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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

– Siamo tutti ordinari. Siamo tutti noiosi. Siamo tutti spettacolari. Siamo tutti timidi. Siamo tutti in grassetto. Siamo tutti eroi. Siamo tutti impotenti. Dipende solo dal giorno.

«Ora ci credi. Ora è il momento. Non c’è più tempo, quasi…». Queste ultime parole escono dalla bocca e dai pensieri di Alfred con un tono totalmente diverso da quello usato per il racconto: serio e solenne, mentre scambia uno sguardo d’intesa con Batman, sul cui volto ora è scomparsa anche quell’ombra amara di solitudine che lo accompagnava sempre nei nostri ultimi “incontri”. Sono lì entrambi, uno avanti e uno dietro, più veri e tangibili che mai. Batman mi guarda, in silenzio, e noto che in mano ha qualcosa… qualcosa per me? Un fagotto di carta. Giornali avvolti tra di loro. Giornali e riviste che riportano le notizie e i titoli delle sue azioni leggendarie. Articoli che parlano di lui e lo ritraggono in compagnia del suo fido alleato, del suo compagno di venture e sventure. Il classico simbolo del pipistrello al centro del torace di lui, un cerchio nero con una R gialla sul petto dell’altro, più giovane.

L’altro. Il ragazzo. R. Robin.

«Aprilo, Ragazzo, guarda dentro» mi fa Alfred con un sorriso sornione, accennando due passi indietro. Strappo via la carta, di fretta e senza pensare. Il 766 corre e non fa più fermate adesso. O forse le fa, ma non importa: tutto vortica attorno a me. Batman, Alfred, il Jocker, la folla che è ormai solo un ammasso di sagome. Il 766, il ragazzo con la vitiligine, il Batman vecchio, stanco e derelitto. La donna dagli occhi da gatto, “e dire che allora”: tutto ruota veloce e si ferma sull’oggetto all’interno del pacco: un costume. Rosso, maniche verdi come i guanti regalatimi la volta scorsa, un mantello giallo con la R cucita sul petto.

Una volta aperto l’involucro, dall’interno cade svolazzando un altro foglio di giornale: “Continuano i furti di Testa di Demone. Chi è il pericoloso terrorista che si cela dietro quel satanico simbolo? Siamo sull’orlo di una guerra batteriologica?”. Questo il titolo che campeggia centrale. Impietrito e sconnesso, sento solo una mano che si appoggia sulla mia spalla.

«Bentornato, ragazzo. Bentornato, Robin» mi fa, e all’istante mi si gela il sangue. Vorrei dire tanto, vorrei chiedere tutto e chiedermi mille perché.

«Tocca a me, Batman?» esce invece, quasi meccanicamente, dalla mia bocca.

«Tocca a noi. Scendiamo, la macchina è parcheggiata a Grotta Perfetta.»

Mentre indosso la maschera, la blusa e il mantello, Batman mi guarda, braccia incrociate e sorriso sicuro. «Lo fermiamo?» domando. «Ricordi come si fa?» mi chiede. Sorrido e scendo al volo dal finestrino aperto (non chiedetemi come diavolo abbia fatto, ma so farlo, me lo ricordo!). Scende anche Batman, scuotendo la testa tra un sorriso e un’occhiataccia.

«Signore!» urla Alfred da dietro, rincorrendoci e reggendosi il cappello da perfetto omino inglese, «difficile che riusciate a guidare senza queste…» e ci lancia le chiavi.

«Vecchio Alfred – fa Batman voltandosi e afferrandole al volo – senza di te, mi scorderei tutto, anche il passato.»

Fine.

 

 

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

– La vita, la sventura, l’isolamento, l’abbandono, la povertà, sono campi di battaglia che hanno i loro eroi: eroi oscuri a volte più grandi degli eroi illustri.

…My need is such I pretend too much / I’m lonely but no one can tell / Oh yes I’m the great pretender (ooh ooh) / Adrift in a world of my own (ooh ooh)…

Grande Freddie. Brividi: ogni volta che lo ascolto mi vengono i brividi. E il viaggio sul 766 scorre rapido. Rapido e indolore… anche se tra tutta ‘sta gente rimanere in piedi è un po’ come fare l’equilibrista: sembro un circense. Tiè, guarda che equilibrio, neanche gli scossoni del 766 che s’impantana nelle pozze grigie che la pioggia battente ha riempito per tutta la giornata mi spaventa.

I’m wearing my heart like a crown / Pretending that you’re still around…

Yeah ooh…

«Ah, i Platters! Gran gruppo: ricordo che da giovane era uno dei miei pezzi preferiti… eh, gli anni ’50» fa all’improvviso il signor Alfred, e la sua voce mi giunge come dalle cuffiette del cellulare che, nel frattempo, ha fatto partire Rockin’ Robin.

«Signor Alfredo, buonasera. Non l’avevo vista, ma speravo di incontrarla. L’ultima volta mi ha lasciato con l’ennesimo interrogativo aperto: ho il cervello in bilico come un trapezista – ancora paragoni circensi, penso – e non vorrei cadere, insomma…»

«…eh sì – continua Alfred, come perso nei ricordi – gli anni ’50… sembrano passati più di 50 anni. Eh R,. ascolti buona musica, bravo. D’altronde l’animo dell’artista lo hai sempre avuto, lo hai ereditato dai tuoi.»

I miei? Un insegnante di asilo e una logopedista? Cosa c’è di artistico nella logopedia, mi chiedo. «Signor Alfred – provo a svegliarlo dalla sua estraniante estasi, quasi psichedelica – cosa c’è di artistico nella logopedia?».

Niente. Non mi guarda, non risponde: è nel suo mondo.

«Vedi R., non appena si accendevano le luci tutt’intorno, il pubblico rimaneva muto, occhi e mente fissi a quel cielo blu pastello. I tamburi rullavano, i clown smettevano per un attimo le loro pagliacciate, le tigri si calmavano, gli elefanti, muti, alzavano le loro proboscidi: mentre loro volavano, roteavano nell’aria, si scambiavano sguardi e posizioni, cenni e piroette. Era la magia dell’equilibrio disegnata sulla linea dei sogni. Erano perfetti lassù, a volteggiare tra le stelle.»

«Guarda – fa poi, riprendendosi e tirando fuori dal portafogli una vecchia e sgualcita fotografia – ero come uno zio, per loro. Questa la scattammo il giorno prima che… vedi? C’è la data…»

16-05-1990: una giovane coppia sorride all’obiettivo e al centro, come ad unire i due, un bimbo. Indice in bocca, sguardo accigliato e cappuccio rosso della felpa sulla testa, tiene le loro mani e quasi non fa caso alla posa da assumere.

Ma certo, penso con aria intenerita, il buon vecchio Alfredo sta pensando a questa famiglia di circensi, probabilmente suoi parenti. «16 maggio del ’90, io avrò l’età di questo bambino qui. Ma chi sono? Ma poi il giorno prima di cosa? Che è successo il 17 maggio?»

Ora sono curioso. Dannato Alfred, è riuscito di nuovo a mandarmi in tilt il cervello…

How many roads must a man walk down / Before you call him a man…

Su queste note, intanto, il 766 riprende la sua marcia, lenta quest’oggi, compassata e nostalgica, quasi. Come ad accompagnare il tutto, inizia a piovere e, dal finestrino semi aperto del bus, qualche goccia, tonda e lieve, cade sulla fotografia. «Ogni volta – fa Alfred senza riuscire a nascondere il leggero tremolio che condiziona le sue ruvide mani – ogni volta che parlo di loro, il cielo se ne accorge. La domanda, caro R., non è chi sono loro ma chi sei tu. R., chi sei tu? Hai ancora lo stesso sguardo accigliato, ogni volta che non capisci. Ricordi?

Nelle notti buie e nere sta avanzando un cavaliere/ non ha sella né cavallo ed è nero il suo mantello/ Lotta contro l’ingiustizia, la sua arma è la furbizia./ Non è solo ma ha scudiero che lo segue sul sentiero/ sembra grande ma è un bambino ed ha il nome di uccellino/ con l’eroe corre e si batte contro mille malefatte/ contro mostri orchi e goblin, sempre insieme…»

«…Batman e Robin!». Chiudo quella filastrocca sciocca quasi senza pensarci, con naturalezza, e la cosa mi spaventa. «Come… come sai – domando ad Alfred con la bocca impastata di ricordi – questa canzone? Signor Alfredo, chi sei?». Quelle stupide rime avevano risvegliato dentro di me un vortice di immagini lontane, sfocate. Quelle strofe… le conosco benissimo, ma non ho idea del perché. Le immagini nel mio cervello, inizialmente annebbiate, si fanno più nitide: un letto, il mio probabilmente, ed una donna… mia madre. Ma non quella che conosco, non quella che mi aspetta a casa e che ritrovo ogni sera, non la logopedista… no. È diversa, e ha… il mio stesso sguardo. Canta. Canta questa filastrocca, la sussurra quasi e mi abbraccia. Ora in un vicolo… dopo una serata passata… al circo. Ancora mia madre e c’è anche mio padre… il mio vero padre. Mi abbracciano entrambi… e con l’ultimo respiro intonano ancora questa maledetta, ingenua, meravigliosa storiella. Voglio urlare, forse piangere, ma riesco solo a fissare Alfred ripetendo a mente le ultime due strofe.

«Guarda R., guarda qui» Alfred mi porge una seconda foto. C’è ancora quel bambino, un po’ più grande. Ha sempre quella felpa con il cappuccio rosso sulla testa. L’espressione è arrabbiata, il volto corrucciato. Appoggia la mano su un antico pianoforte sul quale sta una cornice: dentro, un’immagine di due equilibristi che, in aria, si congiungono in un eterno abbraccio. «Questa è casa mia, Robin, e questo sei tu, vedi?» mi domanda toccandomi la cicatrice sul sopracciglio destro che, ormai, non ricordavo neanche di avere: la stessa del bambino nella foto che si scorge, in primo piano, poco sotto il lembo del cappuccio.

«Qualche giorno dopo, dall’ospedale in cui ti trovavi, ti portarono da me: ero l’unico “parente” che avevano i tuoi, un vero e proprio zio per loro e anche per te. Ma non potevo accudirti per sempre: il lavoro dal signor B. mi allontanava costantemente e nonostante ti portassi con me quell’ambiente non era adatto per un ragazzino. Certo, ti dimostrasti utile con lui, lo aiutavi, imparavi e crescevi ma, arrivato ai 10 anni avevi anche bisogno di… di una vita normale, ecco. Così ti affidammo alla famiglia che ti ha cresciuto fino ad oggi: è grazie a loro se hai superato quel trauma, ma contemporaneamente hai anche dimenticato chi sei, per vivere un’adolescenza più felice, normale. Ma ora B. ha bisogno di nuovo te, perché…

sembra grande ma è un bambino ed ha il nome di uccellino/ con l’eroe corre e si batte contro mille malefatte/ contro mostri orchi e goblin, sempre insieme Batman e Robin…».

Come evocato dai ricordi, dalla nebbia mentale che mi attanaglia o dalla pioggia che il cielo continua a far cadere sul 766, che ormai viaggia in un non-tempo all’interno di uno spazio che racchiude solo noi e il nostro mondo, tra la folla spunta Batman.

«Ultima fermata, Robin. Bentornato.»

[continua…]

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

– Chi è più solo di un eroe?

 

L’amore ai tempi del 766. Oddio, se l’amore avesse proprio gli stessi tempi e i modi del 766 sarebbe un’interminabile agonia: incontri e scontri casuali, scossoni, ritardi, fermate saltate, titoli non convalidati o convalidati a metà come gli sguardi, distratti e non, lanciati alla moretta che siede poco avanti. Oddio, forse invece l’amore è proprio come stare sul 766: soli per tutto il tragitto, finché non ci si rende conto di aver suonato la stessa ferma… non faccio in tempo a concludere questo malsano quanto inutile pensiero che lo vedo, come ogni lunedì sera, palesarsi all’improvviso nel mezzo della folla. Batman: tra me e la moretta dai ricci scomposti e selvaggi che ogni tanto mi spizza con occhi taglienti e felini, ignara della presenza del “folle” Cavaliere Oscuro. Quasi quasi mi alzo e lo saluto, penso, e gli chiedo anche spiegazioni su ‘sti gadget che mi ha dato Alfred, o meglio, il signor Alfredo. Invece no: rimango lì, seduto sul solito sedile del 766, a guardarlo da lontano. Ha catalizzato la mia attenzione più della moretta che, intanto, dopo due fermate andate a vuoto e un tentativo di sorridermi, è scesa ed è andata via: proprio come l’amore.

‘Sto tizio mi fotte il cervello, ripeto tra me e me mentre continuo a scrutarlo dauna distanza che sembra chilometrica, ma che in realtà è dannatamente breve. Più mi sforzo di guardarlo e analizzarlo e più, ogni volta, sembra diverso, più giovane.

«Ma è più giovane, cazzo!» esclamo a bassa voce. È sicuramente più giovane: spalle larghe che fanno da cornice ad un petto aperto e muscoloso. Maschera ben aderente al volto e sguardo che fuoriesce tagliato e severo, ma pacifico, dalle fessure degli occhi. Non è più impacciato ma, anzi, fa sentire gli altri attorno a sé in difetto e fuori contesto. Sì, ha qualche ruga agli angoli della bocca, ma la sua figura, in quella calzamaglia non più buffa e lacera, si staglia perfettamente al centro del 766: è suo quel posto, è suo quello spazio. Sicuro e serioso, ma triste e tremendamente solo. Forse anche per lui il 766 è una metafora d’amore, in quella solitudine di cui è protagonista?

«Sai R., anche lui è stato innamorato una volta. Anche se non lo ammetterà mai, anche lui si innamorò: ed è successo proprio qui, sul 766». Alfredo, penso, e come ti sbagli, mi domando. Puntuale, proprio quando non se ne sente la necessità, come il 766… «Beh sì – interrompe i miei pensieri senza attendere un mio intervento, tanto con lui pare non ve ne sia il bisogno – magari il 766 è stato sempre in ritardo, ma ti dico, caro R., che qui, puntuale, nacque un amore. Sempre seguendo un percorso particolarmente tortuoso e dai tratti noir, ci mancherebbe: d’altronde, è il suo stile. Ascolta, magari serve anche al nostro scopo». Fingendo di non aver visto lo sguardo complice che i due, Batman e Alfred, si sono lanciati a distanza (Alfred è buffo, penso, quando fa l’occhiolino: piega la testa nella stessa direzione a cui rivolge il cenno), e rimango in silenzio, semplicemente ad ascoltare.

«Notte. È la notte, d’altronde, il miglior palcoscenico per gli amanti. Il 766 era affollato e un mare di gente si accalcava su quello che sembrava più il vagone di un carro bestiame che un bus. Gente sudata, gente che sbuffava ovunque e condensa che aumentava sui finestrini. Il vociare era assordante, anche se ognuno pensava a sé e, quasi, parlava da solo: un vociare di singoli pensieri che creava un chiassoso caos. Come al solito c’ero anche io, di ritorno da alcuni servizi per… beh, non importa. In fondo al bus una ragazza, statura media, corporatura esile. I suoi capelli castani e vaporosi dovevano dare, al tatto, la stessa sensazione che dà il velluto. Lunghi, seguivano ondeggiando i movimenti rapidi delle espressioni del suo viso, bianco come le stelle di notte, spigoloso e pungente come il vento quella sera. Notevole, pensai. Ma quello che non si poteva non notare erano i suoi occhi: lucenti e profondi, misti d’agata e metallo, fiammanti e crepitanti, quasi come due finestre che permettevano di vedere altri universi. Non importa il colore, era cangiante, quasi diverso a seconda di dove guardasse. La mia attenzione era tutta rivolta ai suoi occhi acuti e felini, mossi da una danza nervosa fatta di scatti; tanto mi ero perso nel mondo che essi proiettavano che inizialmente non notai i suoi artigli: più rapidi e veloci dei suoi sguardi. Approfittando di un lieve scossone, di un urto improvviso del 766, furtivo fu il suo gesto e, tra la folla ingenua e assente, veloce la sua mano. Una ladra, pensai, ma non dissi nulla, quasi ipnotizzato da ciò in cui mi ero avventurato con la mente e con i sensi. Fatto sta, caro R., che la ragazza, svelta e dalle movenze sinuose, si districò tra la gente senza sfiorarla, senza fare rumore, avvicinandosi alla porta per scendere alla fermata successiva. Ma, come anche tu ragionavi poc’anzi, è forse l’amore una fermata del 766? Non fece in tempo a scendere dal bus, a respirare l’aria della fresca libertà che da dietro fu braccata e risucchiata nella “cagnara” a lei ostile e, con un lamento simile ad un flebile miagolio, spalancò gli occhi disorientati e smarriti: due braccia possenti, sovrastate da un mantello nero, la bloccarono. La lotta tra amore e libertà aveva inizio. Si girò, rapida, sfoderando le sue armi: unghie affilate e curate, taglienti quanto i suoi occhi. Si agitava e dimenava, si sforzava per uscire dalla morsa potente ma allo stesso tempo sicura e protettiva di Batman. E fu lì che scattò, ragazzo. Fu lì che la fermata dell’amore non saltò, quella volta, ma anzi suonò puntuale. Questione di un lampo, un incrocio di pensieri e di universi paralleli, prima che di sguardi. Quell’attimo, R., durò in eterno: c’ero io a distanza, quasi in trance, al centro del 766, e loro, in una posa talmente innaturale da sembrare artistica. Tutt’attorno, acquarelli sbiaditi di singole umanità, dettagli che si scioglievano ai margini di quell’abbraccio così forzato da apparire voluto. Lo vidi. Vidi tutto l’amore che mai lui aveva provato e che mai più, da allora, provò. Alla fermata successiva, la lasciò andare. Lei si scosse, si riebbe spegnendo in un lampo il crepitio felino che li aveva uniti. Scese, lasciando in lui tutto di lei: la prima vera sconfitta dell’uomo Batman, la giustizia che si piegava all’amore… peccati di gioventù, insomma.»

«E la rivide?» chiedo come se fossi stato anche io con lui su questo stesso 766, in quel giorno indefinito.

«Oh sì – fa lui, scendendo e dandomi le spalle – ma non fu mai come quella volta.»

Quindi, bloccandosi insieme alla corsa del bus, dopo un profondo sospiro, inaspettatamente mi fa: «La prossima è la tua fermata, R. Tocca a te, ora».

[Continua…]

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

– Senza eroi, siamo tutti gente ordinaria, e non sappiamo quanto lontano possiamo andare.
– Quello che la gente ama più dell’eroe è vederlo cadere.

 

Il primo dei tre… ricordo che aveva dei capelli a ciuffi verdi, una faccia pallida da far paura e un rossetto che gli copriva le labbra al punto che il rosso andava ben al di fuori degli estremi della bocca, quasi a disegnargli un ghigno perenne sulla faccia: sembrava un fottutissimo clown, anzi, un joker, come quelli che trovi sulle carte da poker.

Con un salto e con l’aria da gradasso, togliendole le cuffie, fece alla ragazza: «Oh deliziosa delizia e incanto, cosa c’hai sorellina per ascoltare quei tremoli suoni sonori? Scommetto che hai solo un povero piccolo patetico smartophono da pic nic! Vieni dallo zio a sentirlo per bene! Ho gli arcangeli con le trombe e i diavoli coi tromboni, sei invitata e sta’ attenta. Sta’ bene attenta alla risposta, oh fanciulla, se della vita la continuazione a cuor ti sta. Dolcezza, stasera hai portato il sorriso sul mio volto!»

Un matto, avrà pensato lei; non riuscì a spostarsi di un millimetro che subito si trovò accanto il secondo.

Quello, una sorta di hipster basso e cicciottello, dallo stile un po’ vintage, aveva con un cilindro viola in testa.
Nella mano destra stringeva una sottile sigaretta, nella sinistra un lungo ombrello nero. Tutto avvolto in un frac con la coda di una misura più largo, sporgendo il tondo viso dal naso aquilino verso il regolare ovale di lei, si rivolse al Joker con tono secco e tagliente: «Smettila, idiota! Non vogliamo certo spaventare questo bocconcino. Oh no… noi non vogliamo spaventarla, noi vogliamo di più!»

E, subito dopo aver accompagnato il tutto con una risata gelida, con repentino gesto morse l’orecchio della poverina, facendole strozzare in gola un “Basta!” bloccato sul nascere dalla mano ossuta e macchiata del terzo.
«Zitta!» fece quest’ultimo, un ragazzo alto con un ciuffo bianco e il viso che, per metà rovinato dalla vitiligine, presentava delle chiazze opache e bianche solo da un lato del volto.

«Non provare a urlare, non rendere tutto più difficile. Lasciamo che a decidere sia la cieca fortuna… Ti va, bocconcino? D’altronde – cacciando dalla tasca del jeans una moneta con due teste – il caso e gli umori governano il mondo no? Ahahah.
Testa scendi con noi alla prossima fermata, croce la tua vita è salva e torni a casa da mammina e tutto questo sarà stato solo un terribile incubo, e noi tre soltanto dei bislacchi cavalieri oscuri che hanno un po’ giocato con te, che ne dici eh? Ahahah.».

Insomma, era troppo. Capii che dovevo fare qualcosa. Non feci in tempo ad alzarmi per immolarmi in difesa della ragazza che una mano, possente e decisa, mi bloccò la spalla facendomi ricadere sul sedile.

«Sta’ buono, Alfred. Ci penso io.»

Da dove era entrato? Non ne ho idea! Da dove arrivava? Nessuno può saperlo. So solo quello che vidi, ragazzo, e fu stupefacente.
In un attimo arrivò in fondo del 766 e nel giro di due minuti BOFF!, BAM!, WHACK!, CRASH! e li mise al tappeto.
Alla fine, mentre i tre gaglioffi tentavano goffamente la fuga, afferrò per il collo il Joker che, biascicando dal sorriso grondante sangue, optò per la strada del lamento: «Ti prego, io… io sono buono, sarò buono, voglio essere buono! Voglio essere, per il resto della mia vita, solamente un atto di bontà. Non uccidermi!»

E lui, alzandolo con un braccio: «No, no. Non ti ucciderò. Ma voglio che tu mi faccia un favore: devi parlare di me a tutti i tuoi amici».

«Ma chi sei?!» gli domandò il giovinastro.

«Io sono Batman.»

In un lampo lo scaraventò fuori dal 766 e, con un salto repentino, scese subito dopo, a Grotta Perfetta, ma non prima di avermi lanciato uno sguardo complice.

 

 

«Wow – rispondo, come ripresomi da una lunghissima trance – storia… intensa. Ma – indicando Batman – intende lui, signor Alfred? Io credo che lei ogni tanto confonda l’immaginazione con i ricordi, e la realtà con… ma dove è andato?»
Faccio per cercare Batman che nel frattempo, al solito, è scomparso.
Tempo di distrarmi per girarmi di nuovo verso Alfred che non trovo più neanche lui. Al suo post,o dei guanti verde bottiglia e una mascherina nera con un bigliettino sopra:

“Si possono chiudere gli occhi sulla realtà, ma non sui ricordi. Ah, questi sono i tuoi e… posso chiamarti R., ragazzo?”

[continua…]

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

– Senza eroi, siamo tutti gente ordinaria, e non sappiamo quanto lontano possiamo andare.

– Quello che la gente ama più dell’eroe è vederlo cadere.

 

…i tuoi calzini… questi sono i tuoi calzini. Ragazzo. Proprio non ci arrivi? Ragazzo! I tuoi calzini… ricordi? Ricordi? Ricordi? Ricordi? Rosso…

Il risveglio improvviso sul 766 è più traumatico di un pugno alla bocca dello stomaco che spezza il respiro. L’aria, in un attimo, torna a girare nei polmoni e arrivando alla trachea viene espulsa insieme a un breve rantolo di tosse.

Cazzo di incubo, penso ancora scosso da quell’inquietante assopimento. Intorno a me il solito popolo del 766. Le solite facce stanche e stravolte, le solite espressioni disilluse e assonnate.
La classica piatta attesa di una fermata.

Chi è il signor Alfredo, mi domando ancora inquieto, e perché dice di conoscermi? Dannazione, mi ha intrippato il cervello con tutte quelle storie, con tutto quel suo fare tra il misterioso e il filosofico: da un grande potere derivano grandi… ah no, quello era Spiderman, penso imitando a mente la sua voce.

Quella storia di Batman, poi, non ha fatto altro che farmi rimuginare per 5 giorni interi… che cosa dovrei ricordare? A cosa dovrei arrivare? Mah.
Fichi i calzini però, concludo sbarazzandomi dei pensieri che sbattono tutti contro un mentale vicolo cieco.
Nell’ammirare i calzini regalatimi (o restituiti?) da Alfredo, messi per la prima volta oggi, con lo sguardo vado all’articolo del giornale che raccolgo dal pavimento del 766:

«Bioterrorismo – Testa di Demone colpisce ancora: il terrorista o il gruppo di terroristi per il quale la stampa ha coniato questo originale soprannome per via del simbolo lasciato ad ogni furto di materiale chimico (una testa di demone o comunque un simbolo satanico accompagnato da scritte arabe) ha trafugato ingenti quantità di gas nervino e altri agenti radioattivi e biologici potenzialmente pericolosi per la collettività da un camion che principalmente trasportava iridio. Ancora sconosciute le cause di questo atto, compiuto, si teme, per la creazione di armi batteriologiche atte a…»

«Lascia stare quella roba, ragazzo. Non è ancora il momento. Dài qua…» il gesto, più repentino del consiglio ma al contempo paterno, è il preludio di un «Salve ragazzo, buonasera» che mi suona ormai familiare e, quasi, lo ammetto, rassicurante.

«Oh, signor Alfredo, buonasera a lei. Come va? Non è il momento per cosa?».

«Lascia stare, ragazzo, il momento arriverà e sarai di nuovo in grado di entrare nel paradiso dei ricordi».
Matto, penso. Completamente andato, mi ripeto lasciandomi sfuggire un sorriso accondiscendente.

«Intanto voglio raccontarti una storia. Anzi no, voglio raccontarti un attimo, un attimo ben fissato nei miei ricordi, un attimo che riguarda lui…» neanche il tempo di finire la frase e eccolo di nuovo: Batman.

Questa volta è completamente ritto sulla schiena e, sul petto, la toppa gialla con il simbolo nero del pipistrello si allarga ad ogni suo lento respiro. Il disegno è, ora, quasi del tutto visibile, se non fosse per il mento che si appoggia sull’estremità alta dell’ellisse. Il mantello è più lungo e meno grigio del solito: direi nero o, meglio, nero opaco, e la maschera, seppur ancora spezzata e con una crepa di lato, sembra dargli, questa volta, un briciolo di dignità in più. «Non può essere – lascio sfuggire ad alta voce – sembrerebbe davvero…», «Non sembrerebbe, ragazzo… è. Ascolta» mi interrompe il signor Alfredo.

Anche il signor Alfredo è diverso: sì, certo, ha sempre gli occhiali da sole e un cappello rotto in stile British, ma ha meno rughe e la voce è più sicura e profonda, priva della tosse e della fatica che l’accompagnavano durante gli incontri precedenti. Inizia, insomma, ad assomigliare ad un perfetto e distinto omino inglese.
Un omino inglese che ha iniziato un discorso del quale ho perso l’inizio:
«…d’inverno, quindi capirai, ragazzo, che il 766 era completamente vuoto, in più ricordo che pioveva quella sera. Oltre a me, che sedevo proprio qui, c’era solo un’anziana signora dagli occhi lattiginosi, probabilmente quasi del tutto cieca, la sua badante che non la perdeva un attimo di vista e dietro, in fondo, una ragazza, una studentessa universitaria, attardatasi probabilmente in facoltà. Insomma, dopo un paio di fermate, salgono dalla porta posteriore tre ragazzi, tre personaggi piuttosto strani, probabilmente in vena di bravate e Dio solo sa se sotto l’effetto di chissà quale sostanza.

Quell’ atteggiamento spavaldo e arrogante, insieme alle loro urla, attirò la mia attenzione. I tre, appena saliti, scambiandosi sguardi meschini, puntarono subito la giovane, già impaurita: e da lì a poco sarebbe stata terrorizzata…»

[Continua…]

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

 

– Non c’è eroe senza pubblico.

– La nazione che dimentica i suoi eroi sarà essa stessa dimenticata.

 

Morde il freno, il 776. Accelera per un attimo per poi inchiodarsi di botto, repentino e macchinoso come un transatlantico a vapore che non riesce a circumnavigare la punta dell’iceberg.
Lo scossone è forte, irritante e al contempo sordo quanto le reazioni mute ed inerti dei passeggeri. Spenti come il cielo livido di una Roma invernale, fiochi come le luci sporche del 776.

Qualcuno dorme, o almeno ci prova, facendo ciondolare la testa tra uno scossone e l’altro. Qualcuno è perso nei ronzii del suo smartphone. Un bambino, approfittando della condensa umida posatasi sul finestrino del 776, traccia un segno, che diventa disegno: un pipistrello…

Batman! Penso rinvenendo dal limbo della mia fiacchezza serale. Batman prende quest’autobus, mi ripeto sorridendo tra me e me al ricordo del “matto” vestito da Cavaliere Oscuro e ripercorrendo quella sconclusionata conversazione avuta più di una settimana prima proprio qui, sul 776.

«Matto? Matto, sì… e dire che allora…». Di nuovo, quella voce, quasi come leggesse i pensieri e scrutasse l’anima, squarcia dapprima la mia coscienza per poi attirare la mia attenzione. Come l’ultima volta.

Il mormorio è accompagnato da un gesto repentino e sicuro che mal si scontra con la mano rugosa, molle e al contempo vellutato. L’uomo mi afferra il polso senza voltarsi, quasi ad impedirmi di ripetere il gesto involontario di guardare l’orologio.

«E dire che allora – riprende, saltando nuovamente tutti gli inutili convenevoli – quel matto era un eroe. Quel matto era Batman».

«Ah è lei – faccio con tono sorprendentemente distaccato– buonasera signor…?»

«Mi chiamo Alfredo e no, non risolvo i problemi». No, scherzo tra me e me, al più me li crea.
«Vedi, ragazzo – riprende senza aspettare il mio nome e aggiustandosi sul naso i soliti occhiali da sole – forse era davvero matto, lui. Lui ha sempre osato lì dove gli angeli temevano di andare».
Non faccio in tempo a spegnere lo scetticismo che è in me che, seguendo il suo cenno a guardare in avanti, lo rivedo.
Batman, o meglio, il tizio vestito da Batman, è di nuovo qui, sul 776.
In piedi, nella sua tutina sempre troppo stretta per quel fisico trasandato, ma leggermente più distinto.
Ha qualcosa di diverso, penso. Schiena più dritta? Mantello meno liso? Maschera tirata a lucido? Mah, mi rassegno, sta comunque fuori, concludo distogliendo lo sguardo.

«Sì, d’accordo, tutto molto intenso e anche un po’ teatrale, signor Alfredo, ma perché? Cioè non le chiedo chi è, perché ho paura della risposta e, soprattutto, ho paura del suo tono inquietante nel darmela, ma le chiedo perché? Perché è vestito così? Perché è qui? Perché su questo stramaledetto autobus? Perché sul 776!» urlo alla fine.

Tra una risata e un colpo di tosse, sotto lo sguardo di un passeggero che d’istinto si volta verso di noi infastidito, il signor Alfredo, scuotendo il capo e trattenendo il ghigno consumato dal tempo e dal tabacco, riprende e con solerzia mi domanda: «Proprio non ci arrivi, eh? – tossisce, invecchiando di 30 anni in un secondo – Proprio non vuoi sforzarti, eh? Il mondo è troppo piccolo perché uno come lui – indicandolo – possa sparire, per quanto in basso decida di scendere. Sai, ci vorrebbero 30 fermate per raccontartelo… cercherò di mettercene 10 o anche meno… la prossima volta».

Si alza, barcolla un minimo cercando di tenere l’equilibrio per arrivare a prenotare la fermata e immobile, sempre in piedi accanto a me, aspetta, guardando fisso in direzione di Batman, o meglio, del tizio vestito da Batman.
Intanto, il matto, lo strano, come ormai lo inizio a considerare, con un sospiro lunghissimo e faticosamente lento, si sfila un guanto bucato e con un gesto ancora più lento si allarga di un altro buco il vistoso e ingombrante cinturone giallo posto sopra un ridicolo mutandone nero opaco che è solo il culmine di un paio di fuseaux grigio sporco. Tempo di rimettersi il guanto, con la stessa fatica messa in campo per toglierselo, ed eccolo che scende a Grotta Perfetta.

«Mah – mi rivolgo al signor Alfredo, questa volta più calmo – davvero, perché? Perché qui? Perché il 776?»

«Beh – con voce che sembra provenire da una caverna – lo sanno tutti, ragazzo, Batman vive qui, a Grotta Perfetta. Ma nessuno sa in quale, ragazzo».

Pur rimanendo sbigottito, non riesco a trattenere un sorriso: «Ah – aggiungo mentre il signor Alfredo mi scavalca per scendere – io comunque sono…»
«Lo so – mi interrompe senza aspettare altro e ignorando la mia mano tesa – lo so chi sei, ragazzo. A proposito – mi fa prima di scendere alla fermata successiva – questi sono i tuoi calzini, ricordi?» e lasciandomi in mano delle calze rosse a pois verdi e con una banda gialla in punta, scende tossendo, ridacchiando e lasciandomi pieno di dubbi.

I miei calzini? Ricordi? Ragazzo? Batman? Ma che diavolo sta succedendo?

[Continua…]

 

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

– Un eroe non è più coraggioso di una persona comune, ma è coraggioso cinque minuti più a lungo.
– Sventurata la terra che ha bisogno di eroi.

Non era certo la prima volta che prendevo il 766 a quell’ora, per tornare a casa dal lavoro.
Il ritmo di tutti i giorni imponeva al mondo una cadenza costante e ben descritta dal movimento sussultorio di un autobus che, ciclicamente, conduceva con distacco irreale le persone alle loro case, alle loro vite, ai loro destini. Dentro il 766 un glorioso e silenzioso lamento di animi contorti, di menti in stand-by e di sguardi fissi in attesa che le porte si spalancassero nuovamente.
Fuori, la vita: con tutti i suoi difetti, i suoi nei e i suoi effimeri momenti di breve estasi.

Al centro il 766, ai lati la realtà.

Quello spazio divideva me e i miei taciturni e temporanei compagni di viaggio da ciò che la realtà ci offriva. Roma non era mai stata così vera e tetra fuori dal 766. La luce al neon, fredda e gialla, che illuminava a tratti i volti di ognuno di noi, metteva in risalto le espressioni stanche e rassegnate di chi non ha più illusioni, di chi ha solo santi contro cui urlare e più nessun eroe.

Fuori, per strada, sulla via della vita, il blu acceso e assordante delle ambulanze; il suono metallico e abbagliante delle sirene della polizia. L’intenso, ammaliante, ipnotizzante ripetersi dell’allarme dei vigili del fuoco. Panico e indifferenza. Stand-by quotidiano nel limbo del 766: ultima passerella di uno stop and go pronto a rianimarsi.

«E dire che allora…» sento sussurrare al mio fianco.

Mi risveglio dal torpore dei miei pensieri e, come a riacciuffare un filo dissipato di sinapsi, mi concentro e mi giro con lentezza.
«E dire che allora…» torna a ripetermi, girando il suo naso su di me, con la stessa identica mia lentezza.
«Ah sì, certo – mi riprendo di scatto – allora… le venti e zero ott… vabbè le otto e dieci insomma».
Il tizio accanto a me sorride. Scuote la testa abbassando lo sguardo nascosto da un paio di occhiali da sole e, di nuovo: «No, no… e dire che allora…».

“Me pare Slevin”, penso.

«…e dire che allora  – riprende d’un fiato – tutto questo aveva un senso. Tutto questo schierarsi, questa divisione. Ai lati il male: ovunque, per le strade, nelle piazze, insomma come adesso. Al centro il 766. Anzi più precisamente: al centro, lui – indicando con la solita lentezza una sagoma davanti a noi, chiusa e sfocata nella folla indifferente e spenta – l’eroe. Saliva, arrivava, sorrideva e con la mano sulla tua spalla ti proteggeva. Salivi sul 766 con l’ansia e la paura, scendevi con il coraggio di chi crede a una speranza».

«Ma chi – domando sbigottito e scettico – quello là? – voltando lo sguardo nel punto in cui l’indice punta – quello con la panzetta che gli esce da una maglietta troppo piccola e attillata? Con la schiena fatta a punto interrogativo? Quello che a malapena si regge alla maniglia? Quello con quella maschera? Vabbè, insomma, quello vestito da Batman?». La risata del tizio accanto a me è roca e sa di fumo e catarro; si spegne in un serio colpo di tosse. «Quello. Sì, quello. Quello – indica per farmi di nuovo voltare la testa – non è vestito da Batman. Quello è Batman».

Tempo di voltarmi, sbigottito ma anche divertito, che Batman (cioè insomma, quello vestito da Batman) non c’è più. Volatilizzato, scomparso, eclissa… ah no, eccolo, è sceso a Piramide, lo vedo dal finestrino: inciampa in una pozzanghera, sempre composto e un po’ storto, e cerca di asciugarsi lo stivale con i lembi un po’ umidicci e sfilacciati della nera mantella.

«Ma scusi…» cerco di obiettare al tipo che ha appena solennemente concluso la frase, prima di accorgermi che il tipo non c’è più. Volatilizzato, scomparso, eclissato: lui per davvero.

Se, vabbè. Quello…
Quello era solo un matto vestito da Batman…

…o no?

[continua…]

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di
Lorenzo Desirò

Illustrazione di Flavia Cuddemi

 

Il giorno in cui sono guarito è stato quando mi hanno portato in città.

Non fu, però, il bravo dottore di città da cui andammo che mi curò, ma le immagini che vidi nella grande metropoli.
Da circa un anno passavo intere e interminabili giornate da solo, a camminare per quel piccolo rettangolo di giardino che avevo a disposizione. Raramente scambiavo parole con qualcuno.
Nel poco spazio a mia disposizione, in quell’angolo di Terra abbandonato da Dio, ero ossessionato dai miei pensieri “cosa sto facendo?” mi chiedevo ad ogni santissimo risveglio.
«Possibile che sia tutto qui? Possibile che la vita si riduca ad un misero “occupare il tempo”? Possibile che non ci sia niente di più di questo misero “occupare questo spazio”? Possibile che tutto finisca in un attimo? E possibile che questo “tutto” sia una momentanea e insensata occupazione di spazio e tempo?».

Sentivo non solo di sprecare la mia vita abbandonandola ad un quotidiano sempre uguale, ma che una via di fuga da quel nonsense e da quella monotonia pareva non esserci.

Le domande mi assillavano sempre di più, giorno dopo giorno.
Mi sembrava di essere intrappolato in una grande gabbia, mi mancava il respiro e tutto ciò che vedevo intorno a me mi dava un senso di nausea.

Lentamente il mio malessere interiore iniziò ad intaccare il fisico.

Svegliarmi e iniziare la giornata divennero operazioni sempre più faticose. Smisi di fare passeggiate e a mano a mano iniziai a saltare i pasti.
Quelli che vivevano con me, i miei coinquilini, continuavano a ripetermi: «Mangia! Devi mangiare! Lo sai che fine fanno quelli come te?».
Io provai, vi giuro che provai ogni tanto a mangiare con gli altri, ma il cibo non scendeva: si bloccava in gola. Iniziai a perdere peso a vista d’occhio e sentivo una stanchezza sempre maggiore.
La più piccola e banale operazione divenne uno sforzo sovrumano, tanto che per parecchio tempo rimasi nel mio giaciglio senza riuscire a fare nient’altro.
Dopo qualche giorno di stasi totale, venni visitato dal dottore del paese che mi diede delle medicine ma non servirono a nulla se non a farmi sentire sempre più fiacco e stanco. Continuavo a chiedermi “come fanno tutti gli altri a stare così tranquilli? Come fanno a vivere sapendo che tutto ciò che facciamo non ha alcun senso?»

Mi portarono quindi in città, dove, dicevano, c’era un dottore bravo.

«Depressione» sentenziò il bravo medico «Lui è malato di depressione».

Le persone che mi avevano accompagnato dapprima si misero a ridere, poi, dopo essersi ricomposti sbottarono: «Depressione?! Ma come è possibile?! Gli diamo tutto ciò di cui ha bisogno! Ha un tetto che lo copre dal freddo e dalla pioggia e ha anche sempre cibo in quantità! Ha un appezzamento di terra che quelli come lui se lo sognano da altre parti! È libero di fare quello che vuole dalla mattina alla sera e non gli manca nien-te! Fa una vita da Si-gno-re! Depressione … Pff … La vorrei io una vita come la sua!».

Anche il dottore bravo (che chiamano “veterinario”) mi prescrisse dei farmaci ma, come vi ho detto, non furono quelle pasticche a guarirmi ma ciò che vidi quando mi caricarono sul retro del camioncino: schiere di uomini, di esseri umani, accalcati su un mezzo che era grandissimo, lungo e alto e conteneva tantissime persone. Ne conteneva così tante che la gente al suo interno stava stretta stretta e accalcata. Li vedevo correre per prendere quel camioncino enorme. Nel traffico delle vie, spiai le vite degli abitanti della città: gente che correva, che urlava, gente triste ai bordi delle strade, grandi, piccoli, uomini, donne, quasi tutti da soli. Molti sorridevano ad uno schermo. Pochi parlavano. Qualcuno di loro correva per scendere sottoterra. Quelli in superficie erano incastrati in piccoli camioncini angusti, suonavano il clacson e bestemmiavano contro chi avevano di fronte nell’altro piccolo camioncino che sembra di latta.

Mi chiesi a quel punto: “Chissà se anche loro soffrono? Sono come i miei coinquilini che non si fanno domande oppure se le fanno anche loro e nonostante tutto continuano ad andare avanti?
Gli uomini li ho sempre visti come una razza superiore, ma vederli lì, in città, tristi e urlanti tra lo smog, sotto un cielo plumbeo, sotto una coltre di rabbia e odio. Anche loro avranno piccole felicità a cui aggrapparsi, ma in fondo, anche per loro valgono le mie domande: possibile che anche la vita degli umani si riduca ad una mera occupazione di spazio e tempo? Possibile che anche loro non aspirino a niente se non ad avere un tetto che li copra, pasti in abbondanza e una piccola superficie in cui passare il tempo? A loro basta? Loro, che sono così superiori a Noi, quale chiave di lettura hanno trovato per andare avanti? Cosa faranno mai di così grandioso?”

Guardai per tutto il tragitto le loro azioni e i loro movimenti e le loro espressioni. Piano piano uscii dalla città e tornai al porcile.

Rimasi qualche giorno nel mio giaciglio a pensare. Le immagini della metropoli mi scorrevano davanti e rimasi a riflettere.
Arrivai alla conclusione che quella specie così superiore, in fondo non era così superiore.
Anche loro nascono, crescono e muoiono senza alcun motivo. Senza alcun senso. Nel frattempo mangiano, occupano spazio, occupano il tempo e si riproducono.
Sorridono a qualche ghianda di felicità.

Questo pensiero mi fece stare meglio. Ricomincia a mangiare, a ingrassare, a prendere peso. Le domande non sparirono, ma il pensiero di vivere una vita come quella degli umani mi faceva sentire meglio.

Nessuna vita ha un senso.

Neanche quella dei vegani.

 

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 di
Annalisa Maniscalco


Sul 117, direzione Popolo

Oggi è una di quelle giornate da ultima volta. Sarà per via del sole d’ottobre, non si sa mai quanto può durare. È anche un venerdì 13, e l’aria è lievitata, densa d’avvertimenti ma pure di luci succose. Per evitare rischi e rimpianti, rinuncio ai tunnel della metro e salgo piuttosto sul 117, uno di quei minibus elettrici che ogni tanto spariscono dalle strade di Roma, come le blatte d’inverno.

Il bus punta il Colosseo ma poi devia di colpo verso il Celio, passando in una feritoia tra certe mura vetuste e altre che sono solo molto vecchie. A via Claudia — pare sia più antica dell’Appia, con quel suo senso di pietra ineluttabile, gli alberi stupiti e i ciottoli a quattro ruote — sale una ragazzina: dodici anni, forse tredici, una treccia rossiccia sulla schiena, il busto ancora compresso e le gambe invece lunghe, ma immature, con ginocchia sbozzate sotto le calze bianche di non so che divisa scolastica. Batte tre colpetti sul vetro della cabina di guida; l’autista la guarda dallo specchietto e le risponde con un cenno, un pugno chiuso e un pollice in su. Quel gesto è una domanda, forse una consuetudine fra loro due, e la ragazzina risponde a occhi bassi, con un tremito del mento.

Il bus riparte, la ragazzina si siede composta di fronte a me, la cartella sotto il braccio e una custodia nera sulle pieghe della gonna; ma il suo piede destro, nella ballerina di vernice, batte un tempo asimmetrico e convulso.

Alla fermata del Colosseo — che è sempre una sorpresa, quando appare: un miracolo candido e massiccio, solido come certe improvvise decisioni — salgono tre liceali voluminosi, con le cuffie intorno alla gola e gli zaini semivuoti sopra gli omeri.

«Scusa Tommà, come hai fatto a saltarla?» sbotta una ragazza con un libro tra le braccia.

«Oh, senti, non ho fatto in tempo» risponde Tommaso, lanciando lo zaino in fondo al bus.

«Però la sapevi. No?»

Il ragazzo incrocia le braccia, appoggia la spalla a un sostegno e sogghigna.

«E ride! Te lo scordi che passo un altro pomeriggio a farti studiare.»

«Angè» interviene il terzo, biondo e sottile, che non ha smesso di guardarla da quando sono saliti, «l’hai capito, finalmente».

«Ieri, due ore solo sulla Monaca di Monza» si lagna lei, con un grazioso moto di riccioli neri, «e oggi questo ha il coraggio di lasciarla in bianco».

Si guardano, Angelica e il biondo, concordi su un punto e forse, chissà, volendo anche su altri, e l’equilibrio si sposta. Tommaso, che è imponente, sì, ma d’improvviso è anche solo, afferra il sostegno e tende le braccia.

«Ma sì che la sapevo» ammette, buttando gli occhi altrove, eppure tutto teso verso Angelica. E, a sorpresa, cita: «Non le bastava l’animo di spiattellargli sul viso un bravo: non voglio».

E non è nemmeno il passo più famoso . Angelica, il biondo, io, la ragazzina: lo guardiamo tutti. E Tommaso, ch’era già imponente e ora è tornato anche centrale, guadagna un sedile e si piazza le cuffie sulle orecchie.

A via Panisperna sale una donna, di quelle che possono pensarsi solo con un “Signora” davanti. Disdegna lo zaino di Tommaso con una specie di passo di danza, e bussa — non ha guanti, ma tra qualche giorno li indosserà di certo — sul vetro dell’autista.

«Mi scusi.»

L’autista le mostra il profilo.

«È vero che questa linea sarà soppressa?»

«Sospesa, signò. Da lunedì.»

La Signora si volta, appena sconcertata (il tutto si limita a una curva più acuta delle sopracciglia color ambra) e si accomoda accanto alla ragazzina, che d’istinto ha raccolto le caviglie sotto il sedile e ha raddrizzato la schiena.

E ora guarda fuori, verso via Nazionale, mentre Angelica finge di leggere, il biondo racconta una prodezza in motorino, Tommaso lo contraddice con occhiate scettiche, la Signora si liscia la borsa.

Ma in realtà l’aria è ferma, risentita, color ambra. Finché, davanti al Palazzo delle Esposizioni — un’altra visione in bianco —, la ragazzina si agita sul sedile, come se facesse no con tutto il corpo. Le tremano le dita di risolutezza mentre apre la custodia nera, monta un flauto traverso lucido di cure e d’esercizio, respira a fondo e si avvicina lo strumento alle labbra.

Il bus si ferma a un incrocio. La Signora batte le palpebre; qualcuno — forse il biondo — tossicchia.

E la ragazzina indovina la prima nota. Come se ce la aspettassimo tutti, come la suoneremmo tutti se solo sapessimo farlo. Lunga e pungente, ostinata come un’obiezione, poi sfuggente come un dubbio, infine sofferente: un pianto che squassa il torace. Il suono si divincola fra capriole e rovelli ma alla fine esce corposo e pulito, continuo e affidabile come una promessa, una rassegnazione — un accordo, quasi, se non fosse che ha una voce sola. E pare che non abbia gli anni della ragazzina, ma che riecheggi da sempre tra una finestra aperta e un muro di cinta.

C’è tutto questo, dentro al flauto della ragazzina, e in fondo al suo petto. Ma all’improvviso, a via del Babuino, l’ultima nota si svuota di colpo non appena le porte si aprono.

Nessuno ha prenotato la fermata, nessuno aspetta accanto alla palina. E nessuno fiata, nel bus: soltanto un sospiro metallico spira dalla cuffia di Tommaso, dimenticata sulle clavicole. L’autista fissa la treccia della ragazzina da dietro il vetro, come un pesce dal suo acquario, confuso — eppure, penso, lui è l’unico che sa, e le sta dando tutto il tempo che le serve.

La ragazzina guarda un punto davanti a sé, dentro un vicolo laterale; rabbrividisce, si alza e fa un piccolo inchino. Poi, senza fretta né ripensamenti, scende dal bus e prende un’altra strada.

Lasciando il flauto sul sedile.

Un momento ancora; e, alla fine, le porte si chiudono.

 

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Flavia Cuddemi

 

«Posso?».

Chissà se sono rimasto uno dei pochi a farsi ancora lo scrupolo di chiedere, prima di sedersi.
Questo penso, ma la signora grassottella, intenta a trovare combinazioni di caramelle e dolciumi sullo schermo del suo smartphone palesemente d’annata un po’ rigato, non mi degna di uno sguardo.
“Bene” mi dico tra me e me, e facendomi spazio tra un Samsung e un Huawei prendo posto sul treno che da Tiburtina mi porterà a Piramide.

Certo checcazzo, mi ripeto con un lieve senso di sdegno e di fastidio, tutti co ’sto telefono in mano…che sta a fa’ questa? Eh, come te sbagli, facebook! Esclamo dentro di me mentre un occhio mi cade sul display alla mia sinistra.
Ma che è?! Il video di una ripresa fatta da una go-pro messa in testa a un cane: se vedono solo muri e alberi.
Osservo, guardando con aria interrogativa e pensosa, il quattordicenne dall’espressione inebetita che mi siede accanto.
S’ode a destra uno squillo di Facebook, a sinistra risponde un WhatsApp, mi ripeto in testa volgendo lo sguardo prima da un lato e poi dall’altro.
Davanti a me, intanto, si susseguono una serie di selfie irritanti che ritraggono due ventenni pronte per il pre-workout in palestra. Pre-workout di selfie, ovviamente.

Mah, fammi legge qualcosa, mi dico, e, mentre prendo dallo zaino il solito libro che mi accompagna in metro/autobus/tram/aereo/treno, decido che per isolarmi dal rumore dei tasti cliccati dal tizio in piedi davanti a me, devo assolutamente mettermi le cuffiette.
È la sera dei miracoli fai attenzione/ Qualcuno nei vicoli di Roma/ Con la bocca fa a pezzi una canzone

  • CASTRO PRETORIO, PROSSIMA FERMATA CASTRO PRETORIO USCITA LATO…

che si fottano tutti, e sospirando quest’ultimo estremo anelito contro il capitalismo, crollo nel mio mondo.

Non trascorrono 5 minuti che, nello spazio creatosi tra il libro e le ginocchia, dove ho appoggiato il cellulare che trasmette la mia musica, noto una mano. Veloce, con le dita dalle pellicine mangiucchiate al par delle unghie, prova a tirare a sé lo smartphone, togliendomi le cuffie e facendomi urlare: «A testa de cazzo!» esprimendo con tutto il bon-ton un disappunto percepibile.

«Ma che, me stai a frega’ il telefono??» domando, alzandomi di scatto, al biondino magrolino che, accovacciatosi, provava il colpo.

«No, no, aspetta amico – mi fa lui tra il sorpreso e l’impaurito – non è come credi. Cioè, ok sì, te volevo fa’ il telefono, lo ammetto, ma non credevo che stessi attento, non credevo fossi… strano, insomma. Pensavo fossi come gli altri. Credevo fossi normale e che non te ne accorgevi. Capito, no?».

«No – rispondo incazzato – macheccazzo stai a di’? Me stavi a frega’ il telefono e te stai pure a giustifica’?».

Si alza, il ragazzo, mostrando in realtà un viso non cattivo. Una faccia appuntita, nascosta da un cappello di lana fuori stagione e dai capelli color cenere che, a ciuffi, gli sovrastano la fronte che presenta un paio di cicatrici. Intorno a me non è successo nulla, tutto è come prima: tutti si scaldano alla luce dei loro smartphone.

«Sì – riprende lui – aspè, non te incazza’. Ok, m’hai sgamato, tieniti il telefono, ci mancherebbe. È che qui lo facciamo sempre, guarda – indicandomi da una parte e dall’altra altri tre ragazzi intenti a sottrarre, con naturalezza, i dispositivi elettronici dalle mani dei passeggeri – loro neanche se ne accorgono, e non te ne saresti accorto neanche te se fossi stato normale. Ma che stavi a fa’?».

«Leggevo» rispondo sbigottito più dall’affascinante scenario che mi si presenta attorno che dalla domanda del tipo. «Leggevo un libro» ripeto inebetito e quasi balbettando «Ma… possibile che nessuno se ne accorga?».

Dopo una fragorosa risata, reazione immediata alla mia domanda, il ragazzo mi fa: «Ma te sei proprio strano davero. A parte che, ’ndo vivi? Che, se legge così? Senza manco un tablet? Mah, me fai taja’ – accompagnando il tutto con una pacca sulla spalla – serio. Ma accorgersi di che? Ma come fanno ad accorgersene? Stanno concentrati! Poi questa è ’na mossa rapida: se chiama “sfila&metti”, guarda, te ’mparo io».

Nel tempo di un tumulto di binari il Samsung della signora cicciottella in cui si stanno accatastando caramelle e amenità varie ora è tra le mani svelte del tipo.

La signora, al posto dello smartphone, regge un volantino di una gelateria sulla Tuscolana.
Senza rendersene minimamente conto, continua a scorrere il dito, provando a far allineare i vari gusti dai diversi colori.
«Visto? – mi fa soddisfatto – il segreto è avecce sempre qualcosa che non contrasta troppo con quello che sta a fa’ il tipo o la tipa. A quella, per esempio – mi indica una tizia bloccata su una foto di Instagram – j’ho messo in mano una foto del gatto mio, so’ 10 minuti che sta a cliccacce sopra pe’ mette un cuore. Ah e… lo vedi quello? – e me lo indica rivolgendo lo sguardo al ragazzo del video su facebook che adesso in mano ha un depliant scolorito che ritrae la street art a Roma – ’sta settimana è già la seconda volta che je faccio il telefono. Tanto domani, appena ha realizzato, vie’ da me e se lo ricompra: co’ questo me ce pago le vacanze st’estate, di sto passo».

Incredibile.

Nel breve volgere di cinque fermate tutti, nel vagone, non hanno più tra le mani i loro smartphone, i loro  tablet, i loro ipoddofoni, smartophoni e tutta l’intera vasta gamma di touchettofoni che popola questo universo mondo i-tech.
Chi osserva attentamente un santino in attesa che il “video” riparta, chi struscia il dito su un volantino, chi fissa immobile la foto di un cane dallo sguardo interrogativo o di un parente di uno della “banda” e chi, infine, chatta digitando tasti su un telefono di gomma che ad ogni pressione emette un sibilo acuto e sfiatato.
“Assurdo” penso, sgranando gli occhi immobile, come se il mix di sorpresa, meraviglia e stupore avesse all’istante ghiacciato me e tutto ciò che mi circonda.

Guardandomi intorno, stringendo nelle mani il telefono e il libro, noto che i tre, con il loro bottino, si avvicinano all’uscita, parlottando tra loro: «Tranquillo – mi fa il biondino – tanto prima di mezz’ora/un’ora non se ne rendono conto: è tutto cronometrato, al capolinea se svegliano. E tu – strizzandomi l’occhio – non fa’ cazzate: leggi, che è meglio. Non sarai normale, ma sei un tipo simpatico. Ciao, grande!» e con un balzo è già fuori a Garbatella.
Garbatella. Cazzo! Dovevo scende pure io! Impietrito e ancora scosso, lascio che il treno compia tutto il suo tragitto.

Intorno a me, tutto è normale e scorre.

Normale.

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di
Annalisa Maniscalco

 

Non rifletteva più nessuna faccia,
nessuna mano a ravviare chiome,
nessuna porta dirimpetto,
nulla cui possa darsi il nome
«luogo».

Proprio quando il 409 sta per lasciare il capolinea (Tiburtina FS, annunciano i led sul parabrezza), dall’hangar di legno che credevo abbandonato si precipita fuori un ragazzo. Ha un turbante scomposto intorno al viso e un involto discinto tra le braccia; si lancia contro la porta anteriore del bus e la picchietta di colpi decisi, ravvicinati. L’autista lo fissa in silenzio, poi soffia in un sospiro la sua magnanimità.

Con un movimento fluido, il ragazzo sale sul bus, aggira l’obliteratrice e si arrampica in cima a una ruota, in quello spazio senza sedile né dignità che resta deserto anche all’ora di punta. Sistema l’involto ai suoi piedi, pasticciando un po’ con le pezze che lo avvolgono, e una lama di luce accende il soffitto del bus.

Il tempo di un’istante; poi un aereo passa davanti al sole e il fagotto di pezze si smorza di colpo.

Batto le palpebre. L’avrò visto davvero?

Il 409 guada la Tuscolana e defluisce lungo via di Porta Furba. Sembra di passare un varco dimensionale, come quello dell’arco di Coppedè, il tunnel di graffiti tra Quadraro vecchio e nuovo, l’arcano di laterizi del Mandrione. Il ragazzo incrocia le gambe e, senza aggiustarsi il turbante che gli pende di lato, si volta verso il finestrino. Seduto così, le mani grandi sulle ginocchia, il profilo severo contro la luce del vetro, l’involto di stracci ai piedi come un mistero disseppellito, ricorda l’eroe di una fiaba mediorientale: un principe persiano in tuta acetata e sandali di plastica. La luce sbriciolata dagli ailanti in fiore irrompe nel bus e si concentra tutta intorno al fagotto di coperte — ma forse è solo la mia curiosità che ne sottolinea le forme, ne esalta i contorni.

Il bus approda a Torpignattara: qui sopravvivono le cabine telefoniche, i muri non nascondono le rughe dell’intonaco né i capelli bianchi dei cavi volanti. Salgono in molti, dai colori di spezie e terre bruciate; un uomo, più pallido e nostrano degli altri, avvista il ragazzo sul suo trono di ruota e lo punta deciso.
Lo avrà scambiato per qualcuno — Sindbad? Aladino? —: si sporge verso di lui e dalla maretta delle spalle capisco che lo sta apostrofando, con voce affilata ma sommessa. Un platano da fuori rabbuia l’aria, il riflesso sul finestrino si ottunde mentre il ragazzo si gira a rispondere, in un sussurro che è poco più che silenzio.
Ma ecco: l’albero tramonta e l’involto di pezze manda un altro lampo, che oscura il fondale convulso della Casilina.
L’uomo pallido sobbalza, si ritrae verso la porta di mezzo e scalpita, come su un ponte di legno, finché il bus non si ferma davanti ad un pronto soccorso; allora, senza voltarsi indietro, l’uomo svicola tra le porte e caracolla via.

Da qui in poi, il sollievo: la strada è più ampia, con i suoi alti e bassi di condomini e catapecchie. Questo settore di città appare anonimo, a chi ci passa e basta; ma da qualcosa — forse i germogli sui balconi — si avverte che chi ci vive ama questi intonaci, e fa sentire estranei quanti ne attraversano l’intimità.

Per un po’ non succede nulla; dopo Largo Preneste, altra via consolare, altro incrocio decisivo, con le iscrizioni Per grazia ricevuta, altro passaggio in mezzo al niente fino a un accostamento bizzarro: da un lato il Qube, dall’altro la locomotiva del deposito RFI. Poi il bus inciampa in una radice di pino: uno scampolo dell’involto appassisce, si sfoglia e, per la terza volta, una luce sventaglia le pareti.
Il ragazzo si illumina e si china a coprire quell’improvvisa nudità, ma ormai l’ho visto: lo spigolo di uno specchio con la cornice intarsiata.

È allora che, all’altezza di Casal Bertone, sul bus sale una ragazza slava, carica di sacchetti — pannoloni per anziani, pannolini per neonati.
Si ferma vicino alle porte centrali, il viso rivolto al principe persiano; ha la sua età ma colori opposti ai suoi — che però, per qualche ragione, parlano di lui: sabbia e cielo terso, sandalo e maiolica. Il 409 avanza a stento e la ragazza per tutto il tempo guarda il principe, con insistenza.

E lo fissa finché, nei pressi dell’Archivio di Stato (qui si stampavano i fotoromanzi), lui percepisce il suo sguardo; esita, poi si decide e, alla fine, le sorride: un sorriso di sbieco, timido e regale insieme.
La ragazza non risponde, ma nemmeno distoglie gli occhi: immobile, il ritratto di un paesaggio boreale.

Continua a scrutarlo, ancora, fredda e ostinata come un vento d’inverno, fino al deposito ATAC di Portonaccio, e la cosa si fa insostenibile persino per me che li osservo a distanza. Allora il principe imbraccia lo specchio, se lo aggiusta sulle ginocchia e si rannicchia tra cornice e finestrino. Un lembo delle coperte scivola e scopre la crepa che sfigura la superficie antica dello specchio.
La ragazza si guarda, si vede, e la crepa del vetro le apre nel riflesso un taglio sul cuore.
Quella vista la smuove e la spinge via, gli occhi duri e pungenti come le infiorescenze di ghiaccio alle finestre; e, voltandosi, mi sorvola col suo sguardo smarrito, equivoco, strabico: bellissimo.

Il ragazzo, dietro il suo scudo, le cerca gli occhi e non li trova più.

Ma il 409 rallenta, è la mia fermata: e finisce così, almeno per me, all’incrocio con un’altra via consolare, gli specchi della stazione Tiburtina a incorniciare l’orizzonte. Supero la ragazza slava, scendo dal bus, non resisto: mi guardo indietro, incontro gli occhi del principe — neri e diritti come due pozzi — e la vedo.

La vedo, e capisco il drappeggio sbieco del turbante, il sobbalzo dell’uomo pallido, la reticenza del sorriso e la cura con cui il ragazzo tratta lo specchio, nonostante la crepa — o forse proprio per la crepa, che gliela raddoppia e gliela nasconde.
Che gli raddoppia e nasconde una brutta, recente cicatrice sulla guancia.

Finisce così?

La ragazza slava si affaccia alle porte che stanno per chiudersi, fa un respiro profondo e dirotta intorno lo sguardo: esita, poi si decide e, alla fine, non scende.

Non rifletteva più nessuna faccia,
nessuna mano a ravviare chiome,
nessuna porta dirimpetto,
nulla cui possa darsi il nome
«luogo».

W. Szymborska, Lo specchio

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di
Riccardo Marin

 

Il salto giù dal tram è il momento migliore del mio viaggio mattutino con Samuele; nei due secondi tra quando il mezzo si ferma e quando aprono le porte, tutti i giorni lo guardo e gli chiedo: «Pronto?»
Samu mi osserva, sorride e alza le braccia.
Tutti i giorni quando dobbiamo scendere appoggio un piede sulla banchina, lo prendo per i fianchi e con un colpo di reni lo alzo finché con le dita non tocca il tetto del tram. Quando lo rimetto a terra piega sempre un po’ le ginocchia come ha visto fare nei documentari delle missioni spaziali.
Questa mattina però non riesco a sollevarlo abbastanza. Arriva a pochi millimetri, scalcia, emette un gemito di disappunto e arriva al suolo senza piegare le ginocchia. Si gira di scatto. Segue la Luna allontanarsi per il viale. Poi guarda per terra, e io farfuglio qualcosa. Non siamo pronti a diventare grandi.

Gli accarezzo la testa, e vorrei che qualcuno accarezzasse la mia.
Questo è il momento in cui ci sciogliamo; la sua scuola è proprio davanti alla fermata, e io aspetto il tredici per andare al lavoro.

Aprono i cancelli. Gli sistemo il giubbino. Si guarda le scarpe.

«Ehi Samu devi proprio andare adesso, noi ci vediamo all’uscita.»

Non si muove.

«Samu, mi hai sentito?»

Resta silenzioso, col capo chino.

«Samu, tutto bene?»

Alza la testa. Mi guarda come fossi un palazzo altissimo e volesse capire se c’è altro oltre il tetto. Il cielo inizia tra i miei pochi capelli?

«Samu, dai, sarò qui quando esci.»

Sembra che stia organizzando delle lettere nella bocca per dirmi qualcosa.
Poi lo fa: «Promesso?»

Non si accontenterà di un sarcastico: Farò del mio meglio.
Io non mi accontentavo.

«Promesso»

Ma non è vero che posso prometterlo, è solo l’Amen delle mie preghiere interiori al Dio dei Padri: proteggici dalle coincidenze perse, dal traffico delle diciotto e dagli straordinari negli uffici pubblici.

Samu però sembra più soddisfatto. Torna a guardarsi i piedi.

«Papà» pausa. «Mi sistemi le scarpe?»

Ha i lacci slegati. Non posso aiutarlo; non ho mai imparato come si fa. Non mi hanno insegnato.

«Samu vai dentro e chiedilo alla Maestra Luisa, dai che altrimenti fai tardi.»

Mi guarda. Non ha lettere da organizzare.

«Va bene, ciao!». Corre verso il cancello.

Sgambetta scoordinato. Vorrei dirgli di non correre ma non ne ho il tempo.

Si pesta un laccio con il piede e perde l’equilibrio. Piccolo com’è sembra un sacco della spesa che cade, afflosciandosi sul cemento. Faccio per andare verso di lui ma si è già rialzato. Torna a correre, a gambe larghe per non inciampare, coi lacci che svolazzano. Ha per la testa la missione che gli ho affidato e vuole compierla, senza far caso al suo passo incerto, veloce come il vento.
E vorrei chiederglielo.

Chiedergli: che te ne fai di un padre che non sa allacciarsi le scarpe?

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di
Federico Cirillo

 

Sveglia, suona, buco in pancia… Uhm di nuovo lunedì. Vabbè, potrebbe andar peggio… ma chi cazzo l’ha impostata ‘sta suoneria? 

Scendo, moka, radio, canna… Vabbè, poteva andar peggio, potevo avere Gigi D’Alessio… Caffè. 

«Buongiorno Fede, caffè finito, sorry! I.» un post-it profetico, dono di “coinquilinaggio”.
Caffè, finito. Caffè. Finito. Sorry? Caaazzo. È finito il caffè… vabbè, calma, può sempre andar peggio.

Colazione veloce, camicia, banana – la mangio qua stavolta (vedi maènabanana) – lenti, borsa, cuffie, giù, di corsa: il 23.
8.10: mi rode il culo, ok, ma potrebbe andar peggio.
8.15: non passa… sta andando peggio.
8.37: eccolo! Vedi? Poteva anda’ pure peggio su. 

Gente, folla, cuffie, musica: Sveglia, suona, buco in panciabasta! Mo la cancello. Quiete… 

«Aoh – più forte – Aoh – ancora – AOHHHH!». La mano pesante che sbatte sulla mia spalla destra costringe il mio busto ad andare in sintonia con la brusca fermata che il 23 fa per non entrare in una smart inchiodatasi sul lungotevere. Mi giro e… cazzo la pelata, quella pelata! Mo sta a andando decisamente peggio e sto ancora a Trilussa… «Ah – dico – buongiorno eh…» con sguardo di chi ancora conserva una ferita difficilmente sanabile (vedi, Stanno dappertutto). Sotto la pelata, la bocca si muove ma non emette suono. È diventato muto! – penso con giubilo – Ah no… e con rassegnazione tolgo le cuffie…
«…che mi sono sbagliato e pioveva!»
«Cosa? Avevo le…» provo, per ristabilire connessione umana.
«Dicevo: tieni questo è l’ombrello tuo, che l’altra volta mi sono… sbagliato, insomma, e poi pioveva!».
«Grazie eh!» ironizzo.
«Prego figurati» senza cogliere.

«Hai visto che mito, coso là, Ronald Trump!» esordisce gonfiando il petto e scandendo nome e cognome.
Qualcuno si sposta, qualche altro si gira, una ragazza con la kefiah alza gli occhi al cielo e quasi si morde le mani per non entrare, saggiamente, nella questione.

«Donald…» lo correggo. «Sti cazzi, è uguale» mi fa notare ridacchiando. «Era ora che si svegliassero là, che usassero un po’ de pugno duro co sti cinesi, coreani o quello che so, così magari anche noi iniziamo a prende’ spunto e magari arriviamo ad alzare un bel muro per non far entrare più nessuno che viene qua a… – il mio sguardo tra l’interrogativo e l’incazzato lo blocca per un attimo, ma poi, come trapassato da una scarica di qualunquismo all’ennesima potenza esulta – rubarci il lavoro! Che poi possibile che tutte le attività qua chiudono pe’ colpa di ‘sti cazzo di cinesi? Sai quanti sono? Secondo gli ultimi dati so’ tipo 1 milione! ‘cazzo di cinesi».

«Ah sì? li ha contati?» chiedo distratto cercando di reggermi ad un seggiolino occupato da un’ orientale.
«Mica io – risponde di getto – quelli dei dati. 1 milione, ti rendi conto? Ma che ci vengono a fa’ qui? Lo so io lo so. Perché lì da loro non possono aprire negozi chè tutto è di tutti e devi dare i soldi al governo e invece qui si fanno i cazzi loro. Pensa che a scuola di mia figlia sono tutti cinesi. Vabbè la maggior parte. Ah guarda qua – e, concitato, estrae dal portafoglio una carta A4 stampata a colori con l’immagine di lui che tiene per mano una bambina dai tratti asiatici – eccola qua mia figlia, caruccia ve’?».

«Ma è cine…» azzardo io.
«Giapponese: un’altra razza, un’altra cultura…ma che ne sai? Si chiama Anna, carina è? L’abbiamo adottata che c’aveva due anni, adesso ne ha 8, è una bellezza, bella de papà» quasi l’accarezza con gli occhi: ma allora prova dei sentimenti! «Ah che poi – spezzando l’incantesimo – porella, ha visto l’ombrello tuo, ce se è messa a gioca’ e me sa l’ha mezzo spezzato, s’apre male… vabbè so’ bambini. Oh fermata mia: forza Trump! Alla prossima!» e scende rinfilandosi il foglio A4 in tasca.

Alla prossima? Ma anche no. M’ha pure rotto l’ombrello… cazzo de cine… vabbè coreani…o giapponesi?
Sceso a Sforza Pallavicini, prima di buttarlo e cercando inutilmente di aprirlo, leggo: MADE IN CHINA stampato sul manico.

Vabbè potrebbe andare peggio… potrebbe piovere…e un tuono in lontananza, sottolinea il mio verso.

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di
Lorenzo Desirò

I fatti riportati in questo racconto sono accaduti su un autobus una sera d’inverno in una grande città. Per quanto viene narrato se ne consiglia la lettura ad un pubblico di soli adulti.

La giornata di lavoro è conclusa per la Moltitudine che, stanca, si accalca sul mezzo pubblico per tornare a casa il prima possibile.

Vuole rincasare presto, la Moltitudine, per sedersi a tavola per la cena. Poi, stanca, guarderà distrattamente qualcosa in Tv, andrà a letto e, sempre più stanca, si riposerà per affrontare al meglio il giorno seguente. All’indomani si sveglierà presto, la Moltitudine, prenderà l’autobus che la porterà in ufficio e la sera, disperatamente stanca, si accalcherà di nuovo sul mezzo per tornare presto a casa.

Un uomo della Moltitudine, smunto e magro, lotta per restare in equilibrio. Si sta stretti sul bus. Si sta stretti come gli amanti d’inverno.

All’improvviso il veicolo curva bruscamente verso sinistra. Braccia e mani e gomiti e spalle e polpacci si incontrano e si scontrano. In quell’istante all’uomo smunto e magro sembra di sentire una mano scivolare dentro la tasca destra del suo cappotto.

Istintivamente si tasta (per quel che può) l’intero soprabito. Si guarda intorno, si gira di scatto e urla: «Il portafoglio! Mi ha rubato il portafoglio!» e lancia il suo indice sottile verso il colpevole. La Moltitudine drizza le orecchie:

«Sei uno schifoso!» urla qualcuno verso l’uomo indicato dal derubato.

«Ladro!» grida qualcun altro.

E iniziano ad accavallarsi le voci dei corpi accavallati: «Farabutto!», «Vergognati!».
Tra la confusione cerca di farsi largo un giovane palestrato; avanza tra i corpi della Moltitudine: «Ci penso io a te, figlio di puttana!» e arrivato di fronte all’unico indiziato, lo spintona fino a farlo finire con le spalle contro il finestrino. Senza troppi indugi, lo colpisce col primo schiaffo.

«Bravo!», «Così si fa!» voci tra la folla.
Vola un secondo schiaffo, poi un altro, poi un altro ancora e poi, non inaspettatamente, una testata dritta in bocca.

Il malvivente sanguina dal labbro ma non cade. L’assenza di spazio trasforma il ladruncolo di portafogli in un sacco da boxe: dapprima un pugno all’addome, poi un montante all’altezza del fegato, poi un cazzotto dritto sullo zigomo.

«Dagliene di più a quello schifoso! Dagli Una Lezione!» e il palestrato continua incitato dalla Moltitudine.

Sale la temperatura dell’autobus che pesante e indifferente continua la sua corsa.

Tra la calca si fa largo un altro ragazzo. Anche lui col suo preciso ideale di Giustizia. Deciso, si avvicina al delinquente. Fa segno all’ormai stanco palestrato che ora è compito suo. Sputa in faccia al ladro e la saliva si mischia al sangue della faccia già livida. Gli dà un pugno in pieno volto, chiudendogli l’occhio e tagliandogli il sopracciglio. Il sacco da boxe rimane sempre in piedi, sempre con le spalle attaccate al finestrino, sempre più sanguinante.
«Bravo!», «Ammazza di botte quel figlio di troia!» urla la folla.

Ma alla “lezione” vuole partecipare anche la vecchia che per puro caso si è ritrovata al fianco del ladro dandogli una sonora ombrellata in testa. Poi la bella studentessa universitaria, nel poco spazio che ha a disposizione, gli dà un calcio sugli stinchi.
Due suore dalla veste bianca, dopo un’altra una curva, si ritrovano al centro dell’azione. Per non sentirsi da meno, una delle due dà una gomitata sulle deboli costole del ladro. L’altra approva.
Si alza un tifo da stadio e sale il calore all’interno del mezzo di trasporto.

«Devono morire quelli come lui!» urla la folla.

«Siamo stanchi di vivere così!», «Dovete smetterla di rubare alla povera gente!» grida la Moltitudine.

La signorotta in pelliccia riesce a dargli un ceffone; il pensionato, volendo dare anche lui il suo contributo (forse per sentirsi finalmente utile) gli spacca il naso col suo bastone. Il trentenne in abito Armani continua a colpirlo ossessivamente allo stomaco. Poi tocca all’ex militare. Poi allo Youtuber. Poi all’arredatrice d’interni.

«Uccidetelo! Uccidetelo!» grida la folla.

Bomberino-nero-capello-rasato arriva al fulcro dell’azione. Con un’espressione alla Clint Eastwood sembra dire al pubblico «ci penso io a lui» ed estrae una lama. Si avvicina al malvivente e lo accoltella a un fianco.

«Passami il coltello!» urla qualcuno della Moltitudine.

E il coltello inizia a passare di mano in mano.

Arriva alla stagista della casa di moda che si avvicina al criminale e sadicamente gli recide di netto l’orecchio sinistro. Il padiglione auricolare viene calpestato dallo stivaletto Prada.
Poi la lama passa all’avvocato che inizia a pugnalarlo ripetutamente al petto.
Lo scrittore esordiente, forse per gioco o forse per amore, riesce ad incidergli le proprie iniziali su quelle che una volta erano le guance.
Crescono le urla, crescono gli spasmi e l’ansimare e le grida e la rabbia. Sudore, odori osceni e schizzi di sangue raggiungono soffitto e vetri dell’autobus che ora rallenta e giunge alla fermata.

Apre le porte e qualcuno scarica il corpo di quello che, una volta, la Moltitudine avrebbe chiamato “un negro”.

Le porte si chiudono e il mezzo riparte.

La Moltitudine, stanca e senza fiato, gronda sudore e sangue. Mani, vestiti, musi, capelli, sciarpe, borse, cappotti trasudano diversi liquidi organici. Più di qualcuno ha un’erezione.

L’aria è irrespirabile. Sotto le suole una melma viscosa.

L’uomo smunto e magro mette la mano nella tasca sinistra del cappotto: «Oh, che sbadato», dichiara alla Moltitudine, «il portafoglio è qui! Era nell’altra tasca!».

E inizia a ridere.

Dopo un istante tutto l’autobus ride.

La Moltitudine, istericamente, ride.

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di
Arundo Donald

 

Nel breve tratto di strada il metabolismo urbano produceva e consumava una notevole energia.
Affollate vetrine, incalzanti mendicanti vestiti abbondanti, bambini, anziani, tutti concorrevano nel gorgoglioso ribollio natalizio.

“Proprio oggi che è Natale”, pensò Marco scrutando attento la strada e spostando con la mano il grasso dalla fronte fin sopra i capelli.

La fermata era gremita di figure. A Roma d’inverno in un attimo è notte, e così, improvvisamente, tutti si ritrovarono avvolti dalla sera. I lampioni coloravano i grandi palazzi e le persone, accecate dal caldo carosello, spasmodicamente diventavano falene.

Lontano apparve un autobus. Marco sperò che fosse il suo. Andava per uno. Pensieroso lasciò cadere il corpo contro il vetro che delimitava la fermata sentendolo tremare. Prese una mezza cicca e la riaccese. Poi la fece ruotare tra le dita e per un attimo fissò il filtro annerirsi sotto la carta.

“Pesci storditi” pensò, rivolgendo lo sguardo alla massa abbagliata e sempre più frenetica.

Adorava i pesci, li trovava umani.

Pensò che avrebbe fatto tardi alla cena. Questa volta aveva dato la sua parola.

Come arterie, sottili tappeti rossi disegnavano i marciapiedi ripuliti e un fiume d’insegne luminose minacciava scorrendo i primi piani dei palazzi. Una goccia sfiorò il viso di Marco concentrato. Intorno a lui diversi ombrelli avevano fatto capolino aprendosi alla sera.

“Ci mancava anche la pioggia”, pensò. Poi fu un attimo.

Le gocce s’infittirono e cominciarono a bagnare ogni cosa, non risparmiando le persone ammucchiate alla fermata. La strada fu violentemente svegliata, le vetrine si svuotarono assieme ai lunghi marciapiedi. Le falene erano sparite.

Marco fece caso al rumore che la pioggia produceva, agli odori che riportava al naso e ai suoi capelli bagnati. Il “92” era arrivato, aveva fatto Tombola!

Mentre l’autobus, pieno da far schifo, svelava una calca straziata, la gente dalla strada spingeva e imprecava. Travolto da un denso fiume, Marco fu trascinato a bordo.
“È fatta”, pensò.

Ora anche lui era paralizzato quasi da non muovere il diaframma. Nel bel mezzo regnava il silenzio. La spessa condensa e le persone collose ne temperavano l’ambiente interno e in quel microclima tutti vivevano il medesimo supplizio.

“Pesci Neon” pensò. Allevati in cattività, con luci artificiali e in spazi troppo affollati, quei pesci sono più soggetti alla morte, più restii all’accoppiamento e meno abili nel procurarsi il cibo.
Le vetrine, gli affollati marciapiedi, gli autobus, gli uffici. “Che fosse questa la stupidità della gente perbene?” 

Mancavano quattro fermate ancora e sarebbe arrivato a casa. Marco era provato, voleva sedersi e respirare aria pulita. Voleva poter muovere le braccia e le gambe e soprattutto, voleva rivedere i suoi amici. Voleva abbracciare la sua gente e festeggiare.

Alla fermata successiva molte persone scesero dall’autobus, permettendogli di respirare nuovamente. Quando le porte si erano aperte, per pochi secondi aveva sporto il naso e si era immaginato altrove.  

A fine corsa l’autobus lo lasciò al capolinea. Dopo pochi minuti a piedi Marco arrivò all’accampamento e poté poggiare le pesanti buste con la spesa che tanta fatica gli erano costate.

Non c’era musica né luci ad aspettarlo. Non c’erano donne a ballare intorno ai fuochi né anziani né bambini. Un piccolo fuoco ormai esausto illuminava le roulotte dal centro del cortile e il pentolame tutt’intorno brillava riverso sui tappeti polverosi. 

L’accampamento era stato sgombrato. 

Marco prese un lungo respiro e si lasciò cadere sedendosi stanco intorno al fuoco. Stappò una birra. Poi un’altra.
Raggiunse il suo piccolo furgone e controllò il suo acquario. I pesci erano salvi. Ne fu contento ma non sorrise.  

Perché tutta l’energia si era esaurita.