando non c’è nessuno che ti aspetta dall’altra parte dell’orizzonte e i piani possono essere cambiati in ragione delle condizioni del mare e dei propri desideri, allora anche una notte in più in un porto rimane la libertà di poter partire quando si decide di farlo.

Fortuna, insperate opportunità e provvidenza: servono tutti questi ingredienti per riuscire a tornare in porto quando l’esperienza non basta, ricordando che in mare si possono dimenticare le proprie ansie e quelle del mondo, ma che questo non aiuta a risolverle.

Nessun romanticismo: il mare non perdona

Nelle notti in cui la stanchezza si fa sfiancante si deve combattere con la propria coscienza per uscirne vivi. Navigare non è cosa per tutti: ci sono acque piene di correnti dove bussola e solcometro non servono; c’è quello che le carte nautiche non segnano come navi container e piattaforme di trivellazione che si materializzano in visioni notturne prive di profondità; traversate più dense di masochismo che di piacere. E quel pericolo che paradossalmente aumenta con la vicinanza della terraferma. Bisogna dunque affrontare il viaggio con profonda umiltà, conoscendo e accettando i propri limiti e godendo di quello che, scampata la morte, si impara di sé stessi.

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di Davide Paciello
Illustrazione di Francesca Bosco

Alla fermata del tram, un gruppo di adolescenti e testimoni di Cristo.

Gli adolescenti sembrano individui senz’anima, ingoiati dallo sforzo disumano di crearsi una propria identità all’interno di un mondo ostile. Iniziano il loro personale “viaggio dell’eroe” alla ricerca di sé: coraggiosi o vili, buoni o cattivi, intelligenti o stupidi? Come si riveleranno alla fine?
Per ora sono solo un insieme indistinto di modi di dire e di fare, di atteggiamenti.
Proteggono una personalità incerta con l’adesione ad un gruppo.

Il problema è che, l’adesione ad un “noi”, per superare l’impotenza di un “io”, è caratteristica anche di questi adulti predicatori del Signore.

Metto le cuffie, per rendere esplicito il mio non voler interagire.

Ah, i gruppi, rifugio delle identità fragili.
“Non sai come vivere la tua vita? Unisciti a noi!” “Ti piace usare la Forza per scopi personali ma non ti senti accettato dai Jedi? Diventa Sith!”.
I “noi qualcosa” dominano le nostre vite, da WA a Telegram esiste un gruppo per chiunque e per qualsiasi cosa. “Noi LGBTQIPlus”, “Noi vegan”, “Noi italiani”, “Noi della domenica in bici”…
Noi chi?!

Quando la discussione prevede un “noi” contro “voi” è guerra.
L’empatia rallenta il desiderio di fare del male al prossimo, ma se il prossimo è un gruppo beh allora non sto attaccando una persona, ma un concetto.

Arrivano altri personaggi cantando inni di calcio.

Ultras, diversi per età, professione, ceto sociale e culturale, ma uniti nell’adesione incondizionata e irrazionale ad una squadra di proprietà privata in cui giocano uomini, di diversi Paesi, per meri motivi economici. Non ho mai capito questa fedeltà e fede cieca in qualcosa di assolutamente astratto, che siano i romanisti, i cattolici o i fan di Star Wars. Per non parlare di quelli la cui vita è così vuota che solo la fedeltà ad un brand riesce a giustificarla: uso solo WA, ma che faccio, non mi compro l’intero set Apple? Altrimenti come dimostrerei la mia fedeltà?!

Perché il problema dei gruppi è che devi sempre dimostrare di esser degno di appartenervi.
Si pensi al maschio cis etero bianco: passa una ragazza e parte lo schema comportamentale atto a dimostrare che appartiene ad una casta privilegiata, riverita e forte.
Le regole del gruppo sono chiare: manifesta sempre la tua eterosessualità e mascolinità; considera le femmine oggetti; la femmina è debole, zoccola o madre amorevole. Non importa la reazione di lei alla molestia, quello che conta è l’aver dimostrato a se stessi, e al gruppo, di essere un vero maschio.

Mi alzo dalla panchina in un moto di ingiustificato ottimismo.

Per quanto dimostri fedeltà al gruppo ti verrà sempre richiesta una nuova prova perché chiunque è pronto ad accusarti di eresia o apatia.
Il “gruppo” non è reale.
Il gruppo è un’invenzione delle personalità fragili e ognuno ci riversa dentro quello di cui ha bisogno, ogni individuo è fragile in modo diverso.
Se due individualità emergono con una propria personalità, allora ci sono solo due possibilità: o sei Stalin o sei quello con la picconata in testa.
Se sei il primo, però, diventi il gruppo e passi dall’essere una persona all’essere un personaggio, costretto a portare avanti la recita fino alle estreme conseguenze, a volte fin oltre la morte.
“Gesù, salvati dalla croce”, “No raga, ormai la cosa c’è sfuggita di mano, me tocca farme ammzzà, ma ricordate: chi nun me segue è n’infame!”

Mi guardo intorno aspettando che arrivi il tram…o lo zio di Christian de Sica col piccone.


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Oggetto volante identificato View More

di Mario Greco

Illustrazione di Dalila Giuliano

Mio padre fa il camionista.
Adesso che è finita la scuola, mi porta sempre con sé nei suoi lunghi viaggi.
Ultimamente, sta trasportando finocchi. Quando lo dico, i miei amici si mettono a ridere: «Lo sappiamo, lo sappiamo benissimo che trasporta finocchi» dicono.
Mi prendono in giro. Mi prendono in giro anche quando dico che da grande vorrei fare l’astronomo.
Tra qualche giorno compirò gli anni: «C’è un regalo che desideri?» ha chiesto mio padre «Vorrei un telescopio» ho risposto io.

Lui mi ha guardato, mi ha dato un buffetto sulla guancia e si è messo a ridere. 
Ridono tutti, anche quando non c’è proprio nessun motivo per farlo.
Mio padre e mia madre si sono separati, già da un anno ormai.
Io vivo con mia madre, ma per tutto questo mese starò con mio padre, a casa dei nonni.

Oggi siamo diretti in un grosso mercato ortofrutticolo di Roma: «Non di Roma centro, naturalmente» precisa mio padre.
«Che peccato!» dico io. Non ho mai visto Roma e con questo Tir non possiamo certo andarci.
Oltre all’astronomia, mi piace la storia.
So a memoria tutti e sette i re di Roma. Mio padre si ricorda soltanto di Nerone, e quando gli faccio notare che Nerone non era un re, ma un imperatore, lui fa: «E qual è la differenza?»

Mi piace viaggiare, sto sempre attento alla strada, al paesaggio.
I campi, i rotoli di fieno, le mucche al pascolo, gli alberi, i paesini appollaiati sulle colline, i ruderi di qualche castello. C’è molto traffico, oggi. Gente che torna a casa per le feste e camionisti, tanti.
L’altra sera mentre sostavamo nel parcheggio di un autogrill parlava di donne con altri camionisti.
Di prostitute.
Il nostro camion è addobbato come un albero di Natale: luci colorate dappertutto.
Sul cruscotto c’è una di quelle calamite con l’immagine di San Cristoforo e la scritta “Ovunque proteggimi”. Mio padre vuole che parli, così non gli viene sonno.
Io oltre a parlargli della storia di Roma, gli parlo dei pianeti e delle stelle.
Quando è buio e siamo fermi in qualche piazzola cerco di fargli vedere il Grande Carro, la Stella Polare, Cassiopea, Arturo…
Gli dico che sicuramente ci sono altri mondi lassù, altre forme di vita.
«Alieni?» chiede lui. «Sì» dico io: «Alieni, extraterrestri, chiamali come vuoi».

Arriviamo vicino Roma, usciamo dall’autostrada e ci fermiamo a mangiare in una piccola trattoria, nei cui pressi c’è un grosso parcheggio per i Tir: «Vuoi una birra?» chiede mio padre.
Sa che non mi piace la birra, che sono ancora troppo piccolo per berla, ma me lo chiede lo stesso.
Dopo mangiato, andiamo a dormire nel camion. Mio padre dice che Roma è a pochi chilometri da dove siamo adesso. Cerco di immaginarla, la “città eterna”, con tutte le sue luci, i monumenti illuminati.

Poi chiudo gli occhi e succede una cosa strana: sento che il camion si muove e comincia piano piano a ruotare su sé stesso, come una trottola, e poi si solleva e inizia a salire su, verso il cielo.

Mio padre non mi sente.ù: «Che sta succedendo?» gli chiedo, ma lui non mi sente.
Lo sterzo si muove da solo, come se a guidare ci fosse un fantasma. 
In un attimo siamo su Roma. Tutta la città sotto di noi. Un mare di luci. Il nostro camion non emette più il classico rombo, ma un sibilo appena percettibile.

Ci abbassiamo e voliamo al di sopra dei tetti, al di sopra del Colosseo, del Fori Imperiali, delle Terme di Caracalla, del Tevere… poi mio padre mi scuote. Dice che è fatto giorno.

«Papà, ho fatto un sogno» gli dico: «Ho sognato…», «Me lo racconti dopo» fa lui.
A lui non piacciono i sogni, si rifiutava sempre di ascoltare quelli che faceva mamma, che per la verità non erano mai dei bei sogni. Entriamo nel bar che sta accanto alla trattoria, e mentre mio padre scherza con la barista, il mio sguardo cade sul titolo di un giornale che sta sfogliando un signore seduto a un tavolino.

C’è scritto: AVVISTATO UN UFO SUL CIELO DI ROMA.
E c’è una foto. Un oggetto volante che somiglia molto al nostro camion.
E io dico: «Papà, papà, guarda, il nostro camion», ma mio padre non si volta, continua a fare lo scemo con la barista, come se io non esistessi, come se stessi ancora lì, nel camion, a dormire.

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di Davide Paciello
Illustrazione di Francesca Bosco

In attesa del tram mi accorgo di una macchina parcheggiata davanti la rampa per disabili sul marciapiede difronte.

Le persone sono capaci di cose orribili e disgustose anche per i motivi più assurdi, ma c’è solo una tipologia umana che merita la pena di morte: quella degli stronzi.

Ci sono persone che hanno bisogno di rieducazione e riabilitazione, ci sono altre che ci permettono di sondare gli abissi della psiche umana e poi c’è chi posteggia sulle strisce o al posto per disabili o blocca il traffico per parlare con amici. Questa gente non è cattiva, psicotica, in gravi contingenze o priva di mezzi, ma è stronza.
Non puoi rieducare un soggetto che antepone, alle norme della vita civile, la propria pigrizia e arroganza.

Passa il tram per la direzione opposta alla mia mentre una “Karen” si mette nell’auto incriminata.

“Karen”: donna cis, cristiana, bianca, etero, di mezza età e di estrazione medio borghese che considera se stessa il metro di misura della normalità.
Il suo immaginario è fatto di stereotipi di genere, di valori conservatori e di libri per donne represse, disperate e semi-analfabete, come del resto è lei. Cagna da guardia del patriarcato sogna di fare la mantenuta e, finché non si scopre, le vanno bene i “puttan tour” del marito tra trans e mignotte.
Il suo atteggiamento verso i diversi da lei oscilla tra il paternalismo spinto, per i “poveri non civilizzati negri”, e il disprezzo esagerato, per i “puzzolenti zingari ruba-bambini”.

Avvia la machina e se ne va, mentre io aspetto.

Esistono cinquanta sfumature di Karen: dalle catechiste analfabete la cui idea di cattolicesimo è “no froci, no aborto”, alle casalinghe che “devono fare tutto le figlie femmine”, alle divorziate sempre a caccia di un uomo che le mantenga. Le Karen che fanno carriera politica nelle file della destra reazionaria, le Karen pseudoliberali del tipo: “io sono femminista, ma, cara, te la sei cercata”. E non dimentichiamo la gioia dei camerieri «possiamo avere il tavolo fuori? Ah, ma fuori fa freddo e piove, preparaci il tavolo dentro… ah, ma ha smesso di piovere, può apparecchiare fuori per favore?», e ovviamente mai una mancia.

Continuo a guardare la discesa per disabili libera.

Da piccolo chiesi a mio padre perché non sopprimevamo i portatori di handicap, mi facevano tanta tristezza, e lui mi rispose che non stava a me giudicare la vita degli altri decidendo lo standard della felicità altrui. Dopo qualche anno tornai perfezionando la mia domanda: «Papà, perché non abbattiamo tutti quei soggetti che non sono in grado di produrre alcunché?», e lui: «Perché una società si misura dalla sua capacità di prendersi cura dei soggetti più fragili, non dalla sua produzione». È questa non era solo una massima culturale, ma una legge biologica: la cura del prossimo, in particolare del più fragile, migliora la sopravvivenza della specie e la qualità della vita generale.

Quindi, non posso che convincermene: chi occupa la rampa per disabili, le strisce pedonali o parcheggia come se fosse l’unica persona sulla strada, è nemico della specie più che della civiltà.
Finalmente ho trovato una categoria da eliminare.

Un’altra macchina occupa il posto e il mio tram non arriva.

In un solo colpo, il macchinone, occupa marciapiede, rampa, strisce e strada.
Esce dall’auto un signore over sessanta con un sorriso da marpione e l’aria di chi ostenta l’auto nuova per nascondere la sua insicurezza sessuale.
Va al tabacchino, probabilmente a comprare un pacchetto di sigarette, causa dell’impotenza, e un gratta e vinci: hai visto mai?

Stai ancora aspettando il tram? Allora torna alla fermata precedente!

Lisbon tuk tuk - Ottavia Marchiori View More

di Silvia Roncucci

Illustrazione di Ottavia Marchiori


Le lancette del mio vecchio orologio sobbalzano mentre marcio verso il ristorante dove i Soares aspettano da più di un’ora. Dietro di me c’è Alba, a chiudere la carovana Massimo che zoppica.
Quando ci impantaniamo in un ritardo africano dipende da un motivo e nel nostro caso ha un nome, e di certo anche un cognome che però non ho avuto la prontezza di chiedere.

A ogni proposta di visitare la nostra amata Lisbona, Alba ci guarda come se la invitassimo a scalare l’Himalaya a piedi nudi. Ma quando ha saputo che c’è stata Greta, l’amica “figa”, ha deciso di accontentarci. Peccato che si alzi quando le portiamo il pranzo, esca all’imbrunire per via dell’afa e sbuffi davanti a ogni salita superiore all’un per cento di pendenza.
Per questo ho pensato al Tuk-tuk.

«Non è troppo da turisti?» ha detto Massimo.

Devono essergli venute in mente le nostre camminate giovanili su e giù per la Mouraria: le gambe indolenzite, il fiato mozzato, fare l’amore in barba all’acido lattico.

Ho insistito per la bimba. Ha tredici anni la bimba.
Con la promessa di tornare in tempo per il terzo shampoo della giornata, otteniamo da lei il nulla osta a prenotare un giro con Lisbon tuk-tuk.

L’asfalto di piazza Marquês de Pompal ribolle sotto i sandali, perciò saltiamo volentieri sullo strombazzante Tuk-tuk che arriva avvolto in un polverone grigio.
Al volante c’è un tipetto con il volto invaso da una barba riccia e brizzolata, il cappello sugli occhi, le lenti a specchio.

«We go to elevador da Bica?» chiede. Sorride.
Tra i denti ha qualcosa di giallognolo.

Massimo risponde di sì e si mette in mezzo, perché Alba vuole stare di lato per i selfie, ma il veicolo si abbassa sotto il suo peso: è un po’ ingrassato dai tempi della Mouraria.

«Come si chiama? È di qui?» chiedo.
«Soy Diogo. Of course» risponde.
La mescolanza linguistica però non mi convince.

Diogo ci tiene a mostrare ogni singola pietra del percorso, tanto che impieghiamo quaranta minuti ad arrivare. L’unica a gradire il passo processionale è Alba, forse perché assicura sfondi non troppo mossi.

Finalmente Diogo si ferma e si schiarisce la voce: «Elevador muito antigo and…»
«Grazie, ma non abbiamo tempo. Possiamo continuare?» lo interrompo.
Abbassa le lenti. Ha gli occhi verde oliva, quasi gialli. Come la roba tra i denti.
Fatico a sostenere il suo sguardo. Mi viene il dubbio che provenga da qualche stato del Sudamerica dove le offese si lavano col sangue.

«Como quiser».
Riavvia il Tuk-tuk e dà un’accelerata.

Ora so che, in punto di morte, è proprio vero che tutta la vita ti scorre davanti.
Nel quarto d’ora successivo Diogo affronta curve, salite e discese sollevando almeno una delle ruote posteriori. Rivedo la mia infanzia, il giorno della laurea, Massimo assunto alla ASL, la nascita di Alba quando andavo per i quaranta, la mia cattedra invasa dalle carte. Ogni tanto il film si interrompe ma non c’è la pubblicità, bensì il selciato a onde di Praça Rossio a un centimetro dal mio viso, Massimo con una mano sulla bocca, o Alba che grida che le foto così escono male. In sottofondo colgo descrizioni frammentarie «arco rua Augusta… muito antigo…» finché, a Nossa Senhora do Monte, il veicolo inchioda e per poco non ci sbalza in avanti.

«Photos!» fa Diogo e indica il belvedere.
Sto accarezzando l’idea di scappare, quando Massimo mi tende la mano per scendere.
Subito Alba inizia a dirigerci come una troupe, ma appena Diogo ci richiama con un fischio io e lei saltiamo su prontamente, mentre Massimo è costretto a inseguirci.
Salendo guaisce e si tocca la caviglia.

Diogo guida in maniera impeccabile fino al Museo del fado dove si ferma per offrirci un bicchiere di ginjihna.
Davanti allo sbadiglio spudorato e al gesto di rifiuto di Alba, mugugna qualcosa, ci guarda di traverso e domanda che lavoro facciamo.

«Io sono insegnante e lui pedagogista» dico.
I suoi baffi sono folti, ma capiamo lo stesso che se la ride lì sotto.

Ripartiamo in silenzio.
Dico ad Alba di mettere via lo smartphone, ma è troppo tardi.
Incrocio il mio sguardo allo specchietto e noto le rughe infittite intorno agli occhi: anche io mi sento “muito antiga”.

Quando intravediamo la statua del Marquês de Pombal, Diogo prende a raccontare del terremoto di Lisbona del 1755, dello tsunami e di altre disgrazie correlate. Alba lo segue con uno strano trasporto, facendo qualche domanda e scordandosi delle foto e dello smartphone. Al capolinea gli lasciamo la mancia, certi che altrimenti tirerà fuori l’animo vendicativo da soap opera latina, lui ci saluta togliendosi il cappello e solo allora vedo che è calvo. Mentre ci incamminiamo verso l’albergo mia figlia leva un grido.

«Lo smartphone!» Si siede a terra e svuota la borsa.

Diogo è troppo lontano, ma la forza della disperazione spinge Alba a emettere un fischio sonoro che lo richiama indietro. Ispezioniamo invano il Tuk-tuk e a quel punto non abbiamo scelta: dobbiamo rifare il tragitto. Domanda: quando tempo impiegheremo perlustrando tutti i bordi delle strade di Lisbona, i cestini della spazzatura, gli angoli delle piazze, chiedendo a negozianti, autisti, ambulanti se si sono imbattuti in un iPhone rosa? Risposta: quasi tre ore.

Sono le nove e un quarto quando torniamo al punto di partenza a mani vuote. Diogo è dispiaciuto, Massimo allunga altri centocinquanta euro per quello che si è rivelato il tour di Lisbona più costoso della storia, e Alba si scusa di sua volontà (miracolo).
Non possiamo dirigerci con lenta mestizia al ristorante solo per via del ritardo.

A tavola Massimo mostra la caviglia: stesso diametro di quella di un elefante.
Torno a guardare l’orologio e vedo che le lancette sono ferme: un chiaro segno del destino.
L’assenza dell’iPhone rende più semplice la comunicazione di Alba con i Soares (che hanno affrontato l’attesa con un lungo aperitivo) e il figlio Nuno, un ruvido diciassettenne più interessato al calcio che agli smartphone.

Ordiniamo dolce e Porto quando si presenta un uomo.
Finché Alba non si avventa su di lui non riconosco Diogo, senza occhiali e col testone glabro in bella vista: in mano ha il telefono, trovato in una cavità sotto il sedile. Da come parla con i Soares capisco che è davvero di Lisbona e che ha creato il suo grammelot a forza di scarrozzare gente di tutto il mondo.
Si congeda senza accettare la mancia e Massimo sospira sollevato.
Beviamo in silenzio, Alba controlla i messaggi e Nuno la guarda sprezzante. Continuo a pensare che il colpevole di tutto abbia un nome. Ma non è Diogo.
Per questo strappo lo smartphone dalle mani di Alba.

«Sei sopravvissuta quattro ore, resisti fino a domani!» dice Massimo mentre lei protesta.

I Soares la fissano.
Alba mette il broncio, ma dopo un minuto di silenzio vede passare un vassoio con dei bicchieri di ginjinha e chiede: «Posso?»

Io e Massimo ci guardiamo.
Di certo pensiamo la stessa cosa: in fondo c’è ancora speranza.

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di Rachele Fattore

Illustrazione di Anastasia Coppola

Romanzo del 2019 pubblicato da Keller, “Quasi tutto velocissimo” è un on the road in cui i due personaggi vestono i panni di presente e futuro, dialogando tra loro alla ricerca di un intreccio esistenziale.

Quante dita ti restano prima di morire?

Il tempo scorre in una clessidra senza speranze di ribaltamento. Il responso del medico è chiaro: cinque dita di una mano; cinque dita che potrebbero essere abbastanza ma non per Albert e Fred.

Albert è un orfano di diciannove anni che fin dal primo momento tenta la fuga dall’orfanotrofio rintanandosi da quello che gli dicono essere suo padre. Il sessantenne Fred è un bambino intrappolato nel corpo di un adulto che passa le sue giornate a contare le macchine verdi alla fermata dell’autobus. Non è sempre facile gestire il ribaltamento di ruoli, ma Albert si aggrappa a Fred perché è il suo unico legame con quel passato a cui vuole dare un nome.

L’uno arrendevole, l’altro testardo si uniscono nella ricerca di indizi in un viaggio tutt’altro che scontato.

Quanti tesori nascondiamo nel vano porta oggetti delle nostre auto?

Un calendario dove annotare il numero di mezzi verdi, una vecchia audiocassetta che produce un fruscio incomprensibile, una scatola di latta con una pepita d’oro.

Chi di noi non conserva oggetti quasi insignificanti che nascondono storie intricate, dolorose e tenere al contempo. Sono briciole di Hänsel. Ma abbiamo sempre il coraggio di seguirle?

Attenti a non tirare lo sciacquone.

Una vasca da bagno piena di acqua gelida all’improvviso diventa, aggiunto un po’ di sale, l’Oceano Pacifico. Un oceano dove immergersi con una tuta da palombaro ereditata da un padre scomparso prematuramente, forse nelle tubature sul fondo dell’Oceano, dentro alle quali magari continua a vagare per gli Stati del mondo.

Come non provare un senso di schifo davanti all’immagine delle condotte fognarie di una città. Eppure, tra le pagine di questo romanzo, si arriva al punto di crederle il posto più sicuro del mondo, un posto dove per un attimo i pensieri si quietano e nessuno verrà a cercarti.

Le risposte che cerchiamo possono soddisfare le assenze?

Alle volte, al bivio di una scelta, si decide di cercare ciò che non abbiamo mai avuto ma che abbiamo sempre desiderato con immenso ardore. Sperando che ogni risposta, anche la più dolorosa, possa tacitare la pena che abbiamo nel cuore. Quando arriva non siamo comunque pronti, ma a guardarci intorno, forse, ci accorgiamo che altro ha riempito le nostre vite. Ed è a quel bene prezioso che ci aggrappiamo quando tutto sembra troppo assurdo per essere tollerato.

“Estasiante”

Questo è un romanzo che parla di stivali di pelle tirati a lucido, di un abito da sposa abbagliante, mucchi di lenticchie, rime inventate, vedove solitarie, di solitudini e affetti.

Al lettore non viene risparmiato nulla, seppur tratteggiato con eleganza e sottovoce. Bisogna passare guerre, affrontare malattie mentali, accettare follie ed incesti, assistere ad omicidi efferati e incontri amorosi consolatori dopo le sepolture. In una cornice storica tristemente nota che abbraccia quasi un secolo, l’autore ci mette davanti ad una saga familiare al limite dell’inverosimile. A ben vedere però non si discosta poi così tanto dalla realtà, almeno non da quella che ci rifiutiamo, a volte, di vedere.

Quasi tutto velocissimo è un romanzo sull’imprevedibilità della vita, su una mano di carte sfortunata, su terre di confine, genitorialità e reietti depredati dalle migliori speranze.

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di Davide Paciello
Illustrazione di Francesca Bosco

Il tram è in ritardo.
Mi chiedo che ripercussioni avrà sulla mia giornata, mi porterà fortuna o sfortuna?

“Fortuna” è come chiamiamo il punto d’incontro tra eventi favorevoli e la nostra capacità di coglierli.
Una persona ottimista e propositiva sarà più predisposta a matchare due eventi positivi, mentre il mio sistema cognitivo si fa passare sotto il naso il bello della vita per cogliere solo l’orrore.
Quindi, anche questa giornata, andrà sicuramente di merda.

Il ritardo del tram supera i dieci minuti e non so che fare.

Nella vita sono sempre stato abilissimo a non sfruttare le occasioni e quando proprio mi arrivavano addosso allora mi impegno a sabotarle.
Il mio cervello pensa alle diverse variabili e razionalizza la peggiore tra quelle probabili.
È una forma di difesa.

Certo, se pensassi alle infinite variabili diventerei folle come il protagonista di un racconto di Lovecraf, anche se in effetti sarebbe interessante vedere Cthulhu sorgere per bloccare il traffico e far apparire il tram, almeno potrei dare la colpa a qualcosa di diverso dall’amministrazione. Un bel capro espiatorio sopraggiunto dai silenzi siderali dell’universo per spiegare il ritardo di un mezzo pubblico.
Poi darei comunque la colpa all’amministrazione, ipotizzando una giunta dedita al culto dei Grandi Antichi.

Del resto, anche davanti all’assurdo, è importante trovare un colpevole responsabile degli eventi.
I complottisti, davanti a una pandemia, pur di non accettare che l’essere umano è piccolo, impotente e indifeso davanti agli scherzi aleatori della natura, hanno iniziato ad accusare malevoli poteri occulti.
Il complotto implica ordine e coerenza.
Meglio i “poteri forti” che muovono le file degli eventi piuttosto che affrontare l’idea di essere nudi nella tempesta.

Mia madre crede nella Provvidenza. Alcuni nel Destino, altri negli Oroscopi.
Ogni cosa che accade deve essere correlata ad un’altra, altrimenti è il caos.
Magari siamo solo troppo miopi o “asserviti al sistema”, per cogliere gli indizi. In questo momento la mia mente potrebbe cogliere bellezza, amore e armonia ovunque, ma nota solo quel signore sul marciapiede di fronte che non ha intenzione di raccogliere la merda del suo cane.

Alzo gli occhi al cielo come se cercassi un modo per far arrivare il mezzo.

La vita è piena di insulsi gesti che pensiamo correlati in modo misterioso, ma aprire una busta di patatine non farà comparire il tram, un gatto nero non porterà sfiga e il segno della croce non farà vincere le partite.
Di certo i flash mob per la pace non stanno funzionando e le firme su change.org per chiudere change.org non hanno chiuso change.org.
Eppure tutto vale quando si tratta di cercare un nesso logico per arginare il caos: se la mente lo trova è un bene, altrimenti si bara.

Il tram non arriva e non c’è niente che io possa farci.

Per passare il tempo apro un giornale di città: c’è l’oroscopo.
Magari lo posso usare per dare la colpa alle stelle oppure ci posso leggere cose positive e magari influenzare la mia mente a ricercarle nel mondo.

Magari la giornata migliorerà e questo ritardo avrà un importante significato nel movimento dell’universo…ma alla fine non importa cosa ci sia scritto davvero, io leggo sempre e solo: oggi sarà un’altra giornata di merda, stacce!

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di Denise Ciampi
Illustrazione di Anastasia Coppola

L’Elétrico 28 sferraglia per le strade strette e ripide dei quartieri vecchi.
Arranca e scivola nella sua antica veste bianca e gialla, indifferente alla modernità sotterranea della metropolitana.

Maria, come quasi ogni sera, è salita troppo distante da Martim Moniz per poter sperare di trovare un posto a sedere. Viaggia in piedi, accompagnando la corsa sulle rotaie con pesanti oscillazioni del suo corpo. Guarda distrattamente il paesaggio consueto dei vicoli: le case che si offrono allo stupore dei turisti, vicinissime e inafferrabili nelle discontinuità del percorso.

Non trascura di mantenersi ben assicurata all’apposito supporto, mentre con una mano tiene davanti a sé la borsa. Nei luoghi frequentati dai turisti si deve stare attenti: le è già capitato di essere derubata, proprio su quello stesso tram. Eppure lei non ha certo l’aria della ricca europea o della nordamericana in vacanza, ma, evidentemente, chi si dedica a quell’attività non va troppo per il sottile quando capita l’occasione.

Porta lo sguardo alle sue caviglie, che emergono intorpidite dalle scarpe dismesse dalla governante della casa dove va a servizio. Cerca di riattivare la circolazione con piccoli movimenti sul posto, intanto le torna in mente quel vecchio fatto: si trovava in Portogallo da poco, aveva appena ottenuto il permesso di soggiorno e le era toccato andare alla polizia per denunciarne il furto. Ricorda ancora lo sguardo accusatorio del commissario, il modo in cui si era sentita a disagio, quasi fosse lei la ladra.

Si guarda ancora le caviglie gonfie e pensa che sarebbe bello potersi togliere quelle scarpe troppo strette. Si lascia sfuggire un sorriso malinconico pensando a un concerto di Cesária Évora, la “diva scalza”, che ha visto una volta in TV.
Era stato il suo datore di lavoro a invitarla a sedersi sul divano per guardarlo.
Si era seduta con cautela, con il timore di ammaccare il velluto o di macchiarlo.

Il signor Duarte in quell’occasione si era messo a parlare della “saudade” e a farle domande sugli usi di Capo Verde, accennando a concetti che per lei erano troppo difficili.
Aveva parlato di “matrifocalità”, chiedendo a Maria come fosse la vita delle donne nella sua terra d’origine. Lei non  sapeva bene cosa rispondere, ma si era commossa pensando ai propri figli, che aveva affidato a un’altra donna per poter partire.

«Sono le donne a provvedere ai bambini, anche quando si trovano lontane da casa. Ci sono quelle che partono e quelle che restano, la vita è difficile per tutte», era riuscita a dire.

Improvvisamente era stata colta dalla rabbia, pensando che, anche se è stata abolita la schiavitù, lo sfruttamento delle donne non è mai finito: le erano venuti in mente i volti di donne picchiate e abusate, le espressioni falsamente allegre di giovani sfruttate sessualmente.

«Desculpe», aveva sussurrato inclinando il capo con rispetto. Si era alzata dal divano per tornare alle sue faccende, con le note della morna che riempivano ancora la casa straziandole il cuore.

Finalmente si è liberato un posto, in fondo alla vettura.
Maria lo raggiunge, accarezzando con lo sguardo il fiume Tago, che appare in lontananza, dal finestrino.
Il Ponte 25 Aprile è ancora lì, a ricordare la fine della dittatura, Maria lo saluta come un vecchio amico.

L’Elétrico 28 prosegue, ondivago, la propria corsa.
Maria guarda gli uomini e le donne: i neri, i mulatti e i bianchi.
Avverte lo strazio di tutta l’umanità, incatenata alla storia.
Sente sul suo corpo il peso degli squilibri provocati dal colonialismo, abbandona le membra stanche sul sedile.

Il vecchio serpente è una nave, che si prepara a fare scalo nelle isole di Capo Verde. Ha occhi dipinti sulla chiglia, per tenere lontani gli spiriti maligni. Al timone ci sono dei ragazzini. Mariana, la figlia minore di Maria, ha aperto una grande carta geografica che le ricade sul viso, ride e indica la direzione.

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di Giulio Iovine

Illustrazione di Diaz

Mia madre, notoriamente di poche parole, nel congedare me e i miei fratellini tenne fede alle sue abitudini, e si limitò a raccomandarci di trovare una buona posizione.
Era l’unica cosa che importasse.
Fatto quello, il resto veniva da sé.

«Tanto nel giro di cinque o sei anni sarete tutti morti di vecchiaia», concluse, e volò via.

Volammo via pure noi dal nostro ramo, in cerca di fortuna. Non so in quanti riuscimmo a scampare i fatali cinque minuti dopo l’uscita dal nido, ne muoiono così tanti.
Io ebbi fortuna, perché atterrai quasi subito sulla schiena di Giggetto: da allora vivo lì.

Il nome “Giggetto” gliel’ho dato io, perché non ho idea di come si chiami e siccome non ci ho mai parlato, né mai lo farò, conveniva trovargli un nome da me, altrimenti mi sarei trovato in difficoltà a riferirmi a quello che è, di fatto, il centro della mia esistenza.
Non sono mai più sceso da Giggetto e non me ne allontano mai – in linea d’aria – per più di mezzo metro.

Giggetto è un dinosauro.
Nella fattispecie un sauropode: a occhio e croce, probabilmente un diplodoco.
Credo abbia passato la cinquantina ed è nel pieno della sua maturità. Dalla punta del naso, attraversando collo, dorso e coda, conta circa trentadue metri per ventuno tonnellate; in ogni caso è più grosso di me che misuro, se proprio stiro le mie alucce, una decina di centimetri e peso pochi grammi.
Non credo affatto di essere l’unico pterosauro – ce l’avete presente? Quelli con le ali e i peli? Ottimo – a vivere stabilmente sulla schiena di un sauropode gigante; ma pochi tra i miei conspecifici possono vantarsi di vivere in groppa a uno come Giggetto.
Chiamatemi scemo, ma secondo me Giggetto non è un diplodoco qualunque.

Anzitutto, Giggetto cammina un sacco.
Non sta mai fermo. A bordo della sua schiena ho fatto il giro del continente quattro volte.
Il fatto è che ha bisogno di mangiare, stellina, perché a dispetto della stazza ha il metabolismo alto ed è erbivoro, e sappiamo tutti che le piante, per farle fruttare, devi mangiarne a carrettate.
Giggetto cammina lento ma sicuro, senza esitare, attraverso le grandi pianure. Nella stagione secca si infila per le foreste, abbatte gli alberelli più incerti, ficca la testa nel sottobosco e aspira come se non ci fosse un domani felci, muschio, radici, tuberi e cicadee. Se ha caldo, sale in montagna e io prendo il fresco grazie a lui. Poi quando arrivano le piogge scende verso i fiumi, ingoiando podocarpi, fronde di ginkgo, araucarie, pigne. Quando ha finito, passa al bosco o alla radura accanto. Cammina, cammina fa il giro del continente con me in groppa.
Molti dei suoi compagni fanno branco: lui, che è un boss, viaggia da solo.

Siccome è un giramondo, prende su ogni sorta di parassita, insetto o invertebrato che si trovi nei paraggi, e che si posa sulla sua pelle sperando di deporci le uova o succhiare il sangue.
Ma qui intervengo io, anche perché devo pur mangiare.
Ogni giorno, mentre Giggetto avanza dondolando, delicato nel suo enorme peso, io perlustro il suo corpo, sorvolandolo con le mie ali corte ma rapidissime, e una dopo l’altra faccio strage di queste bestiacce. Quando viene la stagione degli amori e Giggetto gonfia le sue borse golari colorate per impressionare le femmine e rimorchia di brutto perché è pulitissimo, il merito è sostanzialmente mio. Senza nulla togliere, naturalmente, al fascino maschio di Giggetto, cui più di una diplodoca ha ceduto al primo sguardo. Quando arrivano all’atto vero e proprio può diventare un bel problema, perché Giggetto, per montare deve alzarsi sulle zampe posteriori facendo un treppiede con la coda, appoggiarsi sul dorso di lei, e operare di buona lena; sentiste i barriti di questi due “zozzoni”.
Il tutto dura non so quante ore e io devo appendermi alla sua schiena (ora verticale) per non cadere.
Poi la fregola finisce e si ricomincia a viaggiare.

Ogni tanto qualche carnivoro è abbastanza incosciente da cercare di mangiarsi Giggetto.
Mi ricordo la prima volta: mi presi uno spavento che non dimenticherò più.
Era l’inizio della stagione secca, verso sera, e Giggetto stava scendendo dalla cima di una collina al fiume, per la sua bevuta quotidiana. Io, come al solito, me ne stavo comodo comodo sulla sua schiena, da cui si vede sempre un bel panorama e – se non ci sono alberi di mezzo – anche molto in là. Mentre Giggetto aveva la testa tra le onde e le zampe a mollo, bevendo a larghe sorsate, mi sono accorto che da tre quarti posteriore gli stava venendo incontro, passin passino, nientemeno che un allosauro. A suo credito, grosso abbastanza da poter aspirare a Giggetto se si fosse davvero impegnato. Preso dal panico per quello che era evidentemente un agguato, ho cominciato a svolazzare e squittire attorno alla testa di Giggetto, in un patetico tentativo di avvisarlo: lui non ha dato segno di avermi notato.
Intanto l’allosauro si avvicinava al punto debole di Giggetto, la zona prossimale della coda, dove c’è il muscolo che lo fa camminare. Ha aperto la bocca, un orrore quasi verticale di denti, pronto alla sciabolata. Ma ecco che la testa di Giggetto, venti metri più in là, si volta delicatamente a guardarsi indietro, e io mi rendo conto che Giggetto sapeva, perché due secondi dopo tira un calcio all’allosauro con la gamba destra. Un bel calcio, che sbilancia il carnivoro e quasi lo fa inciampare. Cade addosso alla cosciona di Giggetto, il quale si divincola e lo fa scivolare a terra. Altro calcio mentre tenta di rialzarsi, ma stavolta Giggetto si becca un morso sul polpaccio, e una brutta ferita.
L’allosauro fa per allontanarsi a distanza di sicurezza, ma Giggetto, che non l’ha presa bene, scuote la coda a frusta all’impazzata e lo becca in piena faccia (pam!), slogandogli la mandibola.

E niente, l’allosauro se n’è andato con il muso storto e Giggetto, finito di bere, se n’è tornato in collina col polpaccio sanguinante.

Ma la ferita è guarita senza infettarsi.
Un po’ perché Giggetto ha un sistema immunitario niente male, un po’ perché il sottoscritto è rimasto attaccato alla sua gamba per una settimana, oscillando come su un’altalena, a mangiarsi tutte le mosche che si avvicinavano.

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di Rachele Fattore

Illustrazione di Anastasia Coppola

Pubblicato nel 2019 da La nave di Teseo, Corriere di notte è il romanzo epistolare vincitore del Premio Internazionale per la Letteratura araba dello stesso anno.

Per chi ama il sapore delle lettere trovate per caso.

Insolito, alternativo e struggente, questo romanzo si nasconde abilmente dietro a cinque lettere anonime che non giungono mai al destinatario. Filo conduttore il comune destino di fragilità e depravazione che accomuna i mittenti. Anime perdute che cercano di confessarsi senza tuttavia dimostrare pentimento per le azioni commesse.

Per chi ha il coraggio di affrontare l’eco personale delle confessioni di uno sconosciuto.

I mittenti non si incontrano mai, se non in una involontaria staffetta che porta le singole confessioni ad un destinatario voluto dal fato. Tra quelle righe si fa strada un’eco personale che, sull’onda di un insperato conforto, suscita la necessità di scrivere una propria confessione. Il passato dei protagonisti è un pesante fardello che non arriva mai al pentimento anzi, diventa giustificazione per altri misfatti e nuove derive.

Per chi è disposto a superare immagini e luoghi comuni.

Chi si nasconde davvero dietro alle persone che incontriamo per strada? Che siano reietti, delinquenti o persone insospettabili, mai possiamo sapere cosa c’è nel passato degli altri.

Leggendo questo romanzo ci si aspetterebbe un riscatto che non arriva mai. C’è una fuga costante da luoghi mai menzionati ma facilmente intuibili; fuga che non trova soluzione perché i protagonisti rimangono imprigionati in luoghi di passaggio sperando nella vita in un altrove impossibile da raggiungere.

Per chi ha ceduto alla lusinga di un ricordo di gioventù e dicendosi “perché no” ha intrapreso un viaggio insensato.

Ci si può lusingare per essere stati contattati da una vecchia fiamma adolescenziale. Perché no, perché non prendere un aereo e rivivere quel brivido di gioventù. Ma il tempo è inclemente, la pioggia scroscia e le valigie talvolta si perdono. L’attesa diventa motivo di ipotesi ed elucubrazioni che portano a razionalizzare l’impeto di un viaggio senza senso. 
La curiosità letale di rivedere il passato si dimostra un fallimento e le bugie dei film che penetrano nel sangue come un veleno vengono di colpo smascherate. Come lo specchio non cela gli anni passati.

Anche laddove il dolce sapore delle nespole condivise durante una corsa in un taxi collettivo potrebbe essere un segno positivo, rimane l’immagine del bidone dove vengono gettati i resti dei dolci frutti.

Quel che rimane del miraggio.

I protagonisti sono aerei che non partono mai, smarriti come bagagli sul nastro trasportatore di un aeroporto. Il puzzo delle uova che rimane impregnato sulla pelle del lettore diventa simbolo di una mancata rinascita, comune denominatore delle vite che si intrecciano. Un postino che raccoglie lettere in una città assediata, impossibilitato a muoversi dal suo nascondiglio, diventa misura dell’incomunicabilità.

Corriere di notte parla della complessità del mondo arabo, del mito del viaggio alla ricerca della salvezza, della condanna di un mancato ritorno e della ricerca dell’amore come primordiale forma di attaccamento alla vita.

Un romanzo giocato sul filo sottile tra immaginario e reale, tra sonni che rendono inaccessibile lo spazio interiore alla luce del giorno, notti straniere e senza patria trascorse in hotel di bassifondi degradati, tirannie familiari e promesse d’amore che sembrano prigionie.

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di Davide Ricchiuti

Illustrazione di Raquel in Dreams

Sblocco la serratura con il pin e salgo.
La Cinquencento Enjoy è parcheggiata in zona universitaria. L’accesso è limitato, ma quest’auto è speciale.
Avrei voluto scrivere che è speciale perché è rossa, perché costa venti centesimi al minuto invece di venticinque (solo per questo mese), perché può andare dappertutto – fango, stelle, sotterranei – e invece la verità è un’altra. È speciale perché sul sedile del conducente trovo un biglietto scritto a mano.
Però lo sollevo per sedermi. All’inizio penso che sia un appunto qualsiasi della spesa perso da chiunque abbia guidato prima di me. Lo sistemo sul cruscotto, mi disinfetto le mani, prendo le chiavi e accendo l’auto.

I minuti costano dal primo istante in cui lo sportello si apre. Il tempo è denaro.
Mai prima di guidare queste Cinquecento Enjoy avevo sentito sul collo il fiato del capitalismo.
Apro Google Maps e sistemo il telefono a vista.
Devo raggiungere un salotto letterario dove mi hanno invitato per presentare il primo numero della rivista che ho fondato da poco. Sono un uomo e in questa rivista pubblico solo donne, autrici esordienti, scrittrici affermate, giornaliste iscritte all’albo, tiktoker che hanno cose interessanti da dire sul femminismo. Si parla di aborto clandestino, identità di genere, body shaming, violenza domestica.
Roba seria, roba attuale, roba che vuole dare un segnale.
Io sono un tipo serio, sono un tipo attuale, sono un tipo che vuole dare un segnale.

Non faccio nemmeno in tempo a inserire la freccia per uscire dal parcheggio che un tizio suona il clacson nel mio cervello. S’intromette tra le cose che devo dire alla presentazione, le stavo ripassando a bocca chiusa, con le mani sul volante e il motore acceso.
Il tizio doveva essere alla ricerca di un posto da chissà quanto.
Deve avere intercettato le luci dell’auto.
Si accendono automaticamente se il conducente precedente non le ha spente.
Con una calma buddhista avanzo fuori dalle strisce del parcheggio. Il tizio suona ancora.
Io rallento di più, se possibile.
Lui scende dalla sua auto e si avvicina al mio finestrino.
Batte il pugno sul vetro. Grida qualcosa. Io accendo la radio e comincio a tenere il tempo con le mani sul volante.
Stanno passando Fulminacci, quel pezzo dove dice: gli sbagli che ho fatto, però non ho una tattica tattica tattica. Il tipo risale in auto e suona di nuovo, poi preme a vuoto sull’acceleratore. Io inserisco la prima è lascio Mr. Clacson nel mio retrovisore.
La gente fa schifo, canta Fulminacci. Certi uomini fanno schifo, in effetti.
Potrei usare questa frase alla presentazione. O è un po’ eccessiva?

Inserisco la seconda e la terza.
Rallento al primo semaforo, scalo marcia, freno e vado in folle.
Mi ricordo del biglietto.
Lo prendo dal cruscotto, ma appena provo a decifrare la calligrafia delle parole scatta il verde.
Intravedo un numero, forse di telefono.
Rimetto a posto il biglietto e parto.
Prima, seconda, terza, giro a destra, la strada si allarga, mi sistemo nella corsia centrale. Non c’è nessuno davanti a me, rallento un poco e provo a riprendere in mano il biglietto. Niente da fare, quando metto a fuoco la prima parola l’auto sbanda leggermente.
Appoggio il biglietto, riprendo il controllo, ma non vedo l’ora che appaia un altro semaforo rosso.
Eccolo, mi fermo. Mi rendo conto solo in quel momento che avrei dovuto essere sulla corsia alla mia sinistra adesso, non in centro. Ora come faccio a girare?
Controllo la strada voltando la testa all’indietro e vedo tre auto in arrivo.
Scatta il verde e cambio corsia, anche se non potrei.
Mi accodo all’ultima auto che passa a sinistra mentre almeno tre clacson dietro di me sparano lamenti inenarrabili. Hanno fretta di andare dritto. Uno poi ringhia qualcosa mentre abbassa il finestrino. Adesso Fulminacci canta: la gente è cattiva. Sorrido.

Guido fino ad arrivare nella zona del Masada.
Il salotto letterario a cui sto andando si chiama così. Ci metto un po’ a trovare parcheggio, ma alla fine mi fermo in una traversa di Viale Carlo Espinasse. Prendo la borsa, conto le riviste e apro l’app per terminare il noleggio. Controllo l’orologio. Sono in ritardo.
Esco dall’Enjoy e aspetto che si chiudano a chiave le portiere. Poi mi ricordo del biglietto e lo cerco sul cruscotto con gli occhi.
Mi avvicino e non credo a quello che leggo.

Accendo la torcia del telefono e la punto sul biglietto per rileggere, ma il parabrezza riflette la luce.
La spengo e riprovo. Scatto una foto al biglietto e zoomo sullo schermo del telefono. Incredibile.
E pensare che ho passato tutto quel tempo in auto senza leggerlo.
Telefono a Ugo, che mi aveva invitato al Masada, e gli spiego la situazione.
Gli riferisco cosa c’è scritto sul biglietto. Lui rimane in silenzio qualche secondo, poi dice che devo andare in questura.
E io sono d’accordo, ovvio. Dice che se io non facessi questa denuncia subito non avrei nemmeno fondato il tipo di rivista che hai fondato.
«Giusto?» mi chiede. Gli rispondo che però così la presentazione salta di sicuro, la burocrazia ha tempi dilatati: ero venuto a Milano per presentare la rivista, ho stampato più copie apposta, preparato un discorso. Ugo dice: «Cristo, ci sono delle priorità. E la vita della ragazza che ha lasciato quel biglietto, in questo momento, è più importante della nostra».
Ha ragione.
Avrebbe dovuto fondare lui la rivista femminista, non io.
Io, in fondo, sono solo gente.
Gente che fa schifo.

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di Carlo Marconi

Illustrazione di Ilaria Salvatori


Erano le 16:47 del 17 Settembre 1986 quando esplodeva uno dei due motori del Boeing 737-800 diretto a Madrid. Nello stesso istante in cui la coda dell’aereo prendeva fuoco, 250 persone si trovavano a dover prendere la difficile decisione di pensare alle ultime parole della loro vita.

Per 153 passeggeri fu naturale urlare al proprio compagno: «Ti ho sempre amato!».

Altri 34, per nulla d’accordo con i precedenti, gridarono a perdifiato: «Ti ho sempre odiato!».

Ma le urla di quelle 187 persone produssero soltanto un boato ancora più assordante dell’esplosione e nessuno seppe mai cosa l’altro gli avesse detto.

Quanto ai restanti 63 passeggeri, 61 non avevano nessuno a cui urlare: «Ti amo!» o «Ti odio!».

In realtà non avevano proprio nessuno a cui urlare.

Gli ultimi due si trovavano al bagno.
Per loro fu semplice gridare: «Merda!».

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