Di uomini, cani e ciambelle in metropolitana View More

di Flavia Catena

Illustrazione di Eleonora Loiodice

I respiri affannati di chi era appena salito appannavano i vetri.
Ben poco da vedere dall’altra parte: l’oscurità delle gallerie faceva risaltare solo i nostri contorni imprecisi, le chiazze di colore che s’incontravano, un cappotto con una sciarpa, un berretto con una mano guantata.

Eravamo compressi, così vicini da reggere, chi con gambe, chi con le braccia, il peso del corpo altrui insieme al proprio. Il nostro silenzio era un insoddisfatto bisogno di leggerezza; sembrava focalizzare le energie nella direzione giusta, sul pensiero giusto.
Il grido che risaliva dalle rotaie, il fischio del vento che entrava dalle porte tra i vagoni, le note sotto cui si accendevano gli schermi in mano ai passeggeri: ciascuno di quei rumori bastava a farci perdere l’equilibrio e la calma. Io resistevo senza sbilanciarmi, incastrata tra un uomo di mezza età, massiccio, e un ragazzo allampanato, un adolescente con in braccio un vecchio cane bianco, gli occhi coperti di lanugine e di paura. A tratti la zampa del cane mi sfiorava il cappotto; ci guardavamo. I suoi occhi velati e i miei si fissavano gli uni negli altri, e in quel momento le porte si aprivano, rimescolando corpi e suoni.

Alla fermata seguente mi disincastrai; l’uomo di mezza età finì spinto via dagli altri passeggeri in uscita, mentre quelli in entrata cercavano di prendere il suo posto relegando me e l’adolescente nell’unico angolo rimasto libero, tra il sedile appena occupato da una donna incinta e il finestrino.

La luce della stazione, oltre il vetro, venne presto annullata dal buio della galleria successiva; il treno sembrò accelerare prima che vi fosse entrato del tutto. Andavamo più veloci che mai, o forse era la nausea a farmelo credere. La zampa del cane non mi sfiorava più il cappotto, ma la gamba: il ragazzo si era accovacciato a terra, e sembrava cercare una via di fuga guardando attraverso gli spiragli che si aprivano tra un piede e l’altro. Ci finii anch’io in quella tana maleodorante, metri sotto terra e sotto muscoli flaccidi, sotto strati di stoffa e ombre.
Caddi, spinta avanti dall’ennesima accelerazione e dalla mancanza di appoggi.

Per dimenticare dove mi trovassi, chiusi gli occhi e contai le stazioni che mi separavano dall’arrivo. Ancora cinque. La voce che le annunciava dall’alto, voce di angelo meccanico, di donna e automa, mi sorprese a tremare nell’attesa di sentire il nome, quella parola unica, diversa da tutte le altre, scandita con più cura, a cui avrei connesso la mia vittoria.

Poi un soffio di vento mi ridestò.
Il cane stava per uscire; da dietro la spalla del padrone continuò a guardarmi fino a quando ebbe raggiunto la banchina. Di nuovo in piedi, gli dissi addio, e lo vidi aprire la bocca. O forse fu la donna che mi trovai accanto a farlo. Decine d’immagini si sovrapposero tra loro in un singolo istante.
Di lei, non vedevo altro che due labbra sottili, linee marcate di corallo. Mordeva qualcosa, un biscotto, una mela; non avrei potuto dirlo per certo, perché si voltava nel farlo. Dietro la cornice della sua valigetta di pelle, un bambino, senza imbarazzo, senza neanche guardarsi intorno, addentava una ciambella: un boccone, e la nascondeva in una scatola di plastica rossa, un altro boccone, e ciò che ne restava finiva di nuovo nella scatola.

Non appena anche la donna dalle labbra sottili scese dal treno, io mi spinsi avanti, abbastanza che a tendere il braccio avrei potuto toccare la porta. Tre fermate, due, ed ecco giunto il mio turno.
Un’anziana sollevò il suo bastone, una ragazza aprì lo scialle che l’avvolgeva, e vidi tutte le stelle che vi stavano stampate dentro come su un cielo notturno. Superai entrambe. Le mie dita si aprivano già verso il mazzo di fiori sul cartellone di una campagna pubblicitaria, il mio piede destro aveva toccato la banchina. Ero fuori, ero quasi fuori.

Accadde allora che un gruppo di ragazzi mi trascinò indietro, un detrito sotto il flusso della loro eccitazione, e il treno ripartì carico fino all’ultimo centimetro quadro, e non più silenzioso. Ai rumori metallici, allo scampanio degli avvisi, allo stridore dei freni, si unì un concerto di schiamazzi, canti, versi animaleschi che contagiò la folla prima composta facendola esplodere. Stazione dopo stazione, il treno che non sapevo più dove andasse e quando si sarebbe fermato, raccolse dieci, venti, trenta nuovi passeggeri, ma non ne lasciò andare neanche uno.

Scoprii allora che quasi tutti avevano una scatola con una ciambella nascosta sotto la giacca, nello zaino, in borsa, e tutti la mordevano, una briciola alla volta, rumorosamente come se fosse dura di giorni, pietrificata dal tempo. C’era anche un levriero dall’altra parte del vagone, grigio e con gli occhi d’ambra, che sembrava addentare un osso, o forse mordeva la caviglia della donna accanto a cui si trovava, e la donna invece di gridare, rideva. Pochi minuti dopo ridevano tutti, persino la voce registrata, la voce d’angelo, di automa, la voce che annunciava la nostra condanna.

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di Davide Paciello

Illustrazione di Francesca Bosco

Da quanto tempo sto aspettando il tram?

Il ritmo della mia vita non dipende da me, ma dal lavoro, dai tempi di produzione, dai mezzi pubblici, dal traffico.
Lavoro 36h la settimana e dovrei dormirne 67.
Il resto del tempo dovrei viverlo, ma c’è la palestra che serve ad essere più produttivi e più a lungo, c’è la spesa, la pulizia della casa.
Il tempo per i miei affetti, per i miei svaghi, le mie velleità quando lo trovo?

Sì, lo so, Charlie Chaplin lo dice meglio.

Il consiglio che ti danno è sempre lo stesso: ama il tuo lavoro e privati del sonno.

Per chi non lo sapesse la privazione del sonno è la prima tecnica di manipolazione applicata dalle sette in cui ti convincono a farti abusare sessualmente prima di spedirti a scannare persone a casa loro.
E sì, lo so, Charlie lo sa fare meglio.

Il tram è in ritardo, altro tempo che mi stanno rubando.

Ansia, stress, burnout, disturbi della socialità, perdita dell’empatia, depressione e suicidio. Tutto questo e molto altro è il magnifico mondo del tardo capitalismo.

Durante il master in marketing un milionario imprenditore genio ci ha raccontato di un ragazzo che aveva preso sotto la sua ala protettiva per mandarlo a crescere in un’importante azienda in Portogallo.
Dopo qualche anno scopre che il pupillo non aveva ancora cambiato lavoro, non aveva avuto particolari scatti di carriera né ruoli dirigenziali significativi. L’oscuro signore dei Sith, cioè il milionario, allora, gli procura subito altri colloqui in altre parti del globo. Il ragazzo, alla fine, parla chiaro e dice al mentore che guadagnava abbastanza, finiva di lavorare alle 17 e se ne andava a surfare tutti i pomeriggi.
Era ormai passato al lato chiaro del capitalismo.

L’imprenditore genio, iperattivo come solo certi cocainomani, raccontava questa storia con disprezzo: non poteva crederci che qualcuno rinunciasse alla carriera e a fare più soldi per restare in un posto dove aveva amici e affetti e tutto il tempo per godersi la sua passione.

Il tram ritarda ancora.
Io qui, fermo alla banchina, mentre tutto il mio tempo scorre via.

Da piccoli gli anni duravano eoni e quando sei in viaggio fai così tante cose che cinque giorni diventano una vita. La quotidianità, invece, si consuma nella ripetizione come un fiammifero al fuoco.

Il sole sorge e tramonta.
L’anno passa e io aspetto il tram.

Guardo oltre l’orizzonte immaginario nascosto dalla banchina difronte e mi figuro l’oceano durante il lungo tramonto portoghese, io e la mia compagna che ridiamo.
Le onde sono ottime per il surf, ma io non surfo.

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di Silvia Cestoni

Landolfi, l’unicum

Landolfi è un autore dai vari generi, ma al tempo stesso uno scrittore che non si può inserire in nessuna tendenza, e questo spiega la sua scarsa fortuna con lettori e critici. Alcuni critici l’hanno amato, mentre altri l’hanno ripudiato, considerandolo solo un calligrafista. Landolfi è un unicum, sia come autore che come personaggio: sicuramente appartiene alla linea del fantastico, la quale non a caso non è né un genere né una scuola. Nei suoi testi troviamo punte di magia e di realismo che lo avvicinano al realismo magico di Bontempelli, ma anche lo strano e il meraviglioso, è stato anche avvicinato al Surrealismo insieme a Delfini e Buzzati: tuttavia, nel Surrealismo non c’è una precisa ricerca di stile come quella di Landolfi perché nel surrealismo la forma è casuale.
In Landolfi nulla è casuale, ma tutto è invece progettato e costruito. Nelle sue opere c’è sempre un doppio livello: una realtà da cui poi si slitta in una dimensione altra.
“La pietra lunare” è il suo primo romanzo: prima aveva scritto una serie di racconti, tra i quali uno dei meno fortunati è “Maria Giuseppa”, oltre ad un tentativo di romanzo fantascientifico “Cancro regina”. Tutta l’opera di Landolfi è un’autobiografia, la quale diventa poi letteratura vera e propria.

Lo stile

Lo stile di Landolfi sarà esaltato e condannato: infatti, il suo è uno stile alto, “letteratissimo”, che attinge alla tradizione rifacendosi anche ad un linguaggio arcaico ed è frequente l’uso di parole rare, deformate, e popolari:

  • Parole rare: “tempo soggiuntivo” (ovvero congiuntivo); “la di lui fantesca” (fantesca oggi non si usa più); “menomo stupore” (minimo stupore); “avvero dire” (a dire il vero); “la spasa” (un cestino); “pretestava” (ovvero portare a pretesto)
  • Parole plebee: “barbugliava e balbutendo” che sono delle varianti di “balbettare”; “stronfiava” (russare); “pidocchiava” (con riferimento ai capelli sporchi del cugino)
  • Figure retoriche: “voce soffice e un po’ rauca” (voce soffice è una sinestesia); “capelli invioliti” ( ovvero la luce lunare crea riflessi blu e viola); “lenta oscurità luminosa” (lenta oscurità è un’ipallage perché la lentezza non è nell’oscurità; oscurità luminosa è un ossimoro); “vasta marea della sua luce” ( vasta luce è una sinestesia; marea della luce è una metafora)
    Spesso domina il contrasto luce- ombra, che è una componente barocca, e il tema della vastità. Il linguaggio di Landolfi è preciso, e la precisione è un elemento congeniale anche a Calvino.

La pietra lunare

L’opera più famosa di Landolfi è “La pietra Lunare”, del 1939.
All’inizio dell’opera abbiamo una descrizione zelante in cui vengono riportate le chiacchiere di alcuni paesani sciocchi intenti a criticare una serva. Si tratta degli zii e dei cugini di Giovancarlo, il protagonista del romanzo. Uno degli zii ad un certo punto dirà di aver visto una croce nera proiettarsi in mezzo al giardino, e questo sarà il primo elemento di inquietudine: infatti, Giovancarlo guarda in quel punto ma vede invece due occhi felini che lo fissano. Questi occhi escono poi dall’ombra mentre entra nella stanza Gurù, una giovane bellissima e sensuale che fissa Giovancarlo, il quale è attratto da lei ma al tempo stesso la respinge. Infatti, osservandola noterà che essa ha dei piedi di capra.
Comincia così a chiedersi se zii e cugini se ne siano accorti, ma non sembra poiché tutti la trattano con affetto e normalità. Gurù dirà di essere venuta lì per stare con Giovancarlo e lui è ancora più scioccato, in quanto non conosce questa ragazza.
L’ambientazione è nel palazzo signorile di Pico, appartenente allo stesso Landolfi. Giovancarlo cercherò a più riprese di far notare i piedi di capra ma tutti lo guarderanno sgomenti, come se stesse delirando, e allora si chiede se non si tratti solo di una allucinazione.
Cambia l’ambientazione e si passa successivamente alla descrizione di Giovancarlo. Qui scopriamo che il protagonista ha un vizio, ovvero quello si spiare tutti dall’alto del suo palazzo. Questa componente voyeuristica indica una certa repressione del personaggio. Egli vedrà un giorno un palazzotto in rovina, dove un tempo vi abitavano dei fratelli banditi e assassini che erano stati il terrore della zona: ora vi abita una loro discendente, una ragazza bellissima, pura e virtuosissima che ha la caratteristica di guardare sempre per terra. Proprio per questo suo eccesso di virtù e di mistero in paese si comincia a vociferare che sia una strega, anche perché la sera la si sente cantare nenie ambigue. Questa fanciulla è ovviamente Gurù e Giovancarlo la riconosce.

Creatura lunare

Chiede alla sua serva Giovannina informazioni su di lei e una vecchia di paese gli rivelerà che è una creatura lunare, ovvero che di notte si trasforma in una diabolica fanciulla amica del diavolo. Con la scusa di farle ricamare delle camicie la farà venire in casa sua e inizierà così la loro relazione, spesso tormentata: infatti, di giorno Gurù è una fanciulla dolce e virtuosa, ma di notte diventa un’amante scatenata. Emerge, dunque, il tema del doppio e della metamorfosi. Viene raccontato poi un episodio i cui i due si uniscono ad un gruppo di banditi, forse fantasmi degli antenati di Gurù, e uno di essi mostrerà a Giovancarlo come decapitare un prigioniero con un coltellino. Segue una scena cruenta, con il sangue che sgorga e zampilla e la testa che rotola giù dalle rocce.

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di Giulio Iovine

Illustrazione di Elisa Antonietta Daniele


Al primo soffio di tramontana, alle dieci del mattino, lo charvolant partì dalla chiesa sventrata nei dintorni di Lisburn, dove il dottor Pocock l’aveva costruito, e s’incamminò cigolando sui resti della vecchia autostrada, verso sud.
Non pareva altro che un carretto di fortuna con quattro ruote ampie e a raggi di metallo, come una bicicletta d’altri tempi; pure, in quel nuovo mondo dove non c’erano più motori, né benzina, né elettricità, né cibo per i muscoli, lo charvolant era la vita.

Era al traino di tre aquiloni di forma rettangolare, gonfiati dal vento come arterie dal pulsare del cuore.
Il dottor Pocock controllava la vela anteriore e le due laterali con una coppia di leve; al volante, sedendogli accanto, stava Madeline; e al fianco di lei, la vecchia.

La vecchia era un imprevisto.
Madeline si era presentata all’appuntamento con Pocock, come si diceva una volta, con il suo +1.
Per non farla cadere fuori dallo charvolant, Madeline era costretta a tenerle il fianco con il braccio destro.

«Venticinque all’ora», annunciò controllando il tachimetro.
«Fra mezz’ora deve venire la bora da nordest», rispose il dottor Pocock.
«Soffierà per tutto il giorno. Basta e avanza per arrivare fino a Newry».
La vecchia, muovendo in cerchio la testa, disse qualcosa come gn gn blrb gn.

«Quanto ci hai messo a costruire questa chicchetta?», chiese Madeline.
«Poche settimane. Ero bravissimo a montare i mobili IKEA, prima del disastro».
«Fatico a credere che stiamo filando così, solo grazie al vento».
«Credici. La contea di Down è la regione più ventosa del vecchio Regno Unito».
«Se non è culo questo».
«Non posso darti torto».

Lo charvolant, intagliato con amore nel legno, provvisto di ruote di metallo sottile e di un sedile per due, non aveva un chilo di troppo; e correva spinto dalla tramontana che si abbatteva sulle vele anteriori.
Né veloci né lenti, i tre passeggeri attraversarono la contea di Down, verde e umida dopo le piogge di aprile. Al di là delle colline a est, a Madeline pareva di sentire il ruggito del mar d’Irlanda; a ovest, il luccichio del lago Neagh sotto le nuvole. Il vento alle loro spalle gli fischiava gelato sulle nuche.
Madeline dovette mettersi un foulard.

«Manovri male con una mano sola», commentò Pocock.
«Non posso metterle tutte e due sul volante. Mi cadrebbe la vecchia».
«Ripetimi dove l’hai trovata».
«Una casa di riposo abbandonata. I Famelici hanno mangiato tutti tranne lei. Credo perché era chiusa in bagno».
«Non parla proprio?».
«No, poveretta, credo sia demente da molti anni».
Il dottor Pocock guardò i movimenti incessanti della testa e il ciucc ciucc delle gengive sdentate, e quello sguardo che non si posava su niente, e concordò in silenzio.

«A Newry hanno cibo e acqua», disse poi, mentre lo charvolant sobbalzava sopra una buca nell’asfalto. «Ma sono razionati. La vecchia non sarà la benvenuta». «Non possiamo lasciarla morire», ribatté Madeline: «Non è colpa sua se è inerme».
«Non è il momento storico giusto, per gli inermi», riprese Pocock.

La vela centrale si gonfiò all’improvviso per uno schiaffo del vento, e lo charvolant accelerò.

«Un bambino è inerme quanto un vecchio», rispose Madeline «ma se avessi soccorso un bambino anziché una vecchia, non ti saresti lamentato. O sì?».
«Un bambino non ha metà cervello mangiato dall’ischemia».

Mentre Madeline attaccava un pippone sul fatto che la fine della civiltà umana non era una scusa per replicarne i viziacci peggiori e che, anzi, proprio la congiuntura attuale era ideale per dedicarsi con rinnovata cura all’infanzia e alla terza età perché il valore della comunità nello sfacelo eccetera eccetera, Pocock si accorse dallo specchietto retrovisore che avevano alle costole due Famelici.
Grazie al cielo, non molto veloci, per via della fascite necrotizzante che gli aveva mangiato le articolazioni (oltre a bollirgli il cervello dieci anni prima, quando tutto era iniziato); ma comunque Famelici e cioè – per definizione – testardi. Non riuscivano a raggiungere lo charvolant, che ora filava a trenta chilometri l’ora ma gli tenevano dietro, sbracciandosi e urlando, le mandibole orribilmente estroflesse.

Se ne accorse anche Madeline: «Se rallentiamo siamo fottuti».
«Deve venire la bora».

Ma la bora tardava, la tramontana cominciava a singhiozzare e lo charvolant rallentava.
Le tre vele che si rattrappivano alle estremità. I Famelici guadagnavano terreno.
Il dottor Pocock allora chiese a Madeline: «Scusa, reggimi un attimo le vele. Ho un’arma sul retro».

Madeline staccò dalla vecchia il braccio per prendere il controllo delle vele, mentre l’altro braccio stava sul volante. Pocock, che a Lisburn non aveva trovato nemmeno una fionda, spinse la vecchia giù dallo charvolant.
Il suo corpo grasso rotolò sull’asfalto, la testa che si muoveva senza senso sul collo.
I Famelici le furono addosso e cominciarono a mangiarla viva.
La vecchia non parve accorgersene e continuò a dire gn gn blrb gn.
Madeline avrebbe urlato, se non che lo charvolant, con settanta chili in meno e improvvisamente spinto da un soffio di bora, schizzò in avanti traballando e gemendo.
Le sue vele tese e lisce come gusci d’uovo, diretto a Hillsborough, Dromore, Banbridge e infine Newry, in quello che un tempo era stato l’Ulster, e ora era solo Irlanda.
La vita che continua fatica ad avere pietà di quella che si è fermata.

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di Davide Paciello

Illustrazione di Francesca Bosco

Mi siedo alla banchina del tram.
Fa caldo e ho paura di sudare e puzzare, cerco di non pensarci.

Domenica scorsa ero al parco per beccarmi con un amico che, a sua volta, si doveva beccare con un amico e così via. Alla fine mi ero ritrovato in mezzo ad un nutrito gruppo misto di ventenni con cui, dall’alto dei miei trent’anni, non sentivo alcun bisogno di entrare in confidenza.

Stappai una birra per giustificare il mio esser uscito di casa, ma non me la godetti: gente della mia età spuntò con chitarre e persino un sax. Immediatamente si sparse la puzza di Wonderwall nell’aria.
Un tempo avrei amato queste cose, ma ora vedevo solo degli adulti che da ragazzini sognavano di essere rock star mentre ora nascondevano il disagio di non ricordare più accordi e movimenti delle dita.

Guardo l’ora.
Il tram è in ritardo e una versione giovane di me è seduta al mio fianco.

È il me che non scopava e che amava le jam improvvisate, le bevute con sconosciuti e i film impegnati. Alza lo sguardo dalla sua lettura, la Nausea di Sartre, e mi fa: la vita finisce a trent’anni.

Una frase che mi ripetevo spesso sperando che a 30 anni sarei stato un adulto autonomo e invece mi trovo schiacciato tra la precarietà, lo sfruttamento e la consapevolezza di non aver combinato un cazzo nella vita.
Tuttavia è vero, la vita finisce a trent’anni.

Ho viaggiato abbastanza per sapere che i posti sono più belli in foto, ho amato abbastanza per sapere che l’amore è più una questione di tempismo che di spirito.
Le cose che dovevo scrivere le avevo scritte, i cibi prelibati assaggiati e le bevande scadenti bevute.
Tutto si era compiuto nell’inconsapevolezza.

Scruto i binari in cerca del mezzo, ma niente.

Ecco a che servono i figli, a riprovarci, a ricominciare da capo.
A guadagnare altri 13, 14 anni di novità prima che ti dicano: «non sono te, il tuo fallimento è irreversibile, ma il mio è ancora da vedere; ora tocca a me fallire e lo farò meglio».
Sarebbe comunque bello avere una prole o quanto meno una certa sicurezza economica per adottare un cane prima di essere troppo rincoglionito per occuparmene.

Vedo un tram all’orizzonte, spero sia il mio e mi metto in piedi, mi giro come a cercare il giovane me.

«La vita si è allungata – mi dice – ma qualitativamente non è tanto diversa: l’infanzia scorre lentamente, è densa, ricca di scoperte, poi tutto diventa veloce e ripetitivo».

Mi osservo: il suo futuro è il mio presente ed è orribile come lo temevo.

Il tram si avvicina, lento, ma inesorabile.
Forse dovremmo vivere fino ad un massimo di quarant’anni, una vita breve vi eviterebbe la disillusione.
Ci sposeremmo da adolescenti per amore e faremmo figli per gioco.
A 20 anni saremmo giovani adulti pieni di energie che lavorano per sostenersi e finanziare le proprie passioni. A 30, stanchi e sazi, ci ritireremmo in qualche concilio di anziani del villaggio o a vita privata per dedicarci ai nipotini dei nostri, impreparati, figli adolescenti.
Infine, a 40 anni massimo, ci congederemmo dalla vita in maniera dignitosa senza starci troppo a pensare.

Non è il mio tram che arriva.
Spero di non fare tardi a lavoro.
Potrei campare altri 60 anni e li passerei tutti a lavorare.

Un giorno mi sveglierò e mi chiederò cosa ne ho fatto della mia vita e mi resterà solo un grande tempo sprecato a sentirsi come Antoine che guarda il mare alla fine de “i 400 colpi”.

Stasera mi vedrò un film dove de Sica scorreggia e incolpa Boldi davanti una tipa priva di caratterizzazione…e vaffanculo alla Nouvelle Vague.

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di Silvia Cestoni

Di famiglia di origine nobiliare, proveniente dalla toscana ma trapiantata a Roma, Ottieri nasce e si forma proprio nella capitale e, almeno inizialmente, aderirà al partito fascista.
Questa esperienza è raccontata nel suo primo romanzo “Memorie dell’ incoscienza”, del 1954.
Sarà poi la guerra a portarlo alla maturità. Lascia Roma e la sua casa da borghese privilegiato e se ne va a Milano, in cerca di lavoro nell’industria, come operaio.
Qui si avvicina a gruppi sindacali e politici, per poi iniziare a lavorare nella fabbrica di Olivetti ad Ivrea.
È proprio lì che Ottieri si rende conto che l’attività politica e sindacale non è sufficiente per “andare verso la classe popolare“. Nel romanzo egli racconta proprio questa sua incoscienza giovanile oltre al suo superamento.

Scriverà poi anche una sorta di diario, “Taccuino industriale”, pubblicato in parte sul numero del “Menabò” del 1961, dedicato tutto a letteratura e industria. Del 1957 è “Tempi stretti”, mentre del 1959 “Donnarumma all’assalto”, due romanzi molto diversi tra loro.

Tempi Stretti (1953)

Ottieri, sposa la figlia di Bompiani e con il suocero pubblica il suo romanzo industriale, “Tempi stretti”, in cui racconta il lavoro in fabbrica (una metallurgica e una tipografica).
Scritto tra il 1953 e il 1955, pubblicato nel 1957, riesce con Einaudi nel 1964 dove una nota dello stesso autore dice che “non esclude di poterlo riscrivere”.
Romanzo dotato di una forte componente descrittiva-saggistica, la cui narrazione si apre con il gennaio 1950, nel corso di una riunione sindacale all’inizio dello sviluppo industriale a Milano. Il protagonista è Giovanni Marini, che richiama un po’ il percorso di Ottieri dall’incoscienza alto-borghese giovanile alla coscienza politica della scelta di vita di lavorare in fabbrica.
Le fabbriche citate sono due: la Alessandri, azienda tipografica familiare e artigianale, basata sulla produttività e la competenza operaia (in crisi), dove lavora il protagonista, e la Zanini, grande industria metallurgica in cui lavora Emma, la protagonista femminile. I due si incontrano a casa di Paolo, un uomo che li ospita dietro un pagamento di una pigione. Nasce dall’incontro un amore difficile.
Gli anni Cinquanta sono quelli del passaggio dalle piccole aziende alle grandi concentrazioni industriali (dal modello della Alessandri alla Zanini rimanendo nello schema narrativo del romanzo) con fabbriche che, trasformandosi, cercando di ricalcare il modello americano.

Nel romanzo emerge, da un lato, un’immagine del “capo-padrone” che mantiene un rapporto diretto con gli operai, ma predilige l’aspetto economico rispetto a quello umano: non licenzia, ma non ammette neanche errori né attività sindacali.
Ben diversa la situazione della Zanini (la fabbrica concorrente), organizzata con la presenza di tanti padroni e l’assenza di un rapporto diretto. Ottieri mette per iscritto dunque il momento del passaggio di trasformazione dell’industria: l’aumentare della produzione, man mano che gli operai si impratichiscono, porta il capo reparto a studiare e analizzare dettagliatamente i tempi e, in base a quanto si produce, avviene un cambia di stipendio. Ciò provoca un’ansia da produzione e frenesia negli operai con i tempi che diventano sempre più stretti e che alimentano incidenti, l’alienazione e l’angoscia.
Il tempo libero è un altro tema trattato da Ottieri: è misero, soprattutto per Emma, la protagonista femminile, che esprime l’amore in luoghi squallidi e conserva in sé una speranza di miglioramento che si riduce tutta nella “fuga” verso il matrimonio: quasi un ritorno ad una condizione pre-industriale.
La delusione permea il protagonista femminile ed Emma rappresenta appieno quella “tristezza operaia da cui guarire con la partecipazione politica”.

A confronto

È possibile fare un confronto tra questo romanzo e “Tre operai” di Bernari nel quale, ad esempio, torna il tema triste della domenica. Anch’esso è come in Bernari, un romanzo di formazione. dove il punto di vista prevalente è tra narratore esterno, emergente nelle descrizioni, e l’interiorità dei personaggi.
C’è un duplice piano tra ciò che si dice e ciò che si pensa e l’interiorità di Emma viene fuori tramite la narrazione e il discorso indiretto libero.

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di Ottavia Marchiori

Illustrazione di Serena Borioni

Le auto schizzano come schegge e il rombo dei loro motori riempie tutto lo spazio, arrampicandosi lungo i muri grigi di Galleria Garibaldi.
Affretto i passi sulla striscia consumata di marciapiede davanti a me cercando di trattenere il più possibile il fiato per non inalare gli scarichi insalubri del traffico che si lascia inghiottire veloce sotto il tunnel per poi sbucare dall’altra parte del centro città.

Cammino con le spalle ricurve, lo sguardo basso: non voglio che la gente si accorga dei miei occhi rossi, dei miei sforzi per domare il groppo che mi si è infilato in gola.
Ma è una preoccupazione immotivata: a chi mai può importare di come mi senta io in questo momento?

Quando il semaforo del passaggio pedonale che taglia a metà la galleria vira al verde, attraverso la strada e prendo l’ingresso all’ascensore di Ponente che porta a Castelletto. Al di là della porta automatica non c’è nessuno, provo sollievo per questa temporanea solitudine.
Tra le pareti tinte di giallo chiaro sotto la luce severa dei neon, riecheggia solo il rumore dei miei tacchi che scandiscono una cadenza regolare sul marmo decorato da volute tondeggianti. Premo il pulsante per chiamare l’ascensore e aspetto, rovistando nel mentre il fondo della borsa per cercare un fazzoletto con cui limitare il tracollo del mio mascara. Ho bisogno di lasciarmi il caos della città alle spalle, ho bisogno di un attimo di pace.
E so di poterlo trovare alla fine di questa salita.

Le porte dell’ascensore si aprono sugli arredi eleganti in legno lucido perfettamente levigato.
Il viaggio dura solo una manciata di minuti ma tutte le volte che metto piede qui sopra, ho l’impressione di essere altrove, proiettata in uno spicchio di passato in qualche modo non ancora concluso.
Questo luogo suscita la mia riverenza: mi emoziona vedere la cura di chi lo tiene in vita, gli sforzi per preservarlo dallo scorrere del tempo.
Le porte si aprono: sono arrivata a destinazione.

Fa decisamente caldo per essere maggio e io che per l’appuntamento mi sono voluta vestire di tutto punto per fare buona impressione, realizzo di aver esagerato. Tutto troppo aderente, troppo accollato, troppa stoffa. Mi sento soffocare.
Tolgo la giacca, me la metto sotto braccio, arrotolo le maniche della camicia fin sopra i gomiti.
Così va meglio.

Sotto le chiome dei pini marittimi mamme con i passeggini chiacchierano sulle panchine.
Turisti con gli zaini in spalla e le mani a taglio a coprirsi gli occhi dalla luce del sole, gettano sguardi sorpresi ad abbracciare il panorama sulla città fino a incontrare il riverbero del mare.
Il canto parossistico delle cicale si dipana nell’aria del pomeriggio intrecciato al profumo persistente della resina che cola dai tronchi. Una donna con gli occhiali da sole dalla montatura bianca e una maglietta a righe azzurre che le scopre le spalle arrossate, armeggia attorno al vecchio cannocchiale, accanto all’ingresso invetriato dell’ascensore di Levante, cercando di inserire una moneta.
Qualcuno dovrebbe avvertirla che sono anni che quell’affare non funziona, meglio lasciar perdere.
Lo stesso consiglio che dovrei seguire io stessa: lasciar perdere.

Il problema è chiaro: ho fatto un grossolano errore di valutazione.
Ho caricato di eccessive aspettative questo incontro.
Mesi e mesi a scambiarsi messaggi senza nemmeno una telefonata. Non so nemmeno che suono abbia la sua voce. Sarebbe bastato questo a dovermi mettere in guardia. Le sue risposte elusive alle mie domande, le sue domande sparute sulla mia vita, lasciate cadere senza slancio di tanto in tanto, tutte le cose che ho detto precipitate nel vuoto del suo disinteresse.

Laggiù al porto, dietro al profilo dei Magazzini del Cotone, la massa poderosa di una nave da crociera si allontana lentamente verso il largo, lordando l’aria trasparente con sbuffi di fumo scuro. Mi rendo conto che il mio ruolo è stato quello di spettatrice passiva e pateticamente entusiasta dei suoi monologhi, l’ennesimo specchio in cui potersi rimirare ricevendo approvazione.
È stato lui a proporre di incontrarci oggi e a me non è sembrato vero avere finalmente occasione di conoscerlo. L’ho aspettato per due ore al tavolino di un bar dalle parti dell’università, su da via Balbi. Ho ordinato un Asinello che ho centellinato fino a che sul fondo è rimasto solo del ghiaccio liquefatto mentre mandavo messaggi rimasti senza risposta. Ho fatto i salti mortali per avere il pomeriggio libero, ho fatto fatica a farmi concedere il permesso in ufficio. Per cosa? Cos’è questa messinscena?

Ho provato a chiamarlo: irraggiungibile.
Un gruppo di bambini gioca a pallone mentre la spianata si lascia inondare placidamente dalla luce intensa del tramonto come fosse un bicchiere di aranciata dolce.
Le cicale hanno smesso improvvisamente di cantare, sembrano ammutolite dallo spettacolo che si sta svolgendo in questo istante. Tutto è immerso in una dimensione onirica, con la città distesa come un drappo d’oro ai miei piedi, i tetti dei palazzi affastellati l’uno sull’altro e l’orizzonte del golfo che cinge lo sguardo fino a dove lo si riesce a spingere.

Sento vibrare il cellulare nella borsa.
Lo ignoro.
Chiudo gli occhi e lascio che il malumore si stemperi nei raggi obliqui del sole mentre i versi di Caproni mi disegnano arabeschi nella mente: «Quando mi sarò deciso / d’andarci in paradiso / ci andrò con l’ascensore / di Castelletto».

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di Silvia Cestoni


Renata Viganò nasce a Bologna nel 1900: fu una scrittrice precoce, anche se per ragioni economiche intraprenderà il mestiere di infermiera.
Con il figlio molto piccolo seguirà il marito, capo di un gruppo garibaldino e lei stessa sarà una partigiana. Raggiunge il suo successo con il romanzo “Agnese va a morire” ma continuerà sempre a scrivere della sua esperienza partigiana.
Tra le sue opere si ricordano: “Una storia di ragazze” (1962), “Matrimonio in brigata” (1976) e un saggio, “Donne di resistenza” (1955), che sottolinea il grande contributo che le donne hanno dato alla Resistenza. L’autrice scriverà poi un articolo, “La storia di Agnese non è una fantasia”, pubblicato sull’Unità nel 1955, per rispondere agli attacchi della critica, la quale aveva affermato che la Viganò stessa si era travestita da contadina nel suo romanzo.

Agnese va a morire (1949)

“L’Agnese va a morire” esce nel ’49 presso la casa editrice Einaudi: siamo in un momento in cui il Neorealismo ha iniziato la sua fase discendente, perchè la sua componente utopistica comincia a colorarsi di elementi pessimistici. L’opera esce in un momento di grande depressione di conflitto socio-politico., ed è come se l’autrice volesse richiamare gli intellettuali a riflettere su ciò che era stata la guerra e raggiungere ,in un certo qual modo, un’unità nazionale. Si tratta di un romanzo tipicamente neorealista: la Viganò stessa era stata una partigiana (con lo pseudonimo di “Contessa”) e il marito, comandante di un gruppo garibaldino, fu catturato dai nazisti.

Nota finale

Nella nota finale dell’opera l’autrice sottolinea che il personaggio di Agnese non è inventato (anche se aveva un altro nome nella realtà).
Quello della Viganò è un romanzo di formazione, anche se quest’ultima avviene in un età più che matura per la protagonista, la quale passa da una concezione di tempo circolare ad una di tempo lineare.

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di Davide Paciello

Illustrazione di Francesca Bosco

Aspetto il tram in piedi.

Il professore di Storia e Filosofia che sostituivo era figlio del ’68, o propriamente o spiritualmente: ci teneva che andassi con lui alle manifestazioni per la pace.
Probabilmente era cattolico, aveva quella cosa che noi materialisti postmoderni avevamo perso: la fede. Pensava che una forte adesione alla marcia, dal centro di recupero per tossicodipendenti fino alla base militare dell’aeronautica, avrebbe fatto la differenza nelle decisioni politiche internazionali. L’evento fu un fallimento, erano pochi, nessuno si è accorto di loro.
Il disinteresse dei giovani e della cittadinanza a quella manifestazione la trovò una cosa inspiegabile, un po’ come io trovavo inspiegabile il nesso tra una marcia e la pace.
Tuttavia, mi misi nei suoi panni e capii il suo sconforto quando vide fallire un vecchio strumento di coesione e partecipazione iniziando a credere che ormai neanche la guerra ci faceva più orrore.
La sua generazione si lavava le mani dal sangue camminando insieme per strada e facendosi i pom…complimenti a vicenda.
La mia era così disillusa che si lavava le mani direttamente nel sangue.

Faccio sopra e sotto sulla banchina, come se questo gesto potesse far comparire il mezzo.

Ogni tanto dico a mio padre che la sua generazione è stata l’ultima a poter sperare in un futuro migliore del passato. Lui, puntualmente, mi fa notare che malattie, guerra e catastrofi ambientali sono una costante delle vicende umane.
Forse a noi è toccata, in più, la plastica e la crisi climatica.
Più che altro la sua generazione vedeva il futuro, lo sognava e lo immaginava migliore del presente, noi, invece, stiamo sprofondando nei futuri distopici da film anni ’80.
Abbiamo perso la facoltà di immaginare qualcosa di diverso o migliore.

Penso al pazzo di Nostalghia, “qualcuno deve dire che costruiremo le Piramidi, non importa se le costruiremo davvero”. Qualcuno deve dire che una passeggiata fino ai confini di una base dell’areonautica porterà alla pace, non importa se non succederà.

Faccio un profondo sospiro e decido che il tram sta arrivando.

Stasera tornerò a casa, mi toglierò i vestiti cuciti dai bambini birmani, farò una doccia fredda per risparmiare il gas, la farò in fretta per prepararmi all’emergenza idrica; mangerò del cibo che sa e contiene plastica e vedrò un film su una piattaforma streaming internazionale che non paga le tasse nel mio Paese.

Chissà se c’è Fuga da New York di Carpenter.

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di Apolae

Illustrazione di Davide Dade Bertaccini


Il meta viaggio dei mezzi sguardi all’interno del più grande viaggio sui mezzi ingombri, ebbe inizio perché la signorina occhi-azzurri-sporgenti mi indicò, irritata, con le french fresche d’estetista e il bracciale tintinnante. Con quell’unghia puntuta e policromata intendeva comunicarmi, senza mezzi termini, che dovevo tener su la mascherina anche io, come facevano tutti gli altri: «Faccia la cortesia!».

Quell’occhiuto stizzire incontrò il debole annuire di anziano occhi-castani-gonfi, che pur senza fiatare aveva stampata lampante, nella mezza porzione di faccia, un’ unica frase da aggiungere: «E che siamo noi, scemi?». Il tutto mentre me ne stavo appollaiato sulla sbarra gialla dello spazio per disabili, mentre la mamma occhi-verdi-rotondi bisbigliava con gli sguardi cauti alla bimba occhi-castani-piccini: «Hai visto, amore, che signore cattivo?» e la tirava piano a sé, col braccio intorno alla vita, qualche centimetro più lontana dalla mia malvagità.

Dunque, tirai su la chirurgica logora, tenendo la destra aggrappata al corrimano perché l’autista occhiali-da-sole aveva il piedone pesante e già due volte avevo rischiato di sbattere contro il giovane occhi-rossi-larghi, tuta sportiva e cuffiette, divorato dallo schermo del telefono e pertanto ignaro: altrimenti sai che anatema romanesco ciancicato mi avrebbe lanciato contro, invocando i miei avi.
Senza contare che la tipa occhi-azzurri-sottili era proprio dietro di me e, manco il Baresi di Usa ‘94, mi marcava strettissimo, attaccata quasi alle caviglie: se le fossi andato a urtare anche solo con il malleolo, si sarebbe affannata a darmi del maniaco, invocando sicuramente fallo da rosso.

Quella mattina nel fondo del 36 era tutto uno schiamazzo, con una cricca di pischelli occhi-vispi svaccati nell’ultima fila di posti a scambiarsi battute che capivano solo loro per prendersi in giro – «Leo baitalo prima di failare, nabbo epico!» -, accompagnate da sguaiate urla, schiaffi su colli già viola di succhiotti e il tutto davanti alla signora occhi-neri-stanchi rimasta in piedi, storta e ferma, con le buste dell’alimentari appese alle dita che piano piano assumevano sempre più il colore di quella melanzana che spuntava tra uno yoghurt e un Findus.
Giuro che l’avrei fatta sedere, ma ero in piedi e in bilico a rischio ammonizione.

Di fronte a me occhi-neri-sottili guardava curiosa.
Probabilmente era asiatica e abbassava lo sguardo di tanto in tanto giusto per non dare nell’occhio.
Cosa mai stavano scrutando quei mezzi occhi asiatici?
Rimasi col dubbio se intendesse chiedermi aiuto o sedurmi, anche se in effetti riusciva in ambo le cose all’unisono, dacché mi accorsi di averlo barzotto, sebbene più allarmato che eccitato, più incuriosito dalle sue palpebre lente e dalle sue pupille attente.

Magari avrebbe voluto comunicarmi qualcosa, chiedermi di salvarla da una situazione tragica, come in un film di Park Chan-wook… o forse si stava solo svagando a osservare un volto ignoto. Anzi, la mia porzione di volto ignoto, perché tutte le nostre facce erano a metà. Immagini parziali e sconosciute.

Come le storie che intrecciavamo sulla stessa linea del bus fino alla fermata successiva.

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di Rachele Fattore

Illustrazione di Anastasia Coppola

“Prove di felicità a Roma Est” è il romanzo di esordio di Roan Johnson, edito da Einaudi nel 2010.

Per chi ama il fascino dei motori un po’ vintage. 

Aurelia direzione capitale. Lorenzo Baldacci, ventunenne inconcludente, pigia nella sua borsa da calcio tutto ciò che può e si trasferisce controvoglia a Roma da un vecchio parente, ex professore di liceo, per recuperare tre anni di scuola in un costoso istituto privato. Trecento chilometri in sella alla sua ammaccata Vespa Primavera del ’79 e un anno pieno di sorprese davanti.

Per chi almeno una volta ha piegato cartoni della pizza. 

Fuori dai cancelli dorati della scuola privata, il mondo odora di periferia e gli strappi, di qualunque sorta essi siano, non si riparano con il filo dorato.  Per arrotondare Lorenzo si ritrova, grazie al compagno Marchino, a fare il fattorino con ragazzi accomunati dalla capacità di finire nei casini e dalla serena accettazione delle sfighe perché di pugni, nella vita, ne hanno presi tantiPorta e piglia e porta: la vita del fattorino delle pizze è come una palla da biliardo che non va mai in buca. Ci sono porte che si chiudono in fretta e altre che trasformano la piccola gioia di una consegna in amori, amicizie e rivelazioni. 

Tutta questione di confidenza.

Una volta presa confidenza con orari, bolle e stradario il gioco è fatto. Complici il fumo coltivato nell’orto del nonno e lo spumante rubato in pizzeria e stanchezza, i ragazzi della pizzeria si ritrovano in fuga per un conto non saldato. Ed è lì, pigiati tutti in una Seicento, che scatta l’alchimia.

Tra Lorenzo e Samia la passione si infuoca sullo sfondo di un doppio tradimento fino a diventare un’ossessione. Ma la giovane marocchina negli anni ha trasformato i divieti del padre in una palestra per sfuggire al controllo dei suoi amanti. 

Il mito di chi cerca fortuna nella grande città. 

Chi lascia i piccoli paesi con l’audacia di affrontare la grande città è, agli occhi di chi rimane, un sistemone al Totocalcio; un eroe dal quale ci si aspettano successo e racconti di mille avventure. Così succede anche a Pomarance, paese di cinquemila anime nella campagna toscana, dove tutti attendono il rientro di Lorenzo.

Per chi vede negli altri gradazioni più intense della stessa difficoltà.

Tra una consegna e una ripetizione, l’esame di maturità diventa un problema piccolo in mezzo a questioni più grandi.

Prove di felicità a Roma Est non racconta solo di adolescenti e stranieri, ma di un mondo di adulti che combatte con le difficoltà della vita e che, nella complessità della grande città, cerca di trovare delle soluzioni. Così lo zio Tarek uscito dal caporalato delle coltivazioni che lavora in un’officina fuori dal raccordo; Marisa, la professoressa precaria di chimica e biologia che al liceo privato riceve meno della metà dello stipendio contrattuale e fa la notte in una guardiola; Ileana, la badante ucraina che si prende cura dell’anziano professore. Ma anche i rom che prima tolgono e poi danno protezione, il preside arricchito, gli sfruttatori del mondo del lavoro. 

Per chi apprezza le narrazioni senza giudizio

In Prove di felicità a Roma Est ci sono figure piene di vitalità che si muovono nella penombra e raccontano di come ci si possa riconoscere nei volti stranieri, di quanto sia contagiosa la gioventù anche sull’orlo di una vecchiaia piena di fobie, di come i destini si rimescolino all’inizio di una nuova stagione.

Roan Johnson parla di ribellioni tentate, mancate e riuscite, di disparità e bilance tarate male. Non giudica, mostra. La sua è una narrazione veloce, ritmata da un linguaggio colloquiale ben condito, con il giusto equilibrio tra malinconia e ironia.

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di Davide Paciello
Illustrazione di Francesca Bosco

Oggi non ho fretta che arrivi il tram, posso aspettare.

È di nuovo sabato.
Ai tempi della scuola il mio amico si lamentava sempre dei sabati.
Sognava una lunga giocata al PC, ma la condizione dell’adolescenza imponeva l’obbligo sociale di uscire.

Interagire con gli altri, stringere amicizie, legami duraturi, ma soprattutto utili.
Sapevamo che non avremmo scopato e neanche pomiciato, che era quello a cui, realisticamente, puntavamo, ma dovevamo provarci comunque.

Il tram non arriva, ma è ancora presto.

Una volta la mia compagna mi chiese perché stessimo andando al laboratorio politico per vedere una qualche finale di calcio. Nessuno di noi due ama, o sopporta, quello sport, ma dovevamo andare.
Le dissi: «La vita è fatta di cose che non ci va di fare, per motivi che non capiamo, insieme a persone che neanche ci interessano».

Uscire di casa, trascinarsi per le strade; le orde di non morti che vagano da una cicchetteria all’altra. Randagi in cerca di un senso, di uno scopo, di un significato.

Il nulla cavalca le nostre esistenze, genera un vuoto dentro noi.
Ci riempiamo di alienazione, frustrazione e orrore. Il sabato sera siamo davanti all’abisso e ci versiamo sopra alcool, schifo e movimenti sconnessi. Il chiacchiericcio, come frinire di cicale, mette a tacere quel devastante silenzio che penetra le nostre esistenze.

Ecco cos’è il sabato sera: un tentativo di tregua dal dolore, una farsa sociale spazzata via dalla domenica pomeriggio quando, la realtà, ci sorprende, comatosi, sul divano.

Temo che oggi il tram arriverà in tempo.

La vita degli animali sociali è dominata da rituali nello sforzo di creare significati e legami.
La finale da vedersi con gli amici del bar, le bevute del sabato sera, il pranzo domenicale a casa dei suoi… l’ordine che costruiamo per arginare il caos.

Non c’è alcun motivo per cui ogni domenica siamo a pranzo dai suoi, solo un senso di dovere che pervade tanto noi quanto loro.

Cancellare qualsiasi criticità dalla vita, eseguire azioni obbligate e socialmente accettate come il battesimo o il matrimonio davanti alla divinità senza chiedersi se esista, cosa sia e che significhi quell’azione.
Una vita di seconda mano, sgualcita da tradizioni inventate per evadere domande senza risposta del tipo: perché lo faccio?

Come direbbe Hank, “Alla fine, qui, non resta niente alla morte da portare via”.

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di Rachele Fattore

Illustrazione di Anastasia Coppola

“L’ora senz’ombra”, ultimo romanzo di Osvaldo Soriano edito nel 2022 da SUR edizioni, è un vero e proprio roadbook d’autore, in cui sono sapientemente mescolati humor, tenerezza e una vena di sana nostalgia.

Per chi ha mosconi nella testa che confondono i pensieri.

Uno scrittore si mette in viaggio per redigere la Guida delle passioni argentine ma i suoi programmi vengono stravolti dall’improvvisa malattia del padre e dalla sua fuga dall’ospedale. L’improvvisa assenza e l’imminente morte del genitore creano il pretesto per una ricerca molto più profonda. Si tratta di rimettere nella pellicola i fotogrammi censurati, di trovare un senso al rompicapo della propria vita.

Per chi ama il fascino degli anni ’40.

L’Argentina degli anni Quaranta, il peronismo e la Revolutión Libertora come sfondo del passato. Sono atmosfere d’altri tempi quelle evocate in questo romanzo: casinò, hotel di lusso, promesse del basket, rappresentanti cinematografici e modelle che posano sulla spiaggia di Mar del Plata. Le carte vengono svelate fin da subito ma acquisiscono definitezza lungo tutto il racconto, nel malinconico intrico delle relazioni amorose.

Un universo tra l’immaginifico e il reale.

Agopuntori cinesi, pastori fuggitivi, sconosciuti in terapia intensiva, attori che incarnano i propri personaggi fuori dal palco, pazzi che vivono in un tombino misurando il tempo con le sirene delle navi, ombre che lasciano immaginare il passato. I personaggi di questo romanzo sembrano fuggire, spesso rincorrono chimere e proprio per questo rimangono impressi quasi come flash di un sogno. Una costruzione poetica che lascia il lettore nella vertigine tra la commedia e il dramma.

Dare un senso alla propria storia riavvolgendo una pellicola.

Quelli che il protagonista ha a disposizione sono solo frammenti di ricordi recuperati da qualche parente e dettagli, appunti scritti col pennarello sul tettuccio della sua Ford Torino, vecchie foto salvate su un portatile andato a fuoco. Il resto è un vuoto al quale tentare di dare forma. Ritrovare il padre e ricostruire le scelte di una madre assente significa intraprendere un percorso doloroso di consapevolezza e perdono.  Quella di Soriano non è una narrazione adrenalinica, piuttosto segue il ritmo della costante e lenta ricerca di qualcosa. Una scrittura fluida, ricca di citazioni che propone attraverso personaggi paradossali il forte tema dell’identità.

Il Tram-E non si ferma mai: qui trovi tutte le fermate!
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di Savina Tamborini

Illustrazione di Liliana Brucato

Aarne scoperchia le patate a bollire. Il vapore gli annebbia le lenti.
Infilza la forchetta in una patata. Il contorno delle unghie è terroso. Difficile che a Merja possano piacere. Sospira. Le patate non sono pronte. Richiude e va in sala.

Con un tonfo sprofonda nella poltrona mezza sfondata. Con una gamba trascina lo sgabello, sfila le pantofole bucate e ci mette sopra i piedi. Accende la lampada, cambia gli occhiali e apre il giornale.
John Kennedy assassinato: presidente Lyndon Johnson.

Mirre gli salta sopra. Si srotola a pancia all’aria, con le zampette gli afferra i polsi, gli mordicchia le dita. Aarne la accarezza: «Che monella che sei, io stavo leggendo, eh!».

Il coperchio sbatacchia sulla pentola, Aarne solleva Mirre sul giornale come un tappeto magico e la sposta sul pavimento.
L’acqua bolle e fuoriesce, la fiamma si spegne. Le patate sono tutte rotte. Aarne scola l’acqua rimasta, mette i pezzi triti nel piatto. Dal frigo prende la senape e dallo scaffale un barattolo di carne. Dell’olio cola; si asciuga le mani grosse e nodose.
Come potrebbe dare amore con quelle vanghe che si ritrova?
Si strofina le unghie, ma il marrone della terra non va via.

Mirre lancia un miagolio acuto. Si alza sulle zampette, gli si appoggia sullo stinco e le piccole unghiette appuntite lo pizzicano. Aarne le allunga un pezzetto di carne: «Affamata che sei sempre!».
Si versa un bicchiere di vino e si rimette in poltrona. Accende la tele e in un filmato di repertorio JFK parla dal pulpito.

“Today the expenditure of billions of dollars every year on weapons acquired for the purpose of making sure we never need to use them is essential to keeping the peace. But surely the acquisition of such idle stockpiles—which can only destroy and never create—is not the only, much less the most efficient, means of assuring peace.

I speak of peace, therefore, as the necessary rational end of rational men. […] Some say that it is useless to speak of world peace […] and that it will be useless until the leaders of the Soviet Union adopt a more enlightened attitude. I hope they do. I believe we can help them do it. But I also believe that we must re-examine our own attitude—as individuals and as a Nation—for our attitude is as essential as theirs. And every graduate of this school, every thoughtful citizen who despairs of war and wishes to bring peace, should begin by looking inward—by examining his own attitude toward the possibilities of peace, toward the Soviet Union, toward the course of the cold war and toward freedom and peace here at home. […]”

Mirre gli risalta sopra quasi nel piatto, gli fa le fusa e gli sbatte la coda sul mento: «Mirre, buona, fammi sentire».

[…] The United States, as the world knows, will never start a war. We do not want a war. We do not now expect a war. […] We shall be prepared if others wish it. We shall be alert to try to stop it. But we shall also do our part to build a world of peace where the weak are safe and the strong are just. We are not helpless before that task or hopeless of its success. Confident and unafraid, we labor on—not toward a strategy of annihilation but toward a strategy of peace.”

Il sole entra forte dalla finestra.
Il gallo canta, Mirre alza il musino. Aarne si gira dall’altra parte del letto, si tira su il lenzuolo e nasconde la testa. Il gallo canta un’altra volta, peggio di una sveglia. Aarne si tira su e a passi pesanti va in bagno. L’acqua della doccia è calda che quasi scotta. Appoggiato alle piastrelle, l’acqua gli scroscia addosso sulle spalle e Aarne si lascia immergere nel vapore.

Tra le sue manone tiene la tazza e dal caffè esce il fumo.
Ci soffia sopra e sorseggia. Gira la testa alla finestra. Per fortuna con la scavatrice ha finito, invece il campo di grano, abbagliato dal sole è un’immensa tortura. La mietitrebbia è pronta che lo aspetta fuori. Rossa come una Ferrari 250 GTO; se ne avesse una, con Merja sarebbe tutta un’altra storia! Tre colpi leggeri bussano alla porta. Mirre lo guarda, Aarne aggrotta la fronte: «Chi sarà a quest’ora?».

Merja ha in mano un vassoio coperto da un canavaccio. Il profumo del dolce gli arriva sotto il naso e fa aprire ad Aarne la bocca in un sorriso; i suoi denti storti sono in bella mostra. Richiude subito le labbra, ci mette una mano sopra. Perkele le unghie!
Ritira di scatto la mano e se la mette in tasca. Lei sorride e il neo peloso che ad Aarne è sempre piaciuto si infossa nella ruga sulla guancia: «Ho appena fatto la Mustikkapiirakka». Toglie il canavaccio.
«I mirtilli li ho raccolti ieri». Gli avvicina il vassoio: «È per te, Aarne».

Lui prende la torta, con le mani nascoste sotto il vassoio. «Kiitos Merja, è molto bella».
Lei ride: «E anche molto buona».
«Eh sì, ci credo». Aarne si gratta la pelata: «E… Merja, che ne diresti di mangiarcela quando ho finito al campo?». Abbassa la testa.

Mirre gli gira intorno alle pantofole. Perkele i buchi!
Non può far niente. Merja gli appoggia la mano sul gomito: «Mi farebbe molto piacere, Aarne. A più tardi allora».

Aarne sale sulla mietitrebbia.
All’orizzonte si alza un polverone, un rombo di motori interrompe il silenzio e delle auto nere avanzano molto veloci. Si fermano sgasando. Escono uomini vestiti in completi neri, dalle auto prendono delle grosse borse. L’uomo con i baffetti lo saluta in finlandese con forte accento americano e lo invita a scendere: «Non c’è tempo da perdere. Arrivo subito al sodo. L’FBI sospetta che dietro l’attentato di Kennedy ci sia la Russia perché i russi non rispondono alla linea rossa. Il governo americano si sta preparando al peggio. I russi potrebbero attaccare, ma noi siamo qui per fermarli».

Aarne allarga il braccio e mostra i campi: «E come? Qui non vedo russi».

Si fa avanti l’uomo con la faccia butterata: «Il cavo della linea rossa passa proprio sotto il suo campo, crediamo che lei lo abbia rotto quando ha vangato la terra. Lei è la nostra unica speranza».

Aarne alza la testa al cielo. Speranza. Merja.

L’uomo coi baffetti mostra un cartello d’acciaio: «Troveremo il cavo, lo ripareremo e con un picchetto ci metteremo questo, per le prossime volte, così non lo rompe più».
Si gira verso gli altri: «Coraggio ragazzi».
Guarda Aarne: «Ci auguri buona fortuna».
Fortuna, la Mustikkapiirakka, Merja.

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di Davide Paciello

Illustrazione di Francesca Bosco

Aspetto il tram.
C’è vento.

Una volta, a Foggia, vidi una donna ben vestita che camminava sul marciapiede verso casa. C’era vento.
I cassoni dei rifiuti stracolmi d’immondizia e sacchi, buste, carte e cartoni sparsi intorno.
Volava terra e schifo.
L’asfalto era crepato in più punti. Uno scenario da terzo mondo, quello che si vede nei programmi spilla-soldi delle onlus.

La mia città, un mondo sporco, brutto e devastato da una guerra mai combattuta o mai superata.
La donna, raffinata ed elegante che andava verso il portone di casa, in aperta contraddizione con il resto del posto. Un abito e un portamento tipici del centro di Milano, ma eravamo a Foggia.

Niente tram.

Una volta ero al ghetto di Rignano insieme ad un amico impegnato nella lotta al caporalato.
Eravamo lì con Yvan S. e due emiliani dirigenti di un’azienda agroalimentare interessata alla filiera etica dei prodotti. Il ghetto è una baraccopoli enorme: le case sono un misto di lamiere, plastica e altri ritrovati da discarica.
Però c’era un buon odore di cibo.

Aveva piovuto: fango e grigiore rendevano tutto più suggestivo.

Stavamo attraversando quella che nei fatti era una discarica abitata, quando il borgomastro del ghetto si accorse che stonavamo con il contesto: «Non è uno zoo, questo», diceva, «Yvan, cazzo! Non puoi portare gente a fare il giro turistico qui».

La lite aprì questioni tra di loro: da quando erano vicini di casa in quella discarica a quando i giornalisti vennero a fare servizi di nascosto da usare per fini propagandistici.

I toni erano accesi.

Noi “terroni” eravamo tranquilli, avevamo letto perfettamente il tipo di lite, più scenica che pericolosa.
Del resto litigavano in italiano, anziché in francese, per renderci partecipi.

I due imprenditori emiliani, invece, cercavano di sedare la lite. Erano spaventati.

Un uomo portò un coniglio bianco selvatico tenendolo per le orecchie.
La bianchezza dell’animale, il nero dell’uomo. Pensavo stesse per ucciderlo e cucinarlo.
Ero curioso e interessato.

Lo mise semplicemente in una gabbia sotto un bancone.
La lite finì e ce ne tornammo alle macchine. Del coniglio non seppi più nulla.

Il tram non arriva più.

Metto le cuffie e faccio partire Titanic di de Gregori: “la prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza dolore e spavento, puzza di sudore dal boccaporto e odore di mare morto”.
Ah, siamo un grande Paese e, del resto, ci si abitua a tutto.
Come un coniglio in una cuccetta ti dimentichi persino che stai affondando.

“Ma chi lo ha detto che in terza classe si viaggia male?”

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