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di
Matteuccia Francisci

illustrazione di Anastasia Coppola

Up and down the city road/In and out the Eagle/That’s the way the money goes,/Pop! Goes the weasel

Alice guarda l’orologio, ancora 15 minuti e sarà fuori dall’ufficio. Bussano alla porta: le chiedono un’altra cosa da fare. Si infastidisce e serra la mascella, ma solo per un istante.
«Certo, lo faccio subito» dice, sorridendo finché non si chiude la porta.
Poi tira un calcio alla scrivania. Già si vedeva varcare il cancello e ora invece perderà tempo. Il fastidio passa presto, però, e Alice torna a sorridere.

E’ felice. Forse per la prima volta nella sua vita.

Finalmente fuori, va alla fermata del 118. L’autobus arriva strapieno. Alice sale e continua a sorridere, sotto il cappellino dei Washington Redskins che le tiene i capelli tutti raccolti. Sorride dietro gli occhiali da sole scuri che le coprono gli occhi. Il cuore le batte forte sotto il cappotto nero, abbottonato fino al collo nascosto dentro un dolcevita grigio chiaro. Quasi non riesce a tenere fermi mani e piedi, chiusi da guanti e anfibi. Nello zaino ha le scarpe con i tacchi, la gonna plissettata e il cappotto rosso con cui al lavoro si è mimetizzata.

«Oh, mi scusi» le dice una signora maleodorante, cadendole praticamente addosso e pestandole entrambi i piedi.
«Non si preoccupi, è certo più importante giocare a Candy Crush che reggersi agli appositi sostegni» risponde Alice. Sorridendo.
«Che vorrebbe dire, scusi?» domanda, stizzita, la puzzona.
«Vorrei dire che lei non si è retta agli appositi sostegni perché stava giocando a Candy Crush, per questo mi è caduta addosso pestandomi un piede e facendomi male, oltre al fatto che lei puzza. Ma non c’è problema, capita a tutti signora. Di cadere intendo, non di puzzare».

La signora la guarda a bocca aperta, Alice la guarda dritta in faccia con la bocca che sorride e gli occhi no.
«Ma guarda che roba!» dice la puzzona, allontanandosi in fretta da Alice a costo di urtare tutti quelli intorno a lei.

Alice ricomincia a guardare fuori dal finestrino, l’autobus è già alle catacombe di S. Callisto. Si accarezza il mento con la mano guantata.

Il cuore le batte sempre più forte, l’emozione di rivederla è come una scossa che le percorre tutto il corpo. Com’è che dicono Belle and Sebastian? Formiche nelle mutande. Judy never felt so good except when she was sleeping.
Pensare ai Belle la tranquillizza sempre. Appia Pignatelli Carvilii…dai, ancora poco.
La puzzona scende, si gira a guardare l’autobus ed Alice la saluta con un sorriso beato.
Ecco il supermercato, dai che ci siamo.

Erode Attico, curioso che sia proprio la sua fermata.

Percorre il tratto di strada ormai familiare, arriva all’appartamento seminterrato che è riuscita a trovare dopo accurate ricerche. Trovare la casa è stata la seconda cosa più difficile da fare per lei. Si ferma davanti alla porta, tira su le braccia, si stira per bene, piega la testa a destra e sinistra finché non sente un leggero crac! Si abbassa verso il tappetino, trova le chiavi che sono sotto, le infila nella toppa e prende un bel respiro.

Sente il calore pervaderle tutto il corpo quando entra e la vede lì, davanti a lei. L’oggetto del suo desiderio. È seduta. E sudata. Alice entra di spalle, arricciando leggermente il naso per l’odore nella stanza, ma senza smettere di sorridere. Si leva il cappellino dei Redskins, gli occhiali neri e il cappotto, si sfila il dolcevita e la canottiera. Rimane così, in anfibi, pantaloni, reggiseno e guanti. Poi si infila il passamontagna posato sul mobile accanto alla porta, e si volta.

«Ciao amore mio, come stai oggi?»

La donna seduta sulla sedia alza la testa, piano, ed emette un suono flebile.
­«Oh, scusami amore, hai ragione », Alice si avvicina alla donna e le strappa il nastro nero dalla bocca.
«Per favore… basta… per favore… ma chi sei? Ti prego lasciami andare.»
«Sono l’amore tuo, amore mio. Ti sono mancata? Tu mi sei mancata tanto. Ma adesso siamo insieme di nuovo, sono così felice. Così. Felice.»
La donna seduta alza il viso, gonfio. «Ma perché? Cosa ti ho fatto?»
Alice l’accarezza piano sul viso, poi il collo e giù lungo la scollatura del camice. Potrebbe spiegarglielo, certo, ma non è più sicura di ricordare il perché. Sa solo che la fa stare bene, e che quella donna se lo merita.

«La vita è come una scatola di cioccolatini. Non sai mai quello che ti capita», le dice soltanto, imitando l’idiota voce di Forrest Gump.

E finalmente comincia il suo nuovo dopolavoro, da quando sette giorni fa l’ha fatta portare qua e legare alla sedia. Per venirla a trovare, dopo il lavoro. Ogni giorno, per un’ora. Sequestro di persona, lesioni personali aggravate e chi più ne ha più ne metta.
La felicità ha un prezzo da pagare, si dice Alice quando ha finito. È stanca e rilassata, inondata di endorfine.

«Questa è l’ultima volta che ci vediamo, amore mio. Sei perfetta così. Ti faccio una foto? No, meglio di no».

La donna respira. Piano, ancora.

Alice sorride ancora quando esce senza voltarsi e torna alla fermata. Probabilmente, si dice, sarà pieno del mio DNA là dentro: sudore, capelli…non importa. Ne valeva la pena per sentirsi così leggera. Solo quando sale sul 118 capisce che è finita. E’ stata la cosa più difficile di questa faccenda, sapere che sarebbe finita. Forse la troverà domani il proprietario di casa.
Torna domani? Alice non se lo ricorda. Le fanno male le braccia e neppure si rende conto di quando le lacrime cominciano a scorrerle lungo il viso.

Ha perso il suo dopolavoro, ha perso la felicità.

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di
Jolanda

 

Ci si aggrappa ai corrimano dell’autobus, dei tram, ci si aggrappa al corrimano delle scale, ci si attacca alla balaustra per non cadere, ci si attacca alla vita, alla maniglia della porta prima di chiuderla, prima di aprirla per prendersi il tempo di un ultimo respiro.
Ci si aggrappa per non perdere l’equilibrio, per provare l’adrenalina della frenata improvvisa senza dover sputare un molare disteso sul pavimento.
Ci si attacca anche al cazzo. 

Quel giorno era stato così. Immagine a campo lungo del tunnel dei vagoni della metro in fila ed io, punto di fuga, in piedi nell’ultimo vagone.
Non c’era giorno, non c’era notte, era uno di quei giorni al neon, di quei giorni istituiti proprio nel progetto della creazione in cui dio oltre al sole ed alle tenebre gridò “Neon!” e neon fu. 

Ero aggrappata al più sudicio degli appigli, sbarre, come li volete chiamare, e stavolta mi aggrappavo forte, così forte che sembrava quasi piacermi, sembrava darmi la stessa sicurezza di una mano, tanto da farmi dimenticare tutta la brulicante popolazione batterica.  

Che fastidio; maledizione che fastidio. 

Questa gonna è troppo corta, perché l’ho messa, perché era nell’armadio? 

Ah sì, la mettevo con lui, me ne fregavo se la mettevo con lui, mi riparava dagli sguardi sferzanti e poi mi piaceva. Sì, mi piaceva il fatto che gli piacesse questa dannata gonna corta (oddio ma perché l’ho messa).  

Stridio di freni e strattonata.  

Tipico. Siamo vicino Anagnina allora.  

L’ho imparato da quando ho sbattuto la faccia a terra l’ultima volta e ben mi sta.
Aveva ragione a dirmi che gli avevo rotto il cazzo con questa storia della fobia dei germi e del non riuscire a toccare niente, dell’appendermi al suo braccio ogni volta.
Ma come dice quella zia che non ho mai visto “non tutti i mali vengono per nuocere” almeno avevo una scusa per il livido sull’occhio, e sul braccio. 

Frenata.  

Non voglio cercare più scuse. 

Fortuna che mi aggrappo da sola. 

Mo’ la butto sta gonna. 

 

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di
Matteo Raimondi

 

Sotto una balbettante luce al neon mi viene in mente un vecchio motto romano: “A Via della Lungara c’è un gradino. Chi non lo sale non è romano né trasteverino”. Il gradino è quello di Regina Coeli (che non è una chiesa ma una prigione). Cinquant’anni fa era una cosa che dicevamo tra ragazzi per ridere.
Oggi le nuove generazioni l’hanno presa sul serio. Sono dei delinquenti. Colpa dei romanzi. Anzi, delle serie TV perché i romanzi non li legge più nessuno.
Una volta sull’autobus e sulla metropolitana si stava coi libri e i giornali. Ora si muove il pollice sullo schermo di un telefono, su e giù come stanno facendo i quattro passeggeri con cui condivido il vagone della metro C che, alle dieci di sera di un sonnolento mercoledì autunnale, sta viaggiando in direzione Centocelle.

Mentre il treno stride, penso che con l’avvento di quegli aggeggi il tempo a disposizione dei ragazzi si è contratto.
I telefoni sono come la marijuana nel ‘70: esagerano tutti ma nessuno lo ammette.
Felicità dei governanti:i drogati sono obbedienti, e questi ragazzi “vanno-molto-alti”. Me l’appunto sul taccuino, mi piacerebbe farne una lezione: Svegliatevi!

Oggi la madre di una delle mie alunne mi ha incalzato: «Questa storia dei selfie sta sfuggendo di mano.»

«È un problema di subcultura»
«Prego?»
«In sociologia è un insieme di persone con caratteristiche simili, come età e razza, o classe sociale e fede politica, che si distaccano dalla cultura predominante. Non esistono più sottoculture credibili. Si stanno adeguando tutti a un’unica grande cultura di massa, la cui offerta è filtrata dall’Industria Culturale, una specie di fabbrica di contenuti».

Lei mi ha guardato con occhi pigri e io ho capito di annoiarla. Ho fatto un cenno con la mano, come a dire di lasciar perdere… sono un vecchio rompicoglioni comunista. Anche se mi vergogno a dirlo credo che la gente lo capisca lo stesso: indosso ancora giacche di tweed con le toppe ai gomiti e pantaloni di tessuto.

«Sa che cosa ho trovato nel telefono di Vanessa?»
«No»
È arrossita. «Primi piani della sua vagina e istantanee di un pene eretto…» ha abbassato la voce e aggiunto:«più grosso di quello di mio marito.»

Ho sentito il bisogno di bere un sorso d’acqua. Questa gente di periferia è fatta così. Si definisce spontanea, senza peli sulla lingua. Terra terra. Per loro è un vanto, per me che invece provengo da una famiglia della Roma bene è un costante imbarazzo.

«Si rende conto?»

Non proprio.

«Crede che dovrei parlarle?»

Mi sono mosso sulla sedia, a disagio. «Direi di no.»

«Ai miei tempi queste cose non succedevano.»

«Quando ero giovane i ragazzi sfogliavano riviste francesi con le signorine in reggicalze». Ho sorriso, ma lei no.

«È l’adolescenza. Stia tranquilla.»

L’ultima cosa che volevo era immaginare gli organi genitali di una ragazzina di diciotto anni, perciò ho aperto il registro e parlato del rendimento di Vanessa, ottimo, e chiesto i suoi progetti per il futuro.
Dopo la maturità, siccome era avanti di un anno, sarebbe andata a lavorare in Inghilterra.
Brava ragazza, Vanessa.
Brava e bella.

(Vagina.)

La metro riparte con uno scossone e in galleria accelera. Faccio in tempo a leggere Torre Gaia su un cartellone prima che il neon ricominci a singhiozzare, rapsodico.

Sono ansioso di arrivare. Dopo venti minuti qua sotto comincia già a mancarmi l’aria.
Ogni volta che esco dalla metro è come riemergere da un’apnea. E ho sempre quella sensazione di cambiamento, come se il mondo fosse andato avanti senza aspettarmi.
Stare in metro a Roma è come entrare in un’enorme macchina per fermare il tempo. E poi puzza. Ha un odore fortissimo, di ferro ossidato e sudore.

Anni fa non ci avrei mai messo piede: la mia ex moglie era claustrofobica, e alcuni disagi sono contagiosi come l’influenza.
Ora non ho alternative: insegno letteratura in una zona chiamata Finocchio, estremo oriente, e vivo in Prati, al centro. Per uno che non conosce Roma non è facile capire che non scherzo quando dico che se non avessero aperto la linea C avrei trascorso la maggior parte del mio crepuscolo in autobus. Forse ci sarei persino morto.

La casa dove vivo era dei miei. L’ho ereditata da mia madre, vissuta vedova per trent’anni. Con lo stipendio che percepisco cercando di mostrare il mondo a ragazzi ciechi dalla nascita potrei permettermi al massimo un affitto in condivisione. Per fortuna mangio poco e vivo solo.

(Vagina.)

Sul sedile accanto al mio c’è un volantino. È propaganda. Dice che un immigrato costa 1000 euro al mese. Tanto si potrebbe dare a una famiglia per il mantenimento di due figli.
Lo accartoccio: populismo.

«Cazzo fai?»

Alzo gli occhi. Davanti a me c’è un ragazzone che avrà vent’anni. Dev’essere salito all’ultima fermata. In una mano tiene una decina di quei volantini. Mi sento in colpa. Ho davanti un esempio di subcultura e l’ho appena trattato da spazzatura solo per un vecchio pregiudizio.

Sorrido, come tutte le volte che sono in imbarazzo, e mi gratto la testa calva.

Lascia andare i fogli. Si spargono ovunque sul pavimento butterato del vagone.
Il neon singhiozza, nel buio sento lo scatto di un coltello.
Ha gli occhi così pieni di rabbia che mi viene da piangere.

La metro rallenta, scorre un altro cartello: Torre Angela.

Dico: «Non avrei dovuto.»

Il treno frena bruscamente, le ruote fanno urlare i binari.

Il ragazzo fa un passo avanti. «Voi comunisti avete rovinato l’Italia».
Mi piazza la lama sotto il collo: Regina Coeli e romanzi criminali.
Il treno bordeggia e strattona. Lui perde l’equilibrio e io sento un bacio gelido sul gozzo: è una tragica fatalità.

Il treno si ferma e le porte si aprono.

Mi guardo intorno. Nessuno si è accorto, stanno con gli occhi sui telefoni. Meglio: non voglio creare problemi.
Va via, provo a dire, ma dalle labbra mi esce solo un bulicame caldo. Lui fugge.

Sto morendo, è triste. Il treno riparte.

(Vagina.)

Spero solo di non andare all’inferno.

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di
Lorenzo Desirò

«…e tu perché sei dentro?» 

«Per un errore» dice, accennando un sorriso. 

«Un errore, certo. Dicono tutti così.» 

Silenzio.  

«Qui ti chiamano tutti Settantotto. Cos’è, il numero di quelli che hai fatto fuori?» 

«Che cazzo dici? Settantotto persone…» e Settantotto ride: una risata affilata. 

«Cazzo ridi? Pensi che qui dentro non c’è gente che ha fatto stragi?» 

E poi ancora silenzio. Ma in lontananza un cigolio, forse di una brandina. 

«Senti, io la mia storia te l’ho raccontata. Tu non vuoi parlare? Cazzi tuoi. Ma stiamo nella stessa fottutissima cella, e finché non mi dici perché sei qui io ti giuro che non ti parlo, cazzo.» 

«Non me ne frega assolutamente un cazzo» 

«Ok, facciamo così: ora mi butto su questo fantastico letto, e se vuoi parlare ti ascolto, altrimenti ti giuro che resto in silenzio e non ti dico più un cazzo! Non ti rispondo nemmeno se mi chiedi l’ora. Passerai tutti questi fottutissimi anni senza dire una cazzo di parola. E lo sai che qui il tempo non passa mai se non parli con qualcuno. Le giornate sono lunghe, lunghissime e non passano mai, mai, mai…»

E di nuovo silenzio. In lontananza un altro cigolìo, un accendino che scatta.
Ma, su tutto, il ronzìo delle mosche.    

«Che cagacazzi» dice piano Settantotto. Fissa una macchia di muffa sul soffitto e comincia 

«Era il 17 Agosto. Due e mezza del pomeriggio. Faceva caldo, un cazzo di caldo… e sudavo. Puzzavo. Le gocce di sudore mi scendevano dalla testa dritte dentro gli occhi. Ero in una piazza e non c’era nessuno: nessun negozio aperto, nessun bambino che giocava, niente. Niente di niente… La città ad agosto è un fottuto deserto. C’era solo la puzza dell’asfalto bollente e il silenzio. Neanche un filo d’aria.
All’improvviso mi viene una cazzo di voglia di gelato che tu non hai idea: un gelato… fresco… cioccolato… crema… stracciatella… e un po’ di panna. Non puoi capire che cazzo di voglia di gelato che avevo. Mi guardo intorno e non c’era niente. Né un bar, né un fottuto negozietto, niente. Neanche un Bangla di merda aperto. 
Poi, all’improvviso, un flash, un’illuminazione: c’era un gelataio nel quartiere! Subito dopo il ponte, vicino all’incrocio grande! …ma chissà se esisteva ancora.» 

Settantotto lentamente si accende una sigaretta.  

«Avevo appena fatto tre anni qui dentro per un’altra storia. Magari in quei tre anni la gelateria aveva chiuso. Guarda che in tre anni uno non se ne accorge, ma cambiano un sacco di cose.
Cambia il quartiere, cambiano i punti di riferimento che avevi prima. Magari piccole cose: il tabaccaio dove compravi sempre le sigarette che si sposta qualche negozio più in là, la pizza a taglio sotto casa che cambia gestione, negozi cinesi che spuntano ovunque, nuove fermate della metro… succede di tutto, in tre anni.»  

E poi ancora silenzio. In lontananza la branda continua a cigolare, un altro accendino scatta, le mosche continuano il loro lamento. 

«Io mi ricordavo che questo gelataio stava a una ventina di minuti da quella piazza. Ma venti minuti a piedi alle due e mezza del pomeriggio, ad Agosto, con tutto quel caldo, non li avrei fatti nemmeno sotto tortura. E proprio mentre stavo pensando a come ci potevo arrivare… Eccolo lì! Si ferma al capolinea e apre le porte. Non scende nessuno. Secondo me io e l’autista di quell’autobus eravamo gli unici esseri viventi nel raggio di qualche chilometro. Mi avvicino al tipo e gli faccio: “Capo, mi porti dal gelataio?”. “Che cosa?!”. “Capo, portami dal gelataio, fa un caldo di Cristo! Dai, quello che sta dopo il ponte, vicino all’incrocio”. L’autista comincia a ridere e mi fa: “Questo è un autobus, mica un taxi! Vacci a piedi!”. Io non la smettevo di sudare. “Fa caldo, capo! Fa un cazzo di caldo!”.
Ma quello inizia a ridere, e ride, ride…» 

Un lento e profondo respiro di nicotina, prima di proseguire. 

«E poi, boh. Sarà stato il caldo, o la voglia di gelato che avevo, o la risata di quella faccia da cazzo, non lo so. Succede che tiro fuori il tirapugni e gli salto addosso. Quello non ha neanche il tempo di spostarsi, neanche di urlare… forse perché gli ho spaccato subito la mandibola. E lo colpisco, lo colpisco… non la smetto di colpirlo.
Dopo neanche un minuto sembrava un bambolotto buttato sul sedile del guidatore, un peluche insanguinato. Lo butto a terra e mi metto al suo posto. Ancora non avevo capito se il coglione era svenuto o se era già morto. Chiudo le porte del 78 e metto in moto…»  

«Ah. Ecco perché Settantotto.» 

«…chiudo le porte del 78 e parto. Supero il ponte, arrivo all’incrocio, ed eccola lì. La gelateria c’era ancora, cazzo. Scendo dall’autobus, entro e dico: “Capo, fammi un cono, bello grande. Cioccolato, crema, stracciatella e un po’ di panna”.» 

Settantotto fa un altro lungo tiro di sigaretta; poi, senza neanche averla finita, lancia lontano la cicca e continua a fissare la macchia di muffa. 

«Il tizio vestito di bianco dietro il bancone mi serve il cono e trema tutto. Nemmeno i soldi ha voluto. Avevo i vestiti e la faccia tutti sporchi di sangue. Prendo il cono e, credimi: non faccio neanche in tempo a toccarlo con la punta della lingua che nella gelateria imbocca un intero squadrone di guardie. Mi puntano i cannoni addosso, mi buttano per terra e mi ammanettano. Non l’ho neanche assaggiato, quel cazzo di gelato!» 

«Assurdo! Tutta questa storia… per un gelato?!» e ride.  

Ma Settantotto non sorride più, non guarda nemmeno il soffitto. Non sente neanche più le mosche urlanti 

«L’ho scoperto dopo, quando ero già in galera. Ma all’epoca io… ero incinta.» 

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di
Valter Chiappa

 

Faceva comodo salire al capolinea: si poteva scegliere il posto.
Meglio se il primo autobus era appena partito: si aspettava il successivo con l’assoluta certezza di conquistare proprio quello, terza fila, accanto al finestrino.
In verità non c’era un motivo logico secondo cui lei dovesse sedersi un’altra volta lì, di fronte, come quel venerdì; ma costruire un rituale permetteva l’infinita ripetizione di un piacere che, giunto inatteso, V. voleva fosse immutabile.

Giovedì 22 Maggio

S. si era fatta largo, goffa ed irruente, fra le signore burbere e gli zaini dei pischelli e si era seduta proprio lì, di fronte.
V. la guardò. L’attrazione non segue canoni, ha radici in qualche piega profonda del vissuto. Viso rotondetto ed accaldato, piccoli occhietti verdi, capelli lisci di un semplice castano.
V. sentì ancora il desiderio disilluso per una felicità che non gli era dovuta.
Ma poi successe. Il testo di analisi aveva funzionato, assieme a qualche appunto scribacchiato. Si sa, matematica è un esame ostico per le matricole di economia: derivate, integrali, le temutissime funzioni.

«Cosa stai preparando?» esordì lei, con una naturalezza a lui sconosciuta.
Lui timido: «Analisi I»
«Analisi che? Ma non sei di economia?»
«No. Faccio ingegneria»
«Ingegneria? Dai… allora mi puoi dare una mano. Ho l’esame fra 15 giorni e sono disperata!»

Per una convinzione comune, gli ingegneri hanno le risposte ad ogni problema, ma V. non le aveva nemmeno per i suoi.
Cominciò così. Nei 40 minuti del tragitto, fila di Montesacro compresa, V. provò ad esporre ordinatamente la metodologia corretta per affrontare lo studio di una funzione: il campo di esistenza, asintoti, flessi. Ma S., con domande a raffica, smontava il filo solido dei suoi ragionamenti.

Martedì 27 Maggio

«Ciao! Ti disturbo se mi siedo qua?»
V. non sapeva rispondere.
«Come va?»
«Un disastro! La funzione modulo. Proprio non l’ho capita»
Lui paziente: “È facile: se x<0, allora y = -x. Insomma, la devi prendere sempre positiva»
«Sì, ok. Ora però mi aiuti a risolvere quest’esercizio?»
V. scrollava la testa: per lui non si poteva studiare senza un metodo rigoroso. Ma S. diceva ogni cosa con quel sorriso che non ammetteva repliche. E V. si sentiva scaldare il cuore. E si sentiva accolto mentre S. lo ascoltava.

Mercoledì 28 Maggio

«Hai studiato?»
«No, ascolta. Mi è successa una cosa buffissima»
E V. rideva. Di cose che non gli sembravano più sciocche o insensate. Era bello, ridere, senza la catena di un pensiero conduttore; essere felice senza una regola. Decise di abbandonarsi a quella corrente disordinata, gioiosa ed ignota.
Nei giorni successivi parlarono di tante cose: delle vacanze ormai prossime e di un paesino in Calabria. Della loro stanza, dei dischi. Dei genitori. Dei sogni. Del futuro. Il futuro…

Lunedì 9 Giugno

«In bocca al lupo per domani. Fammi essere orgoglioso di te»
«Ci sentiamo, no?»
Balbettio.
«Ah, che sciocca! Non hai il mio numero!» e lo appuntò sulla copertina immacolata del libro di analisi.
Scese veloce, lanciando un bacio.

Martedì 10 Giugno

V. guardava nervosamente il numero di telefono.
Provò a desistere: «Magari mi racconterà tutto domani in autobus»

No: il giorno dopo non sarebbe andata all’Università. Panico. Respirò forte.
Chiamò.
Il muro, gigantesco avanti a sé, si sgretolò in un attimo al suono squillante della sua voce.

«Finalmente posso andare in vacanza, non ce la facevo più»
«Parti?», deglutì.
«Scendo con Mamma. La casa in Calabria, non ti ricordi?»
«Dai… che bello!», il cuore in una pressa.
«A Settembre ci raccontiamo tutto. E tu fai il bravo, non rimorchiare troppo…»

Le altre parole si confusero nel ronzio che gli riempì la testa.

Lunedì 22 Settembre

V. ripeteva mentalmente, ormai a memoria, quel numero di telefono. Un giorno avrebbe chiamato. O magari no: non sarebbe stato più bello incontrarsi nuovamente sull’autobus? Sorrideva. Sì: sarebbe stato più bello così.

Lunedì 9 Gennaio

Freddo e nebbia, palpebre pesanti, pensieri ovattati. Il capolinea era un miraggio, là in cima a Via Verga.
«Quanto ci mette a partire?».
V. non sentì nemmeno il motore avviarsi, le persone che, come spettri silenziosi, affollavano la vettura. Poggiata la testa sul vetro appannato, cadde in un sonno profondo.

«Signore, il biglietto per cortesia».

La voce più ferma e uno scossone appena brusco fecero dissolvere in un attimo le immagini dei sogni che, rapidi, avevano popolato la sua mente. Solo il ricordo di un raggio di sole caldo rimase, sospeso nel vuoto dei pensieri lucidi.
«Tessera» disse V., frugando fra le tasche, da cui estrasse un cartoncino lacero.

«Questa cos’è?»

«Intera rete, non vede?»

«Signore, questa non è valida, controlli bene»

«Ma l’ha vista anche il bigliettaio!»

«Il bigliettaio? Quale bigliettaio?»

V. tese la mano verso la porta posteriore, a indicare l’omone bonario con la pancia appoggiata sulla vaschetta di ferro con le 50 lire. Sbarrò gli occhi: non c’era. E neanche la vaschetta, e il suo trespolo. E le facce intorno? Non erano le stesse. Dov’era la vecchietta col carrellino per la spesa, quella che faceva solo due fermate? E i ragazzi con la svastica disegnata a penna sulla Tolfa?

Rimase così, la bocca spalancata.

Il controllore guardò perplesso quell’uomo con i grigi capelli arruffati, la barba lunga, lo sguardo spento.

«Signore, si sente bene?»
«Certo… sì…»
«Scenda con me alla prossima»
«No! Non posso, devo incontrare una persona…»
«Venga… venga con me»
V. cominciò ad agitarsi scompostamente. Il controllore infilò un braccio sotto il suo e cominciò a trascinarlo, cortese ma fermo. Un vecchio libro cadde fra i piedi della calca.
«Stia tranquillo. Sistemiamo tutto»
«No! Non posso…»

Le loro voci si persero, sfumando nel rumore di fondo del traffico.

La scena si era svolta nell’indifferenza della gente, ognuno isolato nei suoi pensieri o ipnotizzato dallo schermo di un telefono.

Solo una donna aveva osservato tutto in silenzio. Raccolse il libro, ne guardò la copertina.

Una lacrima scorse via da due occhietti verdi, piccoli e tristi, e andò giù veloce a rigare un viso rotondetto.

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di
Arundo Donald

 

Quando Michela riprese coscienza si ritrovò sdraiata e disorientata.

La testa, infinitamente pesante, era quasi incollata al pavimento, e gli occhi gonfi e doloranti a malapena filtravano la luce tra le palpebre imbrattate.
Tutto ciò le dava un fastidio eccessivo eppure non riusciva a ricordare cosa le fosse successo. Ogni singola parte del suo corpo esitava a risponderle e tutto era un enorme forte dolore.
Qualcosa di certo doveva essersi accanita su di lei pensò.
Eppure non riusciva proprio a ricordare cosa fosse successo.
Sentiva il ferro in bocca, l’amaro, e cominciava a soffrire il freddo.
Ancora immobile e con gli occhi chiusi spronò i sensi ancora vividi tentando di intuire ciò che le stesse accadendo intorno. Dove fosse, chi l’avesse ridotta così, cosa avesse fatto per meritarsi tutto questo.
Provava a muovere il corpo. Ora un braccio, ora una gamba ma ogni singola parte non reggeva il dialogo. Era un continuo messaggio a senso unico. Doveva trovarsi su un autobus pensò e sperò che fosse notte.

Roma è bella la notte.

D’improvviso, come se il sole si facesse spazio tra le nubi scure, il freddo era caldo, il silenzio una musica soave e l’autobus si era animato. Su ogni sedile sedevano uomini e donne intenti a parlare, alcuni discutevano seri altri gesticolavano.
Le luci regalavano un tepore soffice e le persone intente a scambiarsi gesti e opinioni sembravano completare quel frammento felice.
Una bambina colpì l’attenzione di Michela. Era piuttosto magra, le braccia scoperte mostravano una pelle chiara del colore della Luna, ma le guance erano rosse e lasciavano intuire un senso di benessere. I capelli mori e morbidi le ricordavano i suoi. Erano lisci, di lunghezza modesta e sulla testa era posato un fermaglio di forma inusuale, ma non certo anomala.  Un cane era seduto dinanzi alla bambina. A Michela parve che la stesse fissando. Aveva il pelo burbero e il naso spigoloso.
Entusiasta si accorse che fuori dai finestrini era notte e ne fu felice.

Roma è bella vissuta di notte. Le capitava spesso.

Per un po’ rimase spettatrice di quell’evento. Per molto tempo in realtà.

Poi l’autobus fu di nuovo vuoto. La bambina con lo strano fermaglio e il cane irsuto erano scomparsi. Anche tutte le persone avevano smesso di parlare e le luci si erano fatte nuovamente livide.
Chissà quante fermate ancora avrebbe dovuto aspettare pensò, perché l’autobus si riempisse un’altra volta di gente tanto allegra. Chissà se mai sarebbe stato ancora così.

Ora tutto era buio e senza rumori.

Ora anche lei ricordava di essersi fatta un buco sull’autobus.

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di
Federico Cirillo

 

«Buongiorno gentile utente. L’opzione LTE non è stata rinnovata per credito insufficiente…» 

 Uhm, buongiorno un cazzo, penso, è pure tardi! 

Insomma il classico lunedì. 8.10 e te stai ancora a lava’ i denti con lo spazzolino elettrico che ogni tanto spruzza dentifricio sul colletto della camicia. «Tardi! Tardi! TARDI CAZZO!». Fanculo la colazione, banana take away e via verso Roma Nord.  

Eccolo, il 23. Preso: ce la faccio ed è anche quasi vuoto o mezzo pieno, insomma c’è spazio per me e la banana, salvifica colazione al sapor di banandina. Sguardo intorno indifferente.
La tipa carina davanti ascolta musica e non mi guarda, il tipo di schiena… è di schiena, ai lati un ciccione dorme in piedi appoggiando la testa all’obliteratrice («TITOLO DI VIAGGIO NON VALIDO»), ottimo… mordo… 

«Aspetta fermate così…» un flash mi blocca in quella posizione buffa: collo proteso in avanti che punta verso il basso, occhiali da sole appoggiati sulla fronte che, causa forza di gravità e stiramento improvviso di sopracciglia, mi ricadono sugli occhi. Un enorme punto interrogativo nel cervello… «mmma ch’stafffàm?» (Provateci voi con la colazione in bocca).  

«No, che pezza, l’ho fatta col flash. Vabbè la rifaccio, fermo…» secondo flash che parte nuovamente dal medesimo smartphone nascosto in una cover al silicone che lo dovrebbe far sembrare un coniglio, ma che ad occhio malizioso appare più come un sex toy. «Cheppalle non l’ho tolto» si lamenta la tipetta alzando al cielo lo sguardo scocciato che spicca da sotto una frangia a tendina scalata viola, stesso colore delle sopracciglia tatuate «è che ce l’ho da poco», si giustifica «devo capi come funzionano ‘ste applicazioni nuove» esclama mentre l’unghia, palese monumento alla più abietta e kitsch nails art, fatta di fiorellini al gel dal colore brillante, sbatte ripetutamente contro lo schermo dell’inerme technoggetto 

«Ssshimmà – e mastica! – che stai a fa scusa? Perché la foto?»  

«Ah quella? No ti spiego… sono una food blogger e faccio foto ai cibi! Oooh, ecco ho tolto il flash, rimettiti in posa pleeease». 

«In posa? Food Blogger? Please?» mi giro in cerca di sguardi solidali, ma giustamente tutto intorno a me si è creato il classico alone da ah guarda, sbrigatela te, a me manco me piace la banana 

«Ma poi scusa, food blog de che? Ma è ‘na banana! Di solito non si fanno foto a piatti elaborati, che so, specialità tipiche… cioè, questa è ‘na banana» e me la stai a fa’ pure suda’.  

«Si vabbè che c’entra – mi incalza lei – io ho iniziato ieri la mia attività di microblogging, sto girando a piedi e sei l’unica persona che sta mangiando in questo momento: ergo rimettite in posa come se stessi mangiando la banana e fermati un secondo, tanto è questione di un click che ho capito come funziona ‘st’applicazione».
«La fotocamera?» chiedo stupito. 
«Apparte che è Instagram, e so come funziona, solo che ‘sto smart è nuovo e non riuscivo a toglie il flash. Dai mo’ rimettite in posa che poi scegliamo il filtro insieme, ti va?». Che culo… 

Me dovevo sveglia prima, fottuto karma, penso. L’odore di banana sempre più pungente, mette a disagio più di qualcuno nel 23, tanto che già nei pressi di Marmorata Vanvitelli, inizio a percepire i primi sguardi d’odio che mi incitano a finire in fretta la colazione. «Vabbè – secondo morso – mmmassoloh p’rchè ho ffame».  

«Bravo! Fermo così! – è felice – fatta!! Nooo è venuta mossa, la rifacciamo?? Fermo, fermo, fermo… ma che fai? Ecco bravo l’hai fatta cade’ e mo’ che fotografo?». Benedetto sia il traffico di Lungotevere Aventino e gli scossoni del bus…certo mo’ la colazione è andata… «ma scusami – le chiedo mentre raccolgo la banana che lambisce le scarpe di una coppia tedesca in visita al Vaticano – come mai ‘st’idea del food blog? Come si chiama poi?».  

«Che? Ah sì – tra lo svogliato, lo scazzato e l’assente mentre con l’indice smaltato cerca il miglior filtro (ma non lo dovevamo sceglie insieme?) per rendere interessante una posa che d’interessante non ha nemmeno la parvenza – si chiama ’cettaAppetitosa, figo ve’?».  

Lo sguardo, alla ricerca di consensi, si stacca dallo schermo e con il bagliore luminoso che riflettono i cristalli liquidi che rendono il verde degli occhi quasi artefatto, tipo menta annacquata, mi guarda speranzosa… «’cetta? Volevi di’ “ri-cetta”?».

Intorno qualcuno sorride sotto il cappello, qualcuno invece si gira infastidito, qualcun altro ascolta musica e non ci caga di pezza, il ciccione ha cambiato posizione ma dorme ancora (chissà se scenderà?): Lungotevere Tebaldi, siamo bloccati tra traffico e un vigile troppo solo e impaurito per essere credibile. 

«Vabbè sì, doveva esse’ ricetta – riprende lei come se avesse ritrovato il filo dei pensieri dopo aver lasciato andare la speranza di approvazione che si reggeva su un labile filo – però ho sbagliato a digitare con il dito, ho premuto i primi tasti con l’unghia e non mi ha riconosciuto le prime lettere. Però considera che è una svolta, perché io mi chiamo Concetta, vabbè detta Concy, ma alcune mi chiamano anche ‘Cettina o Cetta… quindi cioè, da paura no?».

Da paura? No, mi ripeto in testa. 

Trattenendo il sarcasmo e le ironie nello stesso equilibrio zen che mantiene il ciccione dormiente, nell’assumere un’ aria pseudo impegnata, nei pressi di Largo Fiorentini, provo a giocarmi l’ultima carta per non veder pubblicata la foto che già immagino ricca di hashtag quali #maènaBanana #BanaBus #Bananatime: «ma scusa, stiamo a Roma, una delle città più belle del mondo, il 23 poi passa in posti bellissimi, attraversa il Tevere, si affaccia su Castel Sant’Angelo, s’inchina all’imperiosa Piramide Cestia, si insinua per poi sottrarsi all’abbraccio di San Pietro, lasciandosi alle spalle Via della Conciliazione… e te fai le foto a ‘na banana?»… poesia, penso.  

«Embè – con una vocetta che, acuta, frantuma le immagini liriche che avevo cercato di creare a parole – chemmefrega, faccio la food blogger io, mica la travel blogger, bella zì grazie. Ah ti pubblico col Valencia, fa più social» e scende a Traspontina.   

Mo’ divento ‘n’hashtag? penso «Ma che ore so’? – esclamo con i rimasugli di banana ancora in mano, chiusi in un fazzoletto – Cazzo è tardi!». Scendo, e il ciccione dorme ancora. 

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di
Giulio Calenne

 

Se il padrone non avesse passato tutta la notte a scrivere un poema-lettera d’amore a G (che alla fine si è risolto in un «come va?») probabilmente l’inizio giornata di oggi avrebbe fatto meno schifo.  Il meteo dà pioggia, è arrivata una bolletta da pagare, la disoccupazione giovanile è al 35,4%, l’autobus farà 10 minuti di ritardo e io mi sento già stanco. Arrivo alla metro alle 8 e 16, calcolo percorso di 28 minuti e nessun ritardo previsto a lavoro.

D, il mio padrone, ha 34 anni, ha studiato presso il Liceo Scientifico Gullace Talotta, lavora presso TuttoPizza e vive a Los Angeles. Nelle foto e nei video in cui è taggato si possono notare le sue labbra sottili, il suo naso storto da pugile, un mento a culo che sembra aver fatto gli squats, capelli neri doppio taglio e barbetta curata. In alcune foto che ha postato su Instagram alcuni utenti hanno commentato «amo’ sei troppo bello! <3», «a bomber!» e «a ridicolo!».  

La sua voce sembra quella di un Uruk-hai che ha urlato troppo al concerto dei Cannibal Corpse e non sono l’unico che preferirebbe i messaggi scritti piuttosto che quelle interminabili note audio su WhatsApp.
Tra i suoi interessi principali ha selezionato: calcio, cinema e videogiochi, ma in realtà è sempre su Facebook.
Quando siamo in metro scorre la home page come ipnotizzato dal colore blu codice RGB #3B5998 del social e, ad ogni foto di fregna, l’immancabile Mi piace tattico.

Da due settimane controlla spesso il profilo di G, la sua ex ragazza, con l’accuratezza di un detective. Esamina gli eventi a cui parteciperà, chi ha messo mi piace alle sue foto, dov’è stata di recente e chi ha aggiunto come amico.
Anche se non sono in grado di giudicare G eticamente, credo abbia fatto bene a lasciarlo. È stata tradita con ben 4 ragazze diverse (l’ultima grazie a Tinder), e se avesse letto i messaggi scritti da D alle altre ragazze, difficilmente gli avrebbe scritto «Scusa ma anche se per me sei importantissimo non penso che questa storia possa ancora andare avantiSarai per sempre il mio lenticchio inzuppato, perdonami.»

Probabilmente, dalla piccola descrizione che vi ho appena fatto, ora vi starete immaginando un mostro immondo, ma in realtà è più normale di quel che sembra.
Sì, avrei preferito una persona più raffinata, con conoscenze più altolocate (avrei conosciuto altri simili), ma nella vita bisogna sapersi accontentarsi no?! E anche se è un poveraccio, alla fine presta molte premure nel non danneggiarmi e mi riempie di piccole attenzioni. L’altro ieri, ad esempio, mi ha comprato un nuovo vestito in pelle che si apre da davanti, molto carino.

Tuttavia, credo che le sue cure non derivino da una naturale propensione al far del bene tipica del genere umano, ma dal fatto che D è consapevole che io conservo ogni suo segreto, ogni suo desiderio e ogni suo spostamento, tant’è che tre volte a settimana mi nasconde i siti che visualizza.

«Ah Phoni! Stanchino oggi eh!». È Samsy, il cellulare del controllore metro, D ed io stiamo per attraversare i tornelli di Anagnina.

«Lascia stare, il pirla mi ha ricaricato per sole due ore. Non sono mica come te che mi bastano cinque minuti per ricaricarmi, sono un modello vecchio».
«Dai non abbatterti, hai ancora il tuo fascino! Buon lavoro».
Lavoro che per me, in metro, consiste nel visualizzare per 5 minuti le notizie del giorno e per i restanti 10 minuti il solito Facebook e Instagram. Il tutto accompagnato dall’ascolto di quella orrenda musica. Se anche oggi mi fa produrre continuamente Marco Masini – Bella Stronza, mi spengo per rappresaglia.

Potremmo ascoltare Beethoven, Vivaldi o Mozart, il cui genio musicale ben si conforma al mio amore per la matematica, ma no. Playlist Dance Addicted di Spotify e musica maschio alfa italiana.

Siamo quasi arrivati alla fermata Giulio Agricola. Al pensiero che possa salire Phonia, una cellulara ultimo modello del mio genere resistente all’acqua, il mio microprocessore inizia a battere all’impazzata.
Vorrei trovare il coraggio di parlarle, magari facendogli notare che il mio D e la sua padrona (una studentessa di chimica della Sapienza) sono amici su Facebook anche se in realtà non si sono mai parlati.
Oppure potrei complimentarmi delle splendide foto che riesce a fare. Oppure… No dai, ma cosa sto pensando?! Una come lei un vecchio come me neanche lo vede.

Meglio non pensarci o consumo troppa energia.  

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di
Lorenzo Desirò

 

«Oddio! Ancora loro! chi prenderanno oggi? Chi? Chi?»

«Non lo so… ma abbassa la voce! Non farti sentire!»

«Mi hanno appena ripulito, non devono prendermi! Non è giusto! Non devono! Non devono CAZZO!»

«Shhh… Sta calmo, non farti sentire!  Sta calmo. Respira lentamente. Sono lontani»

«Guarda! Guarda! Si sono avvicinati a 82, lo stanno guardando. Ora lo prendono! Ora lo fanno!»

«Abbassa la voce Cristo santo! E stai calmo. Rimani in silenzio…»

«Ma dove cazzo stanno i guardiani? Dove? »

«Non farti prendere dal panico. Rimani fermo. E soprattutto mu-to. E ricordati, non ci devono scoprire! Se capiscono quello che possiamo fare siamo più che fottuti»

«Lo so, lo so. Ma non voglio essere toccato da questi deficienti»

«Guarda 82 come è rimasto calmo. Immobile. Guardalo…»

«Poveraccio… speriamo lo ripuliscano presto! Sono dei figli di Puttana quei  tre. Li investirei. Subito…»
«Sta zitto. E poi si può risolvere. Possono ripulirti di nuovo. Quindi sta calmo ma sta zitto per Dio… Non devono scoprirci…»

Stando molto attenti a non farsi scoprire, nel silenzio della notte, tre Writers iniziano la loro opera sull’autobus 82.

Stando molto attenti a non farsi scoprire, nel silenzio della notte, gli altri autobus parcheggiati nel deposito impietriti, muti, guardano la scena.

Stando molto attenti a non farsi scoprire, nel silenzio della notte, i guardiani del deposito, rinchiusi nella loro guardiola, guardano sul Tablet la replica di Barcellona – Real Madrid.

 

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di
Stefano Pupazzi

 

Io mi limito a riportare quello che ho sentito, signori: lo faccio per dovere di cronaca. E poi, in fin dei conti, la cosa non mi è sembrata così scandalosa… ma andiamo con ordine.
Ieri ero immancabilmente sul 20 e davanti a me avevo due dipendenti della nostra compagnia di trasporti preferita; hanno cominciato a parlare di una campagna che potrebbe essere lanciata in un futuro prossimo di concerto con il governo. Il nome di questa campagna è senz’altro azzeccato: “il fine giustifica i… mezzi”. Di che si tratta? L’idea è semplice e, in un certo senso, geniale. Avete mai notato che i mezzi di trasporto sono sempre pieni di vecchi? Grazie, direte voi; l’Italia ha un saldo naturale negativo. Certo.
Ma lo sapevate che quei vecchi hanno diritto a un abbonamento gratuito (dico gratuito)?

Bene, ecco i primi due problemi: i nostri cari bacucchi occupano spazio e, per di più, ci costano un occhio della testa. La ressa quotidiana e i portoghesi sono le maggiori cause dell’inefficienza del trasporto pubblico, si sa: ogni giorno ritardi, liti, svenimenti di pulzelle in mezzo alla folla, autobus in fiamme a causa dell’eccessivo carico e… i conti dell’azienda che non tornano. Ma questo non è tutto. C’è anche una questione di decoro e, per così dire, di estetica. Diciamoci la verità: se proprio dobbiamo rimanere schiacciati tra la gente, meglio strofinarsi a una trentenne in carriera che a una novantenne in carrozzina, no? O preferite un pannolone graveolente a una chioma stillante nardo?

Ho l’impressione che quest’ultimo argomento non vi abbia convinto. Bene, passiamo al risvolto economico della faccenda. Come dicevo, i vecchi non pagano l’abbonamento ai mezzi pubblici. Considerate ora il fatto che questi vecchi sono gli stessi a cui dobbiamo pagare le pensioni e le cure ospedaliere (accidenti ai malati immaginari!). Capirete dunque che il problema non è solo di questa città; si tratta di un dramma nazionale: il paese va in deficit per colpa degli ultrasettantenni!

Ma allora, direte voi, quale soluzione proponi? Io, signori, non ho nessunissima soluzione; questo è il bello. La soluzione è già stata trovata, come accennavo prima, dalla nostra azienda di trasporti. Si tratta di una cosa semplicissima: eliminare i vecchi; eliminarli fisicamente. Ecco, ecco: già vi sento parlare di follia, di cinismo, di spietatezza… prendersela con gli anziani, con chi ci ha cresciuto, con la memoria storica di questo paese…

Ma allora ho parlato a vuoto, signori. Ci siamo presi in giro. I problemi strutturali portati dai vecchi stanno dissanguando il paese e le amministrazioni comunali. Ma forse questo non vi interessa perché non siete buoni cittadini. Pensate però almeno alla vostra vita: volete la metro libera? Il bus ogni cinque minuti come in Svezia? Il posto a sedere quando vi sentite stanchi? Roba da poco, penserà qualcuno; ma è tutta roba, aggiungo io, che migliorerà la qualità della vostra vita, vi farà stare di buon umore, aumenterà la vostra efficienza al lavoro e fors’anche il vostro salario. Sì, perché eliminando i vecchi il sistema pensionistico ormai al collasso si riprenderà, ci saranno sgravi fiscali sulle nuove assunzioni, l’economia tornerà a girare…

Un’ultima considerazione: chi voglia eliminare i vecchi dalla faccia della terra deve essere considerato cinico? Avete mai pensato che i cinici potreste essere voi? Sì, proprio voi che vi ostinate a tenere in vita dei relitti umani; voi che umiliate i vostri parenti imboccandoli, voi che cedete il posto al reduce di guerra facendolo sentire un vile parassita.

L’eliminazione dei vecchi è, ad oggi, non solo una strategia economica, ma anche un’esigenza umanitaria e un atto di carità.

Eliminiamoli dunque, prima che ce lo chieda l’Europa.

E ricordate: il fine giustifica i mezzi

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di
Annalisa Maniscalco


Ancora sul 3, direzione Valle Giulia

L’uomo con il mazzo di rose sale sul 3 a via Carlo Felice. Lascia che gli studenti diretti alla Sapienza lo sorpassino sulla soglia del tram, proteggendosi i fiori contro il petto, poi guadagna la sua mattonella di spazio e si sistema in piedi vicino a me, ignorando un sedile libero.

«Scusi, non si siede?» gli chiede una ragazza, che ha le mani occupate di schiavitù: il cellulare e le cuffiette come rampicanti avvinti al polso, gli occhiali da sole inservibili in quest’ora aggrottata, il portafogli da cui sporge l’abbonamento. Fuorisede, deduco: non sa ancora che la metrebus può stare nascosta come un segreto tra le pieghe di un’abitudine.

L’uomo, ottant’anni circa e occhi molto azzurri, alza le spalle e le rose annuiscono permissive. La ragazza si siede e il cellulare le cade a terra con un rumore di sogni infranti. «Marò!»: l’uomo sorride, accenna a piegarsi su un ginocchio ma poi rinuncia al gesto e si limita a scostare il piede dal cellulare, e dalla ragazza china a raccoglierlo.

Le rose sono rosse, con del verde intorno e una spruzzata di gipsofila. Un bouquet senza profumo, quasi scontato nella sua elegante superfluità; e tuttavia spicca inedito sullo sfondo grigio del mezzo pubblico. Perché comprare dei fiori prima di salire sul tram, mi chiedo. La prima risposta è come le rose recise, banale e un po’ meschina: l’uomo è diretto al cimitero, non vuole piegarsi al ricatto dei fiorai, ne ha uno di fiducia sotto casa. O magari è fioraio lui stesso; e questa risposta, non so perché, mi convince di più, e mi avvicina quest’uomo dai calzoni un po’ corti e dalle unghie incartapecorite.

Il tram raggiunge Porta Maggiore e si ferma all’ombra dell’arco. Molti scendono a questa fermata, che è ancora oggi uno snodo di strade come un tempo era un nodo di acquedotti, e ancora prima un approdo di pellegrini venuti a sacrificare ad Spem Veterem. Ma quell’era è passata, il 3 riparte e quest’uomo non lascia i suoi fiori alla speranza, né alla prostituta che si affaccia annoiata da un platano in disparte.

Il 3 svolta a San Lorenzo, sotto un cielo di tangenziale. L’uomo ammicca a tutti i portoni, a tutte le finestre, come per rinfrescarsi una memoria che non aderisce più allo sguardo. Forse è stato bambino in queste strade, e le rose sono per una finestra che è esplosa in frantumi, o per un balcone che si è sbriciolato quel giorno di luglio in cui Roma è rimasta sgomenta e sfigurata dalle bombe — un giorno che ormai ricordano in pochi.

Il tram si ferma e l’uomo non scende; piuttosto, guarda sfilare via dei Reti passandosi il bouquet da un braccio all’altro: è già stanco ma non cede, neanche quando la ragazza di prima libera il sedile e scende alle Vetrerie Sciarra. L’uomo sta andando davvero al Verano, mi dico, e quei fiori sono per gli occhi di Alida Valli, o per lo spirito di Aldo Fabrizi, o per Rodari e le favole che l’uomo racconta a suo nipote; o magari per Eduardo, che qualche sera fa ha rischiato un brutto risveglio. Ma potrebbe darsi, banalmente, che le rose siano per sua moglie; eppure, l’uomo indossa la fede al dito, e mi scopro a sperare che non sia ancora vedovo. Ed ecco: il tram gira a via Regina Elena e l’uomo non si muove, se non per un distratto sussulto di rotaie.

Guarda fuori, l’uomo coi fiori, verso la Città Universitaria. Mi accorgo che lo spigolo di un libro fa capolino dalla tasca della sua giacca; chissà che non sia uno studente, e che non stia recuperando adesso un vecchio sogno: i fiori allora sarebbero per la docente che gli ha accordato la tesi, o per la segretaria che gli ha risolto un intoppo burocratico.

Poi anche la Sapienza scorre via, e l’uomo è sempre fermo, un po’ più curvo, un po’ più gualcito. A chi porti quei fiori, gli chiedo tra me e me con una tenerezza nuova; e realizzo che il 3 attraversa il quartiere doloroso del Policlinico. Ma le rose sono molto rosse, e gli occhi dell’uomo senza ombre; perciò, posso pensare che i fiori siano per la ginecologa che oggi va in pensione e che tanti anni fa ha fatto nascere il figlio dell’uomo — un parto difficile, in una notte di luna calante. Forse un giorno le intitoleranno una via del Policlinico.

Ma l’uomo lascia sbiadire la costellazione dell’Umberto I e le vie lattee del quartiere Salario, e continua a dondolare con il tram, sempre più appassito. Le sue mani, contro la iuta che avvolge le rose, sono spesse e terree, quasi grigie — gliele studio per cercare risposte e lui, stavolta, se ne accorge — ci concentriamo per caso sulla stessa rosa (ha un petalo color ruggine che freme precario a ogni scossa) e, in qualche modo, è come se ci incontrassimo.

Il tram fila col suo singhiozzo di fermate verso il Bioparco; una strana trepidazione risveglia l’uomo e qualche indizio trova ordine — la banalità delle rose, la modestia della iuta, il grigiore delle mani — in un’associazione bizzarra: forse scenderà allo zoo e offrirà i fiori a Sofia, l’elefante che gioca a palla. Pensiero ozioso, certo; anche se alla sosta l’uomo si affaccia fuori, in bilico, e il petalo arrugginito vola via tra le porte aperte.

Il 3 riparte verso il capolinea di Valle Giulia, alla facoltà di Architettura, e la soluzione del mistero si profila scontata e lucida: oggi la nipote dell’uomo discuterà la sua tesi e il nonno, raggiante, le donerà il bouquet di rose. Distolgo lo sguardo perché quest’ipotesi mi pacifica e insieme mi delude, come un sorso d’acqua tiepida. Ma poi il 3 si ferma alla penultima fermata, con un sussulto più brusco del solito, e allora mi volto di nuovo.

L’uomo con le rose non c’è più.

Le porte si chiudono, il tram riparte e io lo vedo, laggiù, che punta verso la Galleria Nazionale. Mi si accendono le guance, perché penso che quell’uomo non sta portando le rose a una persona.

Le sta portando a un’opera d’arte.

Forse alla donna dei Sogni di Corcos, perché gli ricorda sua madre da ragazza, o alla giovane che raccoglie un uovo dalla cesta, sul Tram di Guidi, come la studentessa di prima, col cellulare.

O forse, dopotutto, l’uomo darà le rose al Primo piano labbra di Pascali: perché anche lui, come me, ama immaginare ciò che non si vede.

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di
Federico Cirillo

 

I colori dell’autunno in città: alzi gli occhi, grigio; abbassi gli occhi, grigio.
Poi cambia fuso orario e alle 18 cambiano i colori dell’autunno: è notte e il 23 non passa. È notte, il 23 non passa e piove.

Ed ecco, è già pallido, sepolcrale autunnoLa nebbia agli irti colli, piovigginando salel’ombrello a cui tendevi la pargoletta mano… vabbè, apriamolo va.

Stormi di bimbi, come esuli pensieri, saltano da una pozzanghera all’altra, sfiorando l’immagine grinzosa e tremolante di un Castel Sant’Angelo che lì si specchia. Mamme sbraitanti, ripetono il loro verso. Si ode il 23 far breccia.

Ma dove ve ne andate, povere foglie gialle come farfalle spensierate?  Autunno mansueto, io mi posseggo e piego alle tue acque a bermi il cielo, Respiro il fresco che mi lascia il colore del… «’tacci loro aoh, stanno dappertutto» – eh no, questa era meno poetica – «Dappertutto!» ribadisce, gracchiando mentre si scrolla di dosso le ultime gocce di brina dalla pelata madida di acqua e sudore con la manica di un giubbino nero di pelle.
Se parla delle foglie gialle come farfalle, o mi legge nella testa o è Trilussa, penso. «Dice le foglie autunnali?» azzardo con aria ancora lirica.
«Ma che cazzo stai a di’?» risponde con tono meno lirico. «Quelli, i negri, gli estracomunitari, nun senti che casino che stanno a fa’?» agitando il pollice della mano destra verso il nugolo di gente alle sue spalle. Tre bimbi sinti in fondo all’autobus, ancora affannati dalle corse nelle pozzanghere, provano a svincolarsi dalle mani sicure e vigili delle due mamme.

«Ma so bam…» provo ingenuamente a ribattere. «Mo’ so bambini, poi crescono… crescessero al paese loro!» risponde lui anticipando ogni mia mossa con aria e fare di chi la sa lunga.

Il 23 taglia il tragitto, la pioggia insiste, il tipo anche. Si libera un posto doppio, mi siedo, poggio l’ombrello accanto alla borsa. «Che poi – continua sedendosi accanto a me, con fare più accomodante ed amichevole – dico io no, già c’abbiamo tanti problemi noi qui in Italia, ce li dobbiamo pure porta’ da fuori? Questi vengono, stru… stuprano, rubano e fanno quello che je pare».
«Ma quei bambini lì dice? – provo a stemperare con la mia tipica vena humor – Ma non credo che…»
«e nun cazzeggia’! Sto a parla’ serio!» mi riporta all’ordine con discrezione il tipo: altero come un Francisco Franco, rigido quanto un busto di mussolinana memoria, aperto al dialogo quasi quanto un Erdogan. «Stiamo tutti co’ le pezze ar culo e li facciamo entra’. Ci starebbe da alza’ un muro e fa passa’ solo quelli che servono» non fa una piega. Il tizio, non il ragionamento.
«Ma poi è tutto un business sai? – cambia tono diventando improvvisamente molto keynesiano, guardandomi fisso come a cercare un appoggio etico – Vengono, sbarcano, si mettono nelle strutture d’accoglienza e poi… je danno 30 euro al giorno! Al giorno! 30! E poi girano con l’iphone – che fine ha fatto lo stile keynesiano? – macchenesai te? Ma te sembra normale? Ce rubano il lavoro, ce rubano le donne, ce rubano le case… tutto si rubano. Li trovi ovunque, stanno dappertutto, stanno» e mentre ripete questo mantra, dello “stanno dappertutto, stanno scende a Vanvitelli e se ne va.

Che tipo – penso –  l’elogio al qualunquismo insomma. Che poi continua a bofonchiare da solo, anche sotto l’ombrello. Buffo, è simile al mio. Sicuro l’avrà comprato fuori la metro pure lui.

FERMATA – Via Ostiense Matteucci: e piove ancora. Sarà lirico quanto ve pare st’autunno però checcazzo pure la poesia m’ha tolto quell’Hitler de Testaccio. Vabbè, si scende. Cuffie, borsa a tracolla e ombrell… dove cazzo? NO! ‘tacci sua altro che uguale… era il mio!! Ma guarda che testa de…

Non faccio in tempo a scendere a Mercati Generali che, aperte le porte, nel buio dell’autunno, mi si para davanti tra il 23 e il marciapiede, un porta-ombrelli umano: scuro quasi come le 19 di sera, i denti bianchi brillano in un sorriso, i capelli bagnati incollati sulla fronte, alto quanto gli ombrelli che tiene appesi tra braccia e mani. «Ombrello amigo? – dice sorridendomi e lanciando uno sguardo verso la pioggia – Ombrello? 10 euro».

Meno male – penso – state dappertutto.

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di
Annalisa Maniscalco


Sul 3, direzione Valle Giulia

Non è raro che si voltino dall’altra parte, quando li guardo. Qualcuno di loro sbuffa, a disagio; altri, invece, non si accorgono nemmeno che li sto fissando — e in fondo neanche io me ne accorgo.

Ma sarebbe un peccato non guardarsi, anche solo di sottecchi. È un peccato, credo, rinunciare a questa innocua curiosità; è un peccato negare la disponibilità a un pensiero sull’altro — che poi, in definitiva, è un pensiero per l’altro. Il mondo, mi sembra mentre me ne sto asserragliata in fondo a un affollatissimo tram 3, potrebbe essere più ricco: di ipotesi, di congetture, di domande; di mute e mutue sollecitudini verso il vicino di gomito. Esisteremmo, ne sono certa, tutti un po’ di più. Acquisteremmo il senso di una presenza, anche se a nostra insaputa, che importa; ma forse, a fior di pelle, percepiremmo il senso non governato di una specie di partecipazione — di una partecipazione alla specie.

Scrive Philip Roth, (come anche il mio amico Giulio qui, con altre parole), «Se volessi saperne di più, dovrei inventare». L’umanità è incommensurabile, smisurata. È una banalità, lo so, eppure è meglio non pensarci: perché questo è un pensiero capace di spostare di svariati gradi qualunque personalissimo asse. La vertigine quantistica delle miriadi di storie, di dettagli, di particolari, di incroci che ci circondano non può che spaventarci — sento freddo e caldo insieme, al sol pensiero, e in fondo mi trovo solo su un tram (200, 300 persone? Come a dire 300 universi). Anche per questo, forse, nessuno osa guardarsi intorno: per discrezione, ovvio; per non cercare guai, giustissimo — ma, soprattutto, per non farsi travolgere. Eppure, mi sembra un peccato che l’immaginazione debba spegnersi, quando siamo insieme — ed è anche per questo, forse, che mi trovo qui a scrivere. Non certo per avere l’ultima parola sulle cose, ma per avere la prima. Per riscoprire, innanzitutto io, il piacere di dover inventare, per saperne di più.

Per esempio. La signora seduta accanto a me sta leggendo su un giornale gratuito la notizia di quella ragazza americana che vende all’asta la sua verginità per ricomprare una casa ai genitori. Il suo commento a mezza bocca — lo sento perché decido di sentirlo, perché scelgo di leggerglielo sulle labbra — è: «’Sta mignotta». Dapprima mi meraviglio — è una signora ben vestita, profumata di parrucchiere, con due piccole gocce di perla ai lobi delle orecchie —, poi sorrido mio malgrado, infine mi faccio pensosa. Potrei concludere che il suo commento è superficiale — ha voltato subito la pagina, senza andare oltre il titolo —; oppure, a voler essere più gentile, potrei presumere che la signora sia sovrappensiero, tra sé e sé, e non si stia sorvegliando a dovere — chissà a chi sta pensando, in realtà —; se fossi più intransigente, potrei giudicarla arretrata, intollerante verso un gesto che pare l’ultima frontiera del femminismo, o meglio — e anche a me piace di più così — un sacrificio degno d’un romanzo di Dostoevskij. Ma preferisco avvicinarla, ascoltare con più attenzione quel commento e inventare la sua, di verginità, concessa gratis a un marito che più tardi l’ha lasciata per un’altra donna — una ragazza più giovane di lei: poco più che una bambina.

Mi sbaglierò; o magari invece no. Ma non importa la verifica dell’ipotesi, in questo caso: la scienza inesatta degli incontri silenziosi non richiede attendibilità, ma piuttosto attenzione. Non tanto per avere la pretesa di indovinare, inventando, ma perché negli altri si può vedere innanzitutto ciò che si vuole vedere, ciò che sta a cuore, che preoccupa o infastidisce in quel momento. Io, per esempio: se mi ascoltassi di più, capirei qualcosa di me, attraverso di loro; perché quelle ipotesi, anche se errate, sono vere per me, a proposito di me che le formulo. E tanto basta a illuminare un po’ di più il mio esserci.

L’importante, penso mentre la donna abbandona il giornale sul sedile e si fa largo sgomitando per scendere a San Giovanni, l’importante è moltiplicarla, questa umanità.
L’importante, mi dico aprendo il giornale, è questa vertigine bella.

Ed è proprio allora che sale lui, e si sistema in piedi accanto a me, ignorando il sedile vuoto: l’uomo con il mazzo di rose…

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di

Federico Cirillo

 

Cinque: i minuti di tempo che ci impieghi a capire il perché la sveglia abbia deciso di suonare alle 7.00. Intanto si fanno le 7.05 e suona la seconda; la seconda di dodici che hai impostato fino alle 8.00…

Tempo un’ora e sei sbattuto sul ciglio dell’Ostiense in attesa del 23, senza minimamente ricordarti tutte le azioni che ti hanno portato alla fermata. «Ti ricordi sì che domani l’ufficio si sposta in Prati…?». Mortaccivostra: unica eco che aleggia sovrana in memoria di me nel vecchio ufficio, a Piramide.

10 minuti.
A piedi.

Quindici fermate in un tragitto che spacca a metà Testaccio dopo esser stato vomitato da Via Ostiense, saluta Piramide, lambisce il biondo – vabbè più giallo melma – Tevere, si lascia accarezzare dal Vaticano manco fosse un minorenne, scavalca il fiume e sgorga in Prati appunto…e io sto ancora alla terza fermata e già non c’è posto.

«Assurdo comunque…» sento borbottare dietro di me; un «non ce se crede…» mi si staglia sul collo, tra la barba e la nuca, al sapore acido di sigaretta spenta in fretta e cappuccino-post-rutto. L’operazione del girarmi, resa complicata dall’ammasso di corpi inscatolati nel mezzo, mi dà il tempo di elaborare una frase lucida nonostante l’orario e il rodimento di culo costante:
«Purtroppo gli autobus a Roma…»
«Ma no, no ma quale autobus! Sticazzi dell’autobus!» quasi mi urla in faccia il giovane dietro di me «te pare possibile che in Corea le donne non possono partorí?»

Il machecazzo! effettua un veloce edulcorarsi fino a farmi emettere un più lieve e interdetto «Come scusa?».

«Eh sì sì, hai capito bene» mi incalza strofinandosi con le due dita delle mano destra degli irsuti baffi che fanno da incipit a un’incolta barba riccioluta «in Corea, mo’ non me ricordo quale delle due, se vuoi partorí devi lascià il lavoro o viceversa.»

Il «viceversa» intriga, lo ammetto, ma lascio scorrere, anche perché basta un sussulto del bus a omaggiare il traffico del Lungotevere, a farlo trasalire in un: «che poi è più assurda la situazione a Nea Kavala…pare de stà dentro una trappola, tutti ammassati, morti di freddo…ma figurati l’Europa…».

«Nea che?» mi lascio scappare.

«No No, non Ke, Ka… Nea Kavala, il campo profughi a Nord della Grecia…ma non li leggi i giornali?» mi bacchetta il tipo mostrandomi una copia arrotolata di Internazionale e per poco, barcollando per la scarsa stabilità del mezzo, non me lo ritrovo con i suoi occhiali a montatura squadrata e nera a sbattere sul mio naso. «Che poi lo capisco» continua, senza attendere una risposta «non è che uno li può accogliere tutti, ma almeno la dignità, cazzo, la dignità dell’essere umano… prendi coso là, quello colombiano che ha fatto pace con la Faac…coso dai…»

«Santos?» gli chiedo, evitando di fargli notare che mai una ditta di impianti automatici aveva litigato con la Colombia, comprendendo che si riferisse, invece, alle Farc

«Ecco sì quello» ammette conciliante mentre tira su con il naso «quello ha dimostrato intelligenza e umanità! Grazie che je danno l’Osc…il Nobel, scusa.»

«Beh effettivamente è stato notevole…»

«Mica solo notevole!!» mica me fa finí de parlà… «tiè guarda!» aprendomi una pagina del settimanale che ritrae una foto ripresa dai festeggiamenti delle Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane per l’accordo raggiunto «guarda come sò tutti felici pe sta cosa, era ora, era. Noi siamo bravi a giudica…poi quando se tratta de fà…ce magnano in testa pure i colombiani. Prendi Grillo no…la Raggi…che stai a ffà? Niente…dici tu…invece no, stai a ffà» scandisce con vigore «e se ne rendono conto pure qua» mentre sfoglia ardentemente il giornale alla ricerca del servizio citato «che dice che sembra che non fà, ma invece fà e all’estero lo sanno…noi invece non sappiamo manco più che vor dí de sinistra

Cerco di approfittare del flusso della gente che sale e si inserisce tra noi due verso Lungotevere De’Cenci, ma niente, lui si svincola, sguiscia rapido e mi si ripropone davanti:

«perché è scomparsa la sinistra, lo sai si? L’hai più trovata te? Eh no…lo dice pure Harris, tiè, qua su L’Internazionale…è tutta ‘na “pasokificazione” la nostra…» guardandomi come a scrutare la mia reazione a quel termine e, al contempo, a cercare di ricordarsi se l’ha detta giusta.

Cinque. Le fermate che ancora mancano. Mortaccivostra, l’eco che ancora rimbomba, mai come ora più forte, nell’ufficio vecchio a Piramide. Blu, la camicia di flanella a quadri del tizio:

«che poi volemo parlà de quanto è contraddittorio l’Iraq? Lo dice L’Internazionale eh, e inoltre…».

Al che capisco il gioco. A tre fermate dalla salvezza, capisco il meccanismo. Ripasso a memoria l’indice di Internazionale che, per sommi capi, avevo spizzato su internet qualche giorno prima e gioco il jolly:

«ma invece della legge elettorale che ne pensi? Cioè del casino che c’è stato coi franchi tiratori dico?» panico.

Il tipo si blocca tra un «conflitto siriano» e un «Ali Bongo rieletto in Gabon». Gli occhi si fanno piccoli dietro le lenti, la mano che stringe il giornale si inumidisce, assumendo di getto, sulle dita, lo stesso colorito della copertina che intanto stinge. Riflette, pensa, rimugina e cerca di ricordare…

«Largo Fiorentini – fermata Fiorentini»: lo sguardo torna a brillare, rapido, scaltro e veloce, afferra tutto il suo coraggio e, urtando tra la gente, prima di scendere, urla a mo’ di mantra indiano:

«Bilancia, ti sei liberata di un irritante demone…Cancro, lasciati entusiasmare e trasformare…Acquario, aspettati un sogno profetico…».

Ma niente, Brezsny stavolta non lo può salvare. L’ho fregato: del referendum non ne parlava L’Internazionale di oggi. E scendo anche io, dopo Traspontina.

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di
Lorenzo Desirò

 

Ore 21.45.
Gli autobus 504 e 551 sono fermi alla stazione di Anagnina. I due sono affiancati l’uno all’altro. Scaldano i motori. Arrivo sul mio 504 e mi siedo in una fila di mezzo. Sono l’unico passeggero.
I centimetri che separano i due auto non sono molti: forse neanche mezzo braccio di distanza l’uno dall’altro. Con la testa appoggiata al finestrino guardo i passeggeri del 551, saranno una decina in tutto, coi volti stanchi e solcati dalla stanchezza della giornata lavorativa.
«LI HAI VISTI? LI HAI VISTI? ‘STI PEZZIDEMMERDA!»
Come comparso dal nulla un ragazzo corre verso di me. Si ferma accanto al mio sedile. Rimane in piedi e guarda quelli dell’auto di fronte e continua ad urlargli contro: «APEZZIDEMMERDAAA! A MMERDEEE! A SSTROOONZIII!»

Avrà poco più di 20 anni. Fisico asciutto, capelli neri e corti rasati ai lati.  Occhiali da sole giganti a mascherina. Insensatamente enormi a coprirgli metà viso (inutile stare a chiedersi perché indossi occhiali da sole a pochi minuti dallo scoccare delle dieci di sera).
È palesemente gonfio di coca.
Sul 504 ci siamo solo io e lui.
I passeggeri del 551 alzano il capo per dargli un rapido sguardo e lo ignorano. Lui, sempre in piedi al mio fianco, inizia a intonare un coro sempre indirizzato a loro:
«MERDE SIETE E MERDE RESTERETE!».

La sua mascella si muove in continuazione. Lui salta. E suda. Ma credo che suderebbe anche senza saltare.
Poi mi guarda e urla: «AOH!, AOH! CANTA CON ME!»

E inizia a intonare un altro coro indicando gli stanchi passeggeri del 551: «E CHI NON SALTA È COME LOROOO OOOOOOOOOOOOOO».

I passeggeri del bus di fianco continuano ad ignorarlo completamente.
«E CHI NON SALTA E’ COME LOROOO OOOOOOOOOOOOOO»

Il 551 accende i motori e parte.
Il tizio ride sonoramente: «scappano sempre ‘sti conigli». E rivolgendosi all’auto in lenta e monotona fuga: «CONIGLI!!!».

E l’autobus coniglio scompare dal nostro orizzonte.
«Quelli del 551 so’ i nemici. Partono sempre prima. SEMPRE! E noi mai, mai mai che partimo prima de loro. A pelato noi arivamo a casa sempre più tardi de quelli. Loro so’ come la Juve, arivano prima, sempre.
Però… però è facile. E’ facile essere del 551, è facile tornare a casa con un autobus che parte ogni 10 minuti. Così come è facile tifare per la squadra che vince sempre. Però. NOI semo più belli. Noi del 504 semo più veri. Noi semo er popolo. Noi semo quelli che soffrono e che c’hanno poche soddisfazioni ma quelle poche gioie so’ belle, so’ vere. Quant’è bello quanno arivamo in stazione e l’autobus sta già lì, ci aspetta e noi salimo e il 504 chiude le porte e si parte subbito verso casa? Quant’è bello? Queste sono le gioie. E comunque tra di noi del 504 ce volemo bene perché soffriamo e esultiamo e ci abbracciamo tutti insieme. Ogn’attesa infinita sulla banchina, co’ la pioggia, co’ la neve, cor sole, cor vento, noi la famo insieme, tutti insieme. Ogni incidente, ogni guasto ogni ritardo de sto autobbus noi li viviamo insieme. Tutti insieme. E ariverà, ariverà il momento che partiremo prima noi del 551, ariverà.  Tocca solo aspettallo…»
Non avevo mai notato che il 551 parte sempre prima di noi del 504.
Inizio a pensare che il tizio non ha tutti i torti… Inizio ad avvertire un certo fastidio verso il 551.
Il ragazzo va a sedersi in fondo all’auto, alle mie spalle. Non lo vedo ma lo sento.
Sento il suo naso tirare continuamente su e sento i cori che mi accompagneranno per tutto il viaggio:

«e juve mmeeerda e juve mmeerda e juve mmerdaaa juve juve mmeeerdaaaa»

Il 504 parte.