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di Cristi Marcì

Illustrazione di Redazione

Da qualche parte a Barcellona

1902

Dipingere è sempre stato il mio rifugio.
Il solo gesto con cui imprimere sulla nuda tela parole antiche e inafferrabili, che in assoluto silenzio fioriscono al riparo di un quotidiano beffardo.

Una luce brumosa si propaga a quest’ora del crepuscolo fra i viali catalani, scuotendoli di un fremito che ha tutto il sapore di una rivoluzione ormai imminente.
Si posa timida sui volti e i corpi delle più umili vite che lungo le Ramblas cerco sempre di catturare, nonostante la puntuale e cocente sensazione che qualcosa mi sfugga.

Al pari del mio popolo sono esposto a regole e futili dettami che non riesco più controllare, buoni solo a dirottare la creatività verso un precipizio che assomiglia sempre più a un’eterna sepoltura.
I lampioni da poco accesi emanano fiochi bagliori che annichiliscono il volto serale della mia Barcellona. Mentre rivedo gli schizzi della giornata mi soffermo ancora una volta su quella splendida carrozza nera trainata da due grigi sauri.

Si era fermata intorno alle quattro del pomeriggio lungo il viale e un vegliardo di bell’aspetto era sceso da un predellino finemente tirato a lucido. Calzava scarpe che i miei dipinti potevano solo fotografare e un completo nero dal cui panciotto marrone sporgeva un orologio da taschino. I folti baffi grigi, un po’ ingialliti dalla nicotina, parevano ingrandirsi man mano che si era avvicinato al treppiede.

«Torno subito Gabriel» annunciò al cocchiere, che con un rapido schiocco di frusta guidava già i due sauri verso una postazione diversa.

«Sono vostri ragazzo?» chiese una volta giunto al mio cospetto con un elegante bastone da passeggio dal pomello argentato.

«Si senor» risposi un po’ timidamente.

«Permettete?» chiese indicando uno schizzo in particolare.

Porgendo la mia intimità al servizio di quello sconosciuto mi scoprivo curioso e intimorito, mentre un cielo pomeridiano si tingeva un po’ di rosa e un po’ di arancione. La sua concentrazione vagava da un angolo all’altro del foglio esaltando rughe antiche intente a cogliere l’essenza di quanto vi era impresso. La mimica non tradiva alcuna emozione e i suoi baffi anziché rivelarmi qualche indizio coprivano per intero le sue labbra. Con il cuore in gola e un tempo dilatato, percepivo pensieri e fantasie mescolarsi tra loro per poi acquisire tonalità che in quell’istante non riuscivo lontanamente a decifrare.

Alle sue spalle il cocchiere avvolto nel suo mantello e con la pipa in bocca contemplava due bambini avvicinatisi per rimirare con crescente meraviglia i due giovani cavalli. Protendevano le dita verso i loro musi, ignari di tutta la corruzione che dai piani alti del governo Madrileno si stava propagando come un cancro impazzito lungo le arterie di tutta la nazione, portando la città catalana nel baratro della miseria e della povertà.

«Mi piace» esclamò entusiasta.

Sorrisi con discrezione mantenendo una rigida compostezza che ben si addiceva a quel momento per me solenne, ma che contrastava col mio versatile bisogno di carpire l’anima di un mondo ormai accessibile a pochi.

«Come vi chiamate figliolo?».
«Anton de Pereira signore» risposi sollevando la coppola verde a quadri in tweed.
«Seguitemi» ordinò girandosi e battendo la punta del bastone sui sanpietrini.
«Ma signore i miei dipinti non posso…». «Non temete per quelli, potete farne di nuovi» sentenziò dirigendosi con passo claudicante verso la carrozza e con in mano il mio lavoro.

Il cocchiere aprì lo sportello esortandomi a fare il mio primo ingresso dentro uno spazio che fino a quel momento avevo intravisto da lontano a conferma del divario tra me e quel mondo. Una volta preso posto sul sedile di velluto color bordeaux vidi subito il treppiede e il resto dei miei disegni sistemati con dovizia nel baule di quel meraviglioso calesse.

Levatosi il cilindro quell’anziano dai modi misteriosi e delicati ordinò di proseguire lungo il viale alberato per poi dirigerci verso un luogo che avevo già sentito nominare e che non tardò, seppure in maniera tumultuosa, ad alimentare le braci di un fuoco che per nulla al mondo volevo si spegnesse.

Appoggiato al morbido schienale della vettura i suoi occhi celesti si erano posati sulle mie dita, che ingenuamente sfioravano con meraviglia quel tessuto disegnando linee immaginarie che soltanto la fantasia permetteva di scolpire nel loro intimo prodigio.

Ignaro delle forme che iniziavano a prendere i miei pensieri ripensavo al volto di quella ragazza che il giorno prima si era accomodata di fronte al treppiede, mostrando con fare pudico una rara luminescenza: partorita da un sorriso che portava in grembo il seme dell’eternità.

A bordo di quel piccolo mondo, ora in movimento, sentivo nello stomaco un che di primordiale fondersi con il sole pomeridiano e scalciare per venire al mondo in tutto il suo candore.

Fuori dal finestrino un tripudio di gesti accompagnava il nostro silenzio, c’era chi litigava per un tozzo di pane o chi in gruppi, col giornale in mano, commentava le ultime vicende che avevano reso Barcellona la culla della rivoluzione operaia.

Giunti al Paseo de Gracia ricchi borghesi sfoggiavano inorgogliti stoffe e completi, che puntuali attiravano l’attenzione di mendicanti o di giovani fanciulle in cerca di un compagno.

Sotto i loro ombrelli di pizzo bianco ostentavano una decadenza che mal si coniugava con il loro fare civettuolo e che per nulla al mondo, mi trovai a pensare, avrebbe eguagliato l’anima di chi avevo ritratto.

«Siamo arrivati figliolo».

Fuori del finestrino, casa Batllò splendeva in tutta la sua rara bellezza e prima ancora di proferir parola Don Romero Ferreira, questo il nome che avrei scoperto a breve, con gesto celere liquidò ogni mia possibile iniziativa.

«Il vostro è un dono che un treppiede non può sorreggere a lungo, la vostra pazienza un eterno strumento di creazione» disse accennando un sorriso.

Non sapevo cosa aspettarmi, ma sentivo per certo che il ritratto di quella donna avrebbe illuminato il mio percorso al pari di quei trancadìs, che pazienti tessevano la trama di una storia che aspettava solo di essere dipinta.      

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di Simonetta Gallucci

Illustrazione di Francesco Dell’Acqua

Voleva solo scopare. Se qualcuno glielo avesse chiesto avrebbe negato. Tutt’al più, messa alle strette, avrebbe potuto dire che “voleva fare l’amore”. Le calze a rete però tradivano le intenzioni. Non c’erano dubbi: voleva solo scopare.

Era il sei febbraio.
Non me lo sarei ricordata se quello stesso giorno un treno non avesse deragliato.
Alle cinque del mattino o giù di lì un Frecciarossa Milano – Salerno, all’altezza di Lodi, era uscito dai binari. Dodici ore più tardi stavo raggiungendo Porta Garibaldi, uscendo anch’io da un binario: quello della routine. Avevo preso un permesso al lavoro, accampando una scusa. Ero tornata a casa, mi ero fatta una doccia e avevo indugiato nuda davanti all’armadio aperto, per decidere come vestirmi. Ero uscita infilando in borsa la trousse dei trucchi, lo spazzolino e un cambio.
“Ho deciso di andare a fare serata a Torino”, avevo scritto a un’amica, senza specificare il tipo di serata. Arrivata in stazione ero sgusciata tra la folla dei pendolari, esasperati dal ritardo dei treni in partenza. Avevo due sole preoccupazioni: riuscire a partire e tenere ben chiuso il lungo cappotto nero per non scoprire i collant, più da discoteca che da tardo pomeriggio. 

Salita sul treno mi ero tolta il cappotto, ripiegandolo sulle gambe accavallate. Avevo tirato fuori un quaderno dalla borsa. Disinteressata alle cronache dei vicini sulle peripezie per rientrare a casa, appuntavo le sensazioni del momento. Volevo ricordare tutto.
Avevo alzato la testa e sorriso allo schienale davanti a me. Erano passati solo dieci giorni.

«Aspetta…»

«Che c’è?»

«Prometti di non farmi male?»

«Solo se tu prometti che sarai sincera e mi dirai se ciò che faccio ti mette a disagio.»

«Promess…»

Quella “o” era rimasta incollata alle labbra di lui.
In mezzo a Piazza Carlo Alberto, tra i passanti, facevamo gli adolescenti pur avendo entrambi ben superato la trentina. Sfrontati, incuranti degli sguardi, eravamo lì, sotto la statua.
Io cercavo di mantenere una certa distanza con le mani affondate nelle tasche, mentre lui mi teneva per i fianchi. Di tanto in tanto ci staccavamo, io per riprendere fiato e lui per via degli occhiali appannati.

«Ora però devo andare, altrimenti perdo il treno».

«Sei proprio così ansiosa di lasciarmi qui da solo in piazza?»

«Tanto è la tua preferita!»

Gli avevo dato un ultimo bacio.
Lui mi aveva ripresa per la manica e attirata di nuovo a sé.

«Allora ciao».

«Scappa, scappa».

Mi ero incamminata a testa bassa e solo dopo aver svoltato l’angolo, dando un’ultima occhiata indietro, l’avevo alzata portandomi le mani al petto. Ridevo da sola, facevo le linguacce ai bambini che incrociavo per strada. Ero felice.

La voce dell’altoparlante che annunciava l’arrivo a Porta Nuova mi aveva riscossa. Infilandomi il cappotto ero scattata in piedi, pronta a scendere. Ci eravamo dati appuntamento a una vineria di Vanchiglietta.

Ero in anticipo.
Mi ero seduta su una panchina davanti all’entrata, rialzandomi subito dopo. Avevo camminato fino all’angolo della strada e poi ero tornata indietro, contando i passi. Lui era arrivato al diciannovesimo passo del secondo ritorno, scusandosi per il ritardo. Ci eravamo seduti a un tavolino e avevamo ordinato un Nebbiolo, poi un secondo.
Dato fondo al vino ci eravamo avviati verso casa sua. Una volta entrati ero franata sul divano, completamente sbronza. Mi aveva aiutata a togliere il cappotto e fatta risiedere, sfilandomi gli stivali. Avevo cercato di rimettermi in piedi, sbottonando la mia minigonna e i suoi pantaloni. Gli tenevo le mani sulle spalle per non perdere l’equilibrio. Lui mi reggeva cingendomi la vita. Mi aveva spogliata completamente e accompagnata al piano superiore, facendomi distendere sul futon. Aveva cominciato a baciarmi. Io avevo braccia e gambe intorpidite. Mi si era sdraiato di fianco, sussurrandomi che forse era meglio riposarsi un po’. Ero caduta in un sonno profondo.
Lui mi aveva lasciata dormire, poi mi aveva risvegliata leccandomi l’incavo del collo. Ci eravamo baciati al buio. Mi era salito sopra, schiacciandomi con tutto il peso del corpo. A me veniva da vomitare ma, tra un bacio e l’altro, cercavo di prendere fiato e ricacciare indietro il sapore acido che risaliva dallo stomaco verso la trachea. Mi aveva penetrata con gli occhi serrati, continuando a battere e affondare, puntellato sulle mani, con una smorfia sul viso.
Avevo girato la testa e avevo smesso di guardarlo.

Il mattino seguente, quando mi sono svegliata, mi sono girata verso di lui: era di schiena, accucciato da una parte del futon, distante da me. Gli ho toccato la spalla. Si è voltato subito, non stava dormendo. In silenzio è rotolato giù dal letto. L’ho seguito al piano inferiore. Dopo tutte le parole scritte e sussurrate ora, per la prima volta, non avevamo nulla da dirci.

«Vuoi un caffè?» aveva chiesto.

«Sì, grazie.»

Silenzio.

«Non dovresti prendere il treno?»

«Sì, meglio che vada.»

Silenzio.

Ero uscita senza voltarmi.
Il rumore della porta chiusa alle spalle mi era rimbombato dentro. Avevo camminato incurvata per proteggermi dal vento e dagli sguardi, e per nascondere il trucco sfatto della sera prima. Stretta nel cappotto, ricacciavo indietro le lacrime.

Nell’incidente del giorno precedente un binario era stato tranciato e l’altro deformato. Salendo sul treno mi era tornato in mente quel dettaglio. Mi sono seduta, lanciando la borsa sul posto di fianco al mio. Ho visto il quaderno ma l’ho lasciato lì. Non serviva scrivere nulla, avrei ricordato comunque questa giornata in cui, come il Frecciarossa, avevo deragliato, qualcosa si era tranciato e ne ero uscita deformata. Continuavo a chiedermi ossessivamente il perché.

Ed ecco, mentre mi scorreva davanti un paesaggio sfocato, la nitidezza di un pensiero: lui non aveva fatto nessuna promessa.

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di Cristi Marcì

Illustrazione di Anastasia Coppola

Secondo lo psichiatra americano Daniel J Siegel lo stato mentale di un individuo indica la probabilità con cui pensieri ed emozioni possono ripresentarsi tanto nel presente quanto (e soprattutto) nel futuro.

Questi ultimi riflettono due fasce temporali attorno alle quali i propri vissuti possono gradualmente tradursi in convinzioni o peggio ancora in certezze assolute e definitive, limitando così non solo la panoramica del nostro sguardo bensì la nostra flessibilità cognitiva.

Se da un lato il pensiero innesca una serie di processi utili alla formazione di rappresentazioni emotive e cognitive, dall’altro le convinzioni rischiano di sedimentarsi per poi tramutarsi in vincoli di natura normativa, di fronte ai quali il ragionevole dubbio e la messa in discussione non sempre vengono contemplati.

Tra errore e ignoranza

Attraverso le pagine del suo ultimo saggio Gianrico Carofiglio si sofferma sul rapporto sottile che intercorre tra il concetto dell’errore e quello dell’ignoranza, descrivendoli stavolta in un’accezione unicamente positiva e per questo fuori dagli schemi.

Quanto proposto è infatti una revisione di quegli stili e quei modi di sentire che attraverso il volto delle parole possono radicare schemi interpretativi difficili da estirpare e ai quali non vorremmo mai rinunciare.

Se infatti l’abitudine è una cattiva consigliera, la disposizione d’animo ad accogliere le novità dovrebbe essere un esercizio al quale ognuno di noi non dovrebbe rinunciare ma che troppo spesso converge in un immediato rigetto a favore di pregiudizi preesistenti.

Secondo l’autore la presenza di preconcetti già sedimentati può infatti obnubilare il nostro raggio d’azione, impedendo di cogliere le opportunità che si celano dietro ogni “imprevisto”.

Se sbagliare è umano coltivare un atteggiamento che non precluda il volto misterioso degli eventi e delle circostanze quotidiane consente la fioritura di una mancanza pronta a manifestarsi in tutte le sue sfumature: rendendo ciò che erroneamente definiamo ignoranza un ponte grazie al quale raggiungere, per prove ed errori, nuove chiavi di lettura.

Sotto un profilo psicologico ciascuna riga di questo saggio, porta con sé un valore simbolico applicabile in chiave analogica ai più svariati campi del nostro quotidiano.

Lo spirito “shoshin” e la possibilità di sbagliare

In una delle opere più importanti del secolo scorso, il noto psicoanalista Carl Gustav Jung definiva il significato come una lente capace di limitare esclusivamente l’espressività creativa con cui ciascuno di noi si trova a fare i conti giorno per giorno.

Viceversa il simbolo riflette qualcosa di più ampio, indefinibile ed eterogeneo; la cui natura apre nuovi scenari in grado di promuovere a nostra insaputa le più imprevedibili metamorfosi.

Operare un processo di revisione del nostro modo di parlare, sentire e comunicare vuol dire mettere in crisi tutte quelle conoscenze acquisite nel tempo e che nel quotidiano rischiano di atrofizzare una plasticità neurale che al contrario arricchirebbe quanto già custodito nel nostro patrimonio culturale.

Occorre dunque promuovere un atteggiamento flessibile che sia in grado di mettere in crisi quei capisaldi ai quali deleghiamo un potere pericoloso, riponendo certezze assolute che altro non fanno se non definire inconsapevolmente le nostre identità, ma soprattutto i nostri pensieri.

Nel saggio, quello che più colpisce è l’invito, nonché la sfida, a far proprio quello sguardo investigativo grazie al quale ogni conclusione non può che terminare se non con un punto interrogativo, capace di ripristinare un dialogo con sé stessi e con gli altri attraverso cui accogliere l’eterna essenza di una complessità inafferrabile.

Quando il corpo si ribella alle certezze

Sotto il profilo psicosomatico è interessante constatare come il linguaggio quotidiano, proveniente dall’esterno sotto forma di prescrizioni comportamentali e normative, abbia preso sempre più le distanze da quell’intimo dialogo ormai dimenticato.

Le parole, i comportamenti e le attitudini con le quali ci orientiamo nel mondo fanno davvero parte del nostro dizionario?

Quello che comunemente viene etichettato come nevrosi è il risultato di un’omologazione sociale dove l’autentico viene sostituito con il banale e dove l’essenziale non trova posto in quello che è ormai superfluo.

Eppure senza rendercene conto la “logica preverbale” dell’errore risiede proprio nella manifestazione sintomatologica che attraverso il corpo comunica un qualcosa che non ci appartiene e che tuttavia per paura del cambiamento rifiutiamo di ascoltare: etichettandola per assurdo come un pericolo.

Accogliere l’imprevisto vuol dire quindi fare spazio a una dimensione dialogica (in)conscia che altro non chiede se non il ripristino di un linguaggio ormai obsoleto; che in superficie si impregna di trame che lo allontanano dalla propria e autentica narrazione.        

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di Jacopo Triggiani

Illustrazione di Matteo de Lucia

Stavolta mi sono trattato proprio bene.
Sono persino riuscito a prenotare un posto in business class a un prezzo ridicolo, quasi un premio per tutti i chilometri di ferrovie di stato che ho percorso col culo su un cigolante regionale. La destinazione è Foggia. Meglio: la destinazione è il Gargano, Foggia è la tappa obbligata per arrivarci, l’unica con una stazione di arrivo. Il viaggio è piuttosto breve.
Dovrei cavarmela in tre ore partendo da Ancona.

Il treno si ferma ronzando alla stazione di Pescara e una fiumana di persone assalta lo sportello più vicino, in un’insensata gara a guadagnarsi la prima boccata d’aria abruzzese. Un dettaglio mi colpisce, fra la folla. Qualcuno ha lasciato dietro di sé la scia di un profumo fortissimo. L’odore è delicato ma inconfondibile, come lo schiaffo di una mamma troppo indulgente. Con la scusa di andare in bagno mi avvicino al portellone, sperando di trovare una traccia più persistente. Niente da fare.
Come sospettavo, l’odore si spegne proprio in corrispondenza dell’uscita.
Lo sportello mi si chiude in faccia inesorabile, definitivo.

Torno a sedere disilluso e francamente seccato. Sicuramente quello era un profumo femminile, agrumato e fresco. Non sono mai stato un grande esperto. In genere associo le fragranze alle persone, e le persone ai ricordi, perciò il profumo per me è sempre stato veicolo secondario di sensazioni più forti: la delusione di una ragazza che si allontana; l’abbraccio di un amico in una serata ebbra; il tono perentorio di mio padre prima di andare a teatro: vestiti bene!
Stavolta è l’opposto. Mi resta solo una fragranza ‒ che, com’è ovvio, non riconosco ‒ senza nulla a cui associarla.
È come in Sotto il sole giaguaro di Calvino.

L’ultima raccolta di racconti di Calvino non è finita, ma il progetto rimane geniale: cinque racconti per cinque sensi.
All’appello mancano solo il tatto e la vista.
L’olfatto, non a caso, è il primo: tre storie diverse per la medesima trama. Bisogna trovare una persona di cui si conosce solo l’odore, invertendo la gerarchia sensuale della conoscenza. Poi l’udito, con la storia del re prigioniero della sua corte, e infine il gusto, viaggio culinario in un Messico spietato e tribale, come i templi aztechi e i loro sacrifici umani. Quando lo lessi, mi spiacque molto non poter immaginare come avrebbe fatto Calvino a confrontarsi con gli altri due sensi, soprattutto con la vista. Ricordo altrettanto bene, però, l’impressione suscitata dalle parti concluse. In particolare la prima, sull’olfatto, mi aveva consegnato una frustrazione unica. Dove decadono gli altri sensi, le altre conoscenze, rimane solo una traccia d’odore. Poche distinte note olfattive che costruiscono una personalità di volta in volta diversa, in ogni luogo e epoca, come testimoniano le ambientazioni dei tre racconti. Inutile dire dell’inconcludenza di ogni ricerca.

Mi rendo conto che sono caduto anche io vittima della fascinazione dell’odore. Anche io, di fronte allo sportello appena chiuso, avevo cominciato a ricamare su quelle note una persona fisica che non avrei mai trovato. E anche a trovarla, l’immagine non avrebbe mai soddisfatto l’idea di quel profumo, decisa e spregiudicata. In effetti, si può dire lo stesso per un sacco di cose, ma ormai è tardi per pensarci. Lo sportello si sta aprendo anche per me. Siamo arrivati a Foggia in ritardo (con un regionale non sarebbe mai successo) e mi tocca scendere nella calura estiva del Tavoliere, che un po’ mi ricorda i colori sbiaditi del Messico di Calvino.

Come da rito, appena sceso dal treno accendo una sigaretta.
Il fumo del tabacco ottunde il mio olfatto; si prende tutta la mia capacità di odorare il mondo che mi circonda, di conoscerlo. Poco male però, perché davanti alla stazione posso solo sentire il puzzo dello smog e del piscio che chiazza i muri esterni dell’edificio. Forse, varrebbe comunque la pena di smettere di fumare. Ma poi ci ripenso: i profumi significano ricordi, e i ricordi, specie se belli, sono pericolosi.

Spengo la sigaretta alla bell’e meglio e la butto via sperando che non prenda fuoco il bidone. Devo salire sul bus che mi porterà a Vieste. Anche qui il portellone si chiude, ma l’odore che mi pungola è quello del sudore stantio dei miei compagni di viaggio, al quale io mischio quello del tabacco appena bruciato. Penso che su quell’autobus l’odore agrumato del treno non lo avrei nemmeno sentito. Penso che su quell’autobus la donna del mio pensiero non sarebbe mai esistita.    

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di Jacopo Triggiani

Illustrazione di Matteo de Lucia

Ultima ora di treno. Sono in piedi dalle quattro di questa mattina e forse, dopo un aereo e due autobus, sto per arrivare a destinazione.

Non pensavo che ritornare da Berlino sarebbe stato così complicato, eppure mi sembra di viaggiare da giorni. Ad ogni modo, guardando fuori dal finestrino, seduto sul mio sedile pagato poco “perché-l’ho-preso-un-mese-prima”, ritrovo un senso di benessere.

Ho sempre pensato che i treni fossero un mezzo di trasporto privilegiato, anche più degli aerei.
Oggi me ne sono reso definitivamente conto.

Gli aerei mostrano le cose dall’alto; la vista è affascinante.
Allo stesso tempo, però, tutto è molto innaturale, tutto così distante.
Quel mondo non mi appartiene. Non mi è dato di guardare le cose tutte insieme, con una prospettiva completa, in viaggio come nella vita. Il treno, invece, è come un microcosmo che si muove in un mondo che posso abbracciare naturalmente, col mio fallibile sguardo di viaggiatore. Nelle cabine ognuno vive la sua vita, all’esterno della carrozza, pure. Il treno passa stazioni, paesi sperduti, periferie gremite con parchetti troppo vicini alle rotaie, e nel frattempo trasporta persone attraverso questi scenari. Tutto mi si offre nella sua interezza umana, non prospettica, eppure mi è precluso, con tutto il fascino che questo divieto comporta.

Penso che un autore ha dato corpo alle mie divagazioni: Boris Pasternak nel Dottor Zivago.
Il treno è la promessa di una nuova vita a Varykino per la famiglia del dottore, eppure, prima di tutto, è la macchina che trasporta attraverso il tempo e lo spazio della rivoluzione d’Ottobre. I vagoni sono stipati di storie più che di persone, e ogni passeggero si trova a passare attraverso le macerie della Storia che si sgretola, sotto i colpi di un avvenire più incerto delle idee che lo hanno profetizzato.
È tutto in quel fetido vagone, fra le urla dei bambini e i discorsi sconclusionati di uomini e donne incapaci di capire cosa accadrà. Il dottore sta in silenzio e, quando non riflette, guarda fuori, pensando a Lara.
Il treno è anche il mezzo che ricongiunge il protagonista alla donna che ama più di quella che dovrebbe amare, anche se lui non lo sa. Tutta la vicenda si racchiude nella locomotiva scricchiolante che divide il romanzo in due parti. Il treno è l‘unico mezzo per unire la storia privata di Zivago e la Storia che la comprende, con l’intento di soffocarla.
La Rivoluzione e l’amore aldilà di un unico finestrino che si muove lentamente, fra paesi diroccati e stazioni dismesse.

È la mia fermata, finalmente.
Scendendo gli scalini, comunque, sento che mi dispiace essere arrivato.
Sono esausto, ma mi metto a fantasticare sulla possibilità di una vita trascorsa passando accanto alle cose, troppo vicino per toccarle. Rifletto sulla possibilità di scorgere infiniti scenari, scorrendo via talvolta a passo d’uomo, talvolta in velocità, affidandomi a un conducente di cui non conosco neanche il volto, ma che so capace di portarmi a destinazione.

È inutile, questo treno proseguirà anche senza di me.
Posso solo guardarlo partire. Mi ha risputato nel macrocosmo delle macchine parcheggiate a chilometri di distanza per non pagare la sosta prolungata. Salgo in auto e metto in moto. Non ho per niente voglia di guidare, ma nel mio solitario abitacolo comincio un viaggio fatto di traffico e tensione, senza possibilità di distrazione.
Penso che non posso permettermi un autista.
Poco male: un treno ogni tanto costa meno.  

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di Alex Roggero

Illustrazione di Redazione

Salgo sul treno di corsa, affannato e sudato, sono abbastanza certo che tra qualche istante sputerò un polmone direttamente dalla bocca.

SBAM.
Le porte si chiudono alle mie spalle. Lo fanno con violenza, quasi per volermi dare una lezione.
Per poco non cado al suolo. Figa, forse in realtà me lo sarei pure meritato, prima o poi giuro che lo capirò che per arrivare da Porta Romana a Stazione Centrale ci vogliono più di 20 minuti in metro.
Eppure continuo a fare di continuo sempre lo stesso errore.
Forse lo faccio apposta, forse mi piace auto-sabotare la mia vita.

Le persone sulla carrozza mi fissano mentre ansimo.
Cammino sudato provando a non farci caso. Tra poco inizierò pure a puzzare lo so. Mi spoglio e mi siedo nei primi posti liberi che trovo. Tiro fuori il cellulare, apro Instagram. Alle mie spalle, credo una fila o al massimo due dietro la mia, una signora dice a quello che penso possa essere il marito, o forse un amico, che i soldi del biglietto ovviamente glieli ridarà, che è solo un momento difficile in cui non capisce dove finiscano i suoi soldi. Dalla voce penso avrà tra i 70 e gli 80 anni. È umiliata nel dover fare quella precisazione, si percepisce che nella vita questa persona non ha mai dovuto chiedere un prestito a qualcuno. Forse in realtà non ha mai dovuto chiedere proprio niente: «Giuro che te li ridarò, davvero, lo giuro».
«12 euro di biglietto? Ma smettila di dire fesserie, sono felice di avertelo pagato. E poi forse dovremmo proprio smetterla di fare queste cose. Viviamo insieme da 50 anni, smettiamola di fare gli adolescenti. I miei soldi sono anche i tuoi lo sai».
«No! Io non dipenderò mai da qualcun altro. Mai!»
«Ma chi dice che dipenderesti da me? Sarebbe tutto esattamente come è ora, semplicemente non dovresti chiedermi scusa se ti compro un biglietto del treno».
«Io nella mia vita mi sono sempre pagata tutto da sola. Lo sai bene. E nonostante tutto, ho sempre vissuto benissimo. È solo una situazione temporanea questa. Vedrai, il mese prossimo ti restituirò tutto».

Ok, forse in effetti dovrei semplicemente farmi i cazzi mie lo ammetto, ma la loro intimità mi ha ipnotizzato per qualche minuto. Mi rimetto a guardare filmati di ciccioni che cadono su Instagram.
O almeno ci provo.

Un telefono inizia a squillare: «Federico, amore dove sei? Come Stai? Scusami ho sbagliato, ti chiedo scusa».

La Signora risponde a quello che penso possa essere un figlio, o un nipote.

«Ma certo che puoi non venire. Ma certo, tu hai la tua vita lo so, sono stata una stupida a mandarti quel messaggio. Sì, lo so che sei pieno di cose da fare. Ma no tranquillo, davvero stai tranquillo. Cosa? Vuoi venire? Ma certo vieni amore ti aspettiamo. Il Professor Perzulli non vede l’ora di conoscerti, ci ha detto che vorrebbe dare a te l’esclusiva di questa intervista. Chiunque vorrà pubblicarla vedrai, faranno a gara e sarà utile alla tua carriera, in qualunque ambito tu voglia che sia. No ma sei non vuoi venire stai tranquillo. Perché me lo chiedi? Perché lo chiedi a me? Cosa vuoi che ti dica? Se mi fai questa domanda è perché forse vuoi venire? Devo chiederti di venire? Vieni amore mio, ti prego vieni. No no no, non fare così, non ti ho chiesto io di venire, me lo hai chiesto tu. Lo so che hai le tue cose da fare e ti eri già fatto i tuoi programmi per il weekend. Amore non venire. Vieni? No no non te lo sto chiedendo, non venire. Ti prego non chiedermi più niente ti prego. Ti prego. No no, aspetta ti passo il papà».

«Pronto? Ciao Federico, che piacere sentirti. Allora, come ti dicevo nel messaggino che ti ho mandato, cercando di rispettare sempre le tue scelte e la tua volontà, questo incontro, per tutto ciò che ci siamo detti e che ben sai, potrebbe rappresentare un’ottima occasione per la tua carriera. Altresì, il fatto che tu abbia già organizzato il tuo weekend, rappresenta un’ottima giustificazione per non venire all’incontro. Ma no, la mamma lo capirebbe, te lo garantisco. Sì, lo sappiamo che vorresti venire. Ma sappiamo anche che sei una persona molto impegnata tranquillo. Federico, però ora promettimi che non passerai la giornata a tormentarti pensando al fatto che non sei venuto. Me lo prometti? Ecco, ora goditi il tuo weekend, fidati che ci saranno altre occasioni per incontrare il Professore, te lo assicuro».

«Sì, ma non per intervistarlo!» la moglie urla all’improvviso questa frase.

«Ma no Federico, la mamma ci tiene solo molto alla tua carriera. Tranquillo, abbiamo capito le tue motivazioni e ci sembrano assolutamente ragionevoli. Sei una persona impegnata, molto impegnata, è giusto che tu sia geloso del tuo tempo. Tranquillo. Ora smettila di pensarci e goditi il tuo weekend. Sì sì certo, te la saluto io. E non chiedere più scusa, non hai fatto niente di sbagliato. Ciao Federico. Ciao».

Vorrei voltarmi e dare un volto a queste voci, ma nella carrozza si è creato un silenzio surreale. Penso che chiunque negli ultimi minuti stesse ascoltando come me quell’assurda conversazione. Siamo tutti immobili al proprio posto, facendo finta che tutto sia normale. Anzi peggio, facendo finta di non aver ascoltato nulla.

«Sto distruggendo la sua vita. Lo so. Sono un mostro. Non dovevo insistere per farlo venire».

«Ma smettila di dire queste fesserie, non hai fatto niente di sbagliato. Anzi, posso dirti una cosa? Al 99% avevi ragione tu».

«Ora passerà tutto il weekend tormentandosi pensando a quanto sarebbe stato meglio se fosse venuto. Lo so. Perché sono stata così stupida? Perché?».

«Ma guarda che a scrivergli quel messaggio siamo stati tutti e due. Prima di inviarlo mi hai chiesto cosa ne pensassi no? Stai tranquilla, vedrai che si risolverà tutto come sempre. Tra una settimana nemmeno ci ricorderemo di questo episodio».

Squilla di nuovo il telefono.

«Federico? Amore mio. Che bello sentirti. Ma no certo, avvisiamo noi il Professor Perzulli. Sì, lo aveva chiesto lui personalmente a tuo padre di farsi intervistare da te. Sì, lo sai che voleva aiutarti, lo sai bene. Federico perché mi torturi così? Cosa vuoi che ti dica? Vuoi che menta? Era una grande occasione lo sai, lo sai bene. No Federico ti prego non dire così. Lo so che sei una persona molto impegnata. No stai tranquillo, ci saranno altre occasione sì è vero. No non l’ho mai detto. Federico ti prego. Ti passo papà?  No ok, ci sentiamo più tardi allora. Scusa Federico davvero, scusa. Non dovevo mandarti quel messaggio. Mi scusi Federico? Davvero? Scusami. Sì sì scusa. Ciao amore ciao».

Sento la Signora esplodere in lacrime.

«Sono un mostro. Ho distrutto la vita di nostro figlio. Sto vivendo un incubo. Ti prego dimmi che non sta succedendo per davvero».

«Ma la pianti di dire fesserie? Non è successo niente. Tra un paio d’ore chiamo Federico e ci scherziamo su ok? Magari gli passo il Professore e lo faccio tranquillizzare anche da lui».

«Tu lo sai perché non è venuto».

«Sì, perché è una persona estremamente impegnata. Aveva già organizzato il suo weekend e noi abbiamo provato a stravolgere i suoi programmi all’ultimo minuto».

«Non viene perché è malato».

«Ma smettila, ancora con questa storia».

«Lo so che è lui che ruba i miei soldi».

«La smetti di dire queste fesserie? Guarda che ci stanno ascoltando tutti».

La Signora inizia a piangere così forte che per provare a non sentirla devo mettere le mie cuffie al massimo del volume. E comunque un po’ continuo a sentirla.

Nell’ora successiva tutto sembra tornare alla normalità. Io mi faccio i cazzi miei, i due vecchi finalmente stanno zitti. Niente più conversazioni surreali, niente più piagnistei. Posso finalmente concentrarmi e guardare ragazze decisamente poche vestite su Instagram. Uno dei miei passatempi preferiti.

Quando stiamo per arrivare alla stazione di Parma però, il telefono squilla ancora.

«Buongiorno. Sì salve, sì sono la mamma, chi parla? Sì. Non mi faccia spaventare, cosa è successo? No, non sono calma. Come faccio a restare calma? Chi è lei? Che ospedale? Cosa è successo? Federico? Cosa? Cosaaa? Non è vero. Non è vero. Non è veroooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo».

Credo che il suo urlo di disperazione abbia gelato all’istante i cuori di tutta la carrozza. Non si è sentita più una singola parola fino a quando il treno si è fermato alla stazione. Mentre mi alzavo per uscire, ammetto di essermi voltato per provare a vederla in viso. Ovviamente non ci sono riuscito, ho visto solo una massa di capelli tinti di biondo abbracciare un signore dai capelli bianchi, di cui però, vedevo solo le spalle.

Penso questo sia stato uno dei viaggi più assurdi della mia vita.
La prossima volta prendo Italo.

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di Cristi Marcì

Illustrazione di Anastasia Coppola

Tornare alle proprie radici non sempre è la strada più semplice da percorrere, tantomeno poi se di mezzo ci si mettono pure i propri sogni da inseguire, specialmente in un contesto storico culturale connotato da vincoli, credenze e obblighi morali oltre i quali la propria voce è ridotta al perpetuo silenzio.

Per chi rifiuta i destini tracciati

Ambientato in una Palermo costretta a fare i conti con la guerra e l’occupazione nazista-fascista, questo romanzo riflette in maniera più sottile le reali battaglie che la donna era costretta a fronteggiare durante i tempi bui del secolo scorso, rispetto al quale il valore femminile era circoscritto in prevalenza ad un ruolo dove il diritto ad essere sé stessi e alla libertà di espressione, venivano subito banditi come minaccia da parte di chi era solito tracciare i loro destini nel mondo.

Le protagoniste di questa storia meravigliosa sono Eugenia, giovane donna alle prese con il primo amore e i voleri familiari e Beatrice Maria Tasca Filangeri, donna (prima) e madre (dopo) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Attraverso la descrizione delle rispettive personalità e delle proprie dis(a)vventure, Ruggero Cappuccio delinea in maniera magistrale una cornice sia mitica che archetipica del reale compito al quale la donna era spesso chiamata, e in cui la parola sacrificio non sempre lasciava spazio a quella dell’Opportunità.

Approdata nel capoluogo siciliano nel maggio del 1943, Beatrice si ritrova catapultata in un mondo a lei del tutto sconosciuto, dove i fasti del periodo liberty e gli equilibri di classe sono stati ormai ridotti in macerie dai bombardamenti, i palazzi sepolti sotto un cupo silenzio e il cielo si diverte a riflettere l’anima di quel periodo: scuro e indecifrabile.

Eppure, una volta tornata al suo luogo di infanzia, la vera battaglia che l’attende è quella con il passato e le sue numerose sfumature rispetto ai quali ogni scelta rischia di sgretolare financo l’ultimo briciolo di speranza.

Due esistenze, due destini, un’amicizia che si intrecciano in una geometria stellare

Ogni pagina pertanto, al pari di una geometria stellare, riflette quella luminosità che anche nei momenti più bui della vita non deve mai cessare di brillare, perché oltre al profilo storico culturale le due protagoniste descrivono al meglio due finestre temporali entro le quali le proprie radici possono ancora protendersi verso qualcosa di nuovo e che tuttavia si teme a volte di scoprire.

Lo scorrere e a tratti l’inafferrabilità del proprio esistere rispecchiano dunque il nucleo attorno al quale gravitano la vita e le scelte tanto della principessa di Lampedusa quanto della sua giovane vicina, le cui radici sono a sua insaputa pronte ad evolversi verso qualcosa di imprevedibile e sconosciuto.

Figlia di una famiglia benestante, il destino di Eugenia sembra ormai segnato dalle scelte del padre, che già dalla tenera età e ancor più sulla soglia dei vent’anni, vuole instradarla verso un futuro che tuttavia non le appartiene e di fronte al quale i suoi sogni rischierebbero di spegnersi.

La sua vita sembra dunque segnata da un volere che tutto le nega e poco le concede, finché un giorno al riparo della sua stanza la curiosità la guiderà verso l’incontro di un mondo all’apparenza lontano eppure a lei vicinissimo e che segnerà le sorti della sua vita, nonché della sua rinascita.

Il linguaggio delle immagini come antidoto all’obbedienza: una riflessione sulla psicologia del Sé

A chi si ribella ad un ruolo imposto

Secondo il noto psicoanalista junghiano James Hillman obbedire al richiamo di quello che viene definito Dàimon, vuol dire disobbedire e ribellarsi a quell’unico ruolo che ci è stato imposto e che per l’appunto non consente la fioritura e ancor più la scoperta delle migliaia di voci e identità dalle quali siamo abitati a nostra insaputa.

Disobbedire vuol dire quindi rispettare la propria natura che ogni giorno si rischia di tradire attribuendole significati univoci e spesso limitanti ma in conformità con quelle leggi esterne che riteniamo essere capaci di valorizzare la nostra identità.

Ripristinare il linguaggio delle immagini che ci abitano vuol dire entrare gradualmente a contatto con un spazio ed un tempo diversi da quelli ordinari e rispetto ai quali peraltro il rapporto causa effetto sembra sgretolarsi dinanzi ad una moltitudine sconosciuta, imprevedibile e proprio per questo ricca di opportunità. Una moltitudine accompagnata da quel valore simbolico che proprio grazie all’immaginazione, amplia non solo la percezione di quanto ci circonda bensì la consapevolezza con la quale far fronte a ciò che è in atteso: facendo della disobbedienza una consapevole risorsa.

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di Jacopo Triggiani

Illustrazione di Matteo de Lucia

Salgo sul treno. Destinazione Milano.
Vado a trovare degli amici.

Siamo tutti della stessa città e siamo tutti sparsi per l’Italia per motivi di studio.
Ci costruiamo un futuro, o quello che è.

Milano è un buon punto di incontro.
La nostalgia ci spinge a ritrovarci lì, perché ognuno, a suo modo, è per l’altro uno scampolo di quotidianità perduta, di quelle vecchie abitudini che fanno sentire al sicuro.

Seduto nel mio posto penso che, però, è qualcosa d’altro a spingermi.
Non basta la nostalgia né la voglia di sbronzarci tutti assieme, come ai tempi del liceo.
Mi risuona in mente la parola amicizia e mi viene in mente un libro che ho letto a riguardo.
Si chiama La simmetria dei desideri, di Eshkol Nevo, e me lo ha regalato una mia cara amica il giorno del mio compleanno.

Quattro ragazzi, legati dai tempi della scuola.
Churchill, Ofir, Amichai e Yuval. Ognuno ha le sue caratteristiche peculiari. Indubbiamente il leader carismatico è Churchill, sempre intraprendente e fascinoso. Ma Yuval ha il talento per la scrittura. È lui a dover dare voce alla storia del gruppo; è lui a dover raccontare il tradimento della sua amata Ilana, che sceglie proprio Churchill come suo nuovo compagno. Ofir, nel frattempo, subisce la sua esistenza, fino al punto di rottura. Amichai, a differenza sua, ha tutto ciò che vuole, ma, come spesso accade, gli viene tolto. Sono quattro esistenze slegate, senza alcun contatto anche solo pensabile, eppure unite.

Come dei fili trasparenti che tengono insieme le membra disgregate di un corpo unico.

Yuval parla di questi legami come se fossero naturali; dà loro l’importanza dei dati di fatto, quasi senza accorgersene, quasi fossero scontati. Come a dire che si è amici perché c’è una corda che ci tiene, e viceversa. Pura tautologia.

Su questo treno troppo veloce, mi rendo conto che ciò che mi spinge a Milano è proprio questa sensazione data per scontata. Mi rendo conto che per quanto io possa essere lontano da certe persone, nel fondo della mia coscienza, la loro esistenza per me, in relazione a me, sarà sempre un dato di fatto.
Le esperienze vissute, la conoscenza reciproca, l’affetto che ci lega saranno sempre lì, a occupare uno spazio angusto e persistente. C’è tanto egoismo, come in ogni emozione umana degna di questo nome. Ma mi ritrovo a pensare che sia un loro dovere continuare a mantenere quel posto, come lo è per me.

Ho la certezza che non è per noia che siamo rimasti amici; non perché non c’era niente di meglio. Screzi e dissapori sono solo distrazioni, come nel libro di Nevo. Indipendentemente da noi, esistiamo come amici, soprattutto quando nessuno risponde dall’altro capo del filo.

A me non è andata poi tanto male, devo dire.
Almeno non ho nessuna Ilana da reclamare, per il momento.

L’avviso della fermata mi richiama alla realtà.
Ormai siamo in arrivo a Milano Centrale. Riavvolgo il filo.
Vedo il mio amico che aspetta appena fuori dal tornello.

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di Antonio Sutera

Illustrazione di Eleonora Loiodice

Ora di pranzo.
La mia abitudine è di mangiare poco e presto, in un caffè molto buono ma discreto.
Il luogo è frequentato solo da noi pochi, persone di gusto e di rango; qui mi conoscono tutti.
Sì, mangio da sola, lo facevo anche prima che mio marito morisse: quando si ascoltano chiacchiere tutto il giorno, fa piacere avere dei momenti di silenzio per sé.
In altri posti la gente fa così tanto baccano! Ma deve essere entrato qualcuno. Tutti si sono voltati verso l’ingresso, dallo sconcerto è chiaro che i nuovi arrivati non devono essere del solito giro. No, non sono qui per mangiare. Li intravedo mentre si dispongono ai lati del mio tavolo, abbastanza da farsi notare. Di qualunque cosa si tratti, il tempismo è degno della peggiore maleducazione. Il locale sta tutto con il fiato sospeso, le forchette mezz’aria. Passa ancora qualche momento e mentre spezzetto una brioche (il medico mi ha detto di fare bocconi molto piccoli), si decidono infine e si piazzano davanti a me, ostruendomi la vista degli altri tavoli. 

«Buongiorno, signora». Sto ancora masticando, buon dio.
Sono maleducati e hanno anche fretta. Non sarei certo scappata a stomaco pieno: è terribile per la digestione. Finisco il boccone, sospiro e mi alzo lentamente; poso il tovagliolo sul tavolo, faccio strada verso l’uscita. Lo sguardo degli altri clienti seduti è di compassione e di silenzioso supporto.
Questo breve tragitto è un oltraggio alla mia dignità che sembra non finire mai.

Fuori mi aspetta un sole forte che paro dietro le lenti scure.
La vettura è sicuramente quella, si capisce anche prima che aprano la portiera da dentro. Come se fosse un segnale convenuto, e forse lo è, i due mi lasciano andare da sola ed entro.
La carrozza è spaziosa, foderata in verde limone. Sembra di stare dentro un agrumeto dei paesi del sud. Anche le tende nere e spesse mi ricordano latitudini non mie. La chiusura dello sportello, da parte credo di uno dei due omoni in blu, mi riscuote. Passano alcuni momenti di attesa nel silenzio totale.
«Può partire!» grido al cocchiere. 
Mi sento di riprendere in mano il controllo di questa situazione iniziata male. Ma non parte, anzi un attimo dopo entra qualcuno. È un uomo maturo, alto, magro, con capelli e barba precocemente bianchi e lui stesso vestito di bianco, anche se di un bianco logoro, spento. Si sistema di fronte e dà due colpi col bastone allo schienale dietro di sé, sulla cornice di legno marrone scuro.
Adesso il viaggio può cominciare.

È un viaggio lungo, interrotto quattro volte dall’ingresso di altre tre persone e dall’uscita del secondo arrivato, poco prima della fine del viaggio, azione che considero una vigliaccata bella e buona. Insomma, arriviamo in quattro: io, il signore bianco, due ospiti.
Una è una bambina bruttina, di circa dodici anni e il vestito con gonna alle ginocchia. La seconda una signora sui sessanta. Ma andiamo con ordine.

L’arrivo del signore bianco non mi diede, come invece avrebbe dovuto, l’idea del rapimento; questo perché, nonostante sia chiaro che è lui il padrone della carrozza, e dev’essere anche ricco, da come è vestito, non ha detto una sola parola da quando è entrato, e un rapitore dovrebbe immediatamente vantarsi della buona riuscita del piano o del suo potere, tanto più in una operazione cristallina, alla luce del sole, come questa. Avrebbe potuto almeno minacciarmi di conseguenze vaghe e terribili lungo tutto il viaggio; ridere di gusto della mia impotenza, mostrare un’arma, anche solo per scoraggiare la fuga. Niente, la sua espressione è soddisfatta, ma proprio non intende parlarne.
Eppure sento che ci deve essere un motivo grosso dietro al fatto che sono stata privata di una parte del pranzo e interamente del dessert. Gli appuntamenti non sono così bruschi; si manda un invito con giusto anticipo. Mi sento sinceramente offesa, ma poiché è ragionevole che non mi sarà concesso scendere prima di arrivare a destinazione, devo trovare un diversivo. Per fortuna mi distraggo facilmente. Le tende sono di seta, morbidissime. Dietro di esse scopro un paesaggio traslucido disegnato sul vetro del finestrino: un paesaggio campestre dipinto a toni accesi e in modo grossolano. Il volto del taglialegna, ad esempio, è tutto indistinto. Le pecore lasciano intravedere, sotto il bianco troppo debole della lana, il vero paesaggio fuori, con l’effetto che le pecore sembrano avere viscere trasparenti e cangianti. Il disegno è abbastanza invadente da impedirmi di farmi un’idea delle vie che attraversiamo, ma senza dubbio siamo ancora in città.

Non troppo tempo dopo ecco la nostra prima ospite.
Il signore bianco ha aperto un orologio a cipolla piuttosto largo e piatto e battuto il bastone una volta.
La carrozza si è fermata all’istante.
La bambina è bassina, bionda più di me, con l’aria imbronciata. Anche da lei sembra che non possa aspettarmi una conversazione brillante. Ha in mano un taccuino da disegno e carboncini e guarda al vetro, forse per imprimere nella mente il rozzo paesaggio disegnato e ricrearlo sul foglio.  A sorprendermi è invece il secondo ospite, che ci lascerà poco prima dell’arrivo. Non si toglie il cappello entrando, e sembra esagitato e sorridente. Dopo due minuti di permanenza accanto al signore, decide di sdraiarsi sul fondo della carrozza, tra le gambe di tutti (quelle della bambina non arrivano che a metà sedile). Così rimane, col sorriso sul volto e le mani incrociate. Potrebbe anche sembrare che lo stiamo vegliando, messi così, ma il suo sguardo vivace passa da uno all’altra dei passeggeri, in modo proprio indecoroso.

È chiaro che sta per esplodere.
«Signorina» dice alla bambina, «Signora» dice a me. «Signore» dice con un sorriso ancora più largo al signore in bianco, che si guarda intorno con fare seccato. Passano due secondi di silenzio.
«Allora, dove andate?»
«Da dove viene lei?» contro chiedo io: «A che altezza è salito?».

L’uomo in bianco lo prende per un colpo basso e si mostra dispiaciuto, come avessi detto una parolaccia. Il signore sdraiato, invece, è raggiante. «Piacere, signora, sono felice che voglia parlare con me. Mi sembra che i nostri altri due compagni di viaggio cercheranno di evitarmi il più a lungo possibile». «Lo credo bene» ribatto io «sta tra i piedi a tutti quanti qui. Io stessa parlo con lei solo per dare fastidio al mio rapitore, sa, l’ometto in bianco che finora non mi ha dato lo straccio di una motivazione di quanto sta succedendo. Di lei, mio caro, mi importa poco. Della bambina, ancor meno. Ma non se ne abbia a male, piuttosto risponda alla mia domanda».

«Nessun’offesa» ribatte lui. «E se crede che io stia qui in basso a dare fastidio, giusto per rimanere in tema, ecco! No, sono qui giù per il motivo opposto: non farmi notare. Anche lei, non si preoccupi di guardarmi, o le verrà il mal di strada. Può fare finta che io non esista».
«La domanda, mio caro» insisto guardando il finestrino istoriato.

«Certo, certo. Ero uscito a comprare qualcosa, non ricordo cosa, mi scusi. Per conto di mia moglie e dei miei figli. Sa, sono impiegato in una media azienda, sono contabile, ma non l’unico, no. Ce ne sono altri. Comunque, il lavoro non manca lo stesso, anzi direi che vedo la mia famiglia assai poco. Ho spesso il timore che un giorno mi rinfacceranno…».
«Le assicuro di no, stia tranquillo. Quindi, cosa è uscito a comprare?»

«Patate, credo».
«Patate? Morite di fame in famiglia?».
«No. Oddio, non credo» risponde lui turbato.
E smette di parlare, ma sento che tra sé mormora qualcosa su dei bambini affamati.
«Non si turbi, la prego! Allora, non sono patate. Oggi è domenica ed era ora di pranzo. Si trattava di piante, ma non di patate. È uscito a comprare dei fiori». Azzardo.
Il suo volto preoccupato si chiarisce di colpo.
«Vero, signora! Lei ha del talento!».
«Può darsi» dico io. «Ma ora si concentri sul colore e la qualità dei suoi fiori, il posto dove contava di trovarli e ci lasci in pace». Funziona.
l’individuo rimane sul fondo della carrozza ma con gli occhi al soffitto, e sembra beato.

Devo avere qualità ipnotiche, penso.
Ma sono sempre stata molto convincente. 

Il viaggio prosegue nel silenzio, adesso. Noto con piacere che il signore in bianco sembra indispettito della mia chiacchierata. È il caso di rincarare la dose. Mi forzo quindi a fare qualcosa di insolito.
«Cara bambina, come ti chiami? Conosci il signore lì accanto a te?» dico melliflua.
La bambina continua a guardarmi col broncio.
«Ah, ho capito, è il tuo papà. Avete le stesse abitudini, vedo».
«No, signora, il signore non è mio padre. Non l’ho mai visto finora, ma come vede siamo tutti nella stessa situazione e non ne capirà di più finché non saremo arrivati».
Il discorsetto ha rianimato alquanto il nostro rapitore. Ha preso colore.
Consegna alla bambina un dolcetto a stecco ancora incartato che lei tiene in mano passivamente: è troppo impegnata a contemplare il paesaggio.
«Comunque, può sempre guardare fuori, non è tenuta a fissarmi tutto il tempo». «Mia cara, dal mio finestrino non vedo quasi niente, è del tutto decorato da queste figure parecchio rozze, se mi permette il nostro buon signore. Mi ascolti: lei sembra avere delle buone risorse. Londra è piena di artisti sfaccendati, sa? Potrebbe renderne felice qualcuno».

«Non saprei, signora, ma il mio è del tutto trasparente» si intromette la bambina. «Be’, ecco una buona notizia! Posso dare un’occhiata?».
Faccio per alzarmi, ma il signore in bianco mi punta contro il bastone e mi rimette al posto. Poi toglie con stizza il dolcetto dalla mano della bambina. In tutto questo ho quasi calpestato il secondo viaggiatore lì per terra, di cui ci siamo completamente dimenticati. «Scusi, lei, laggiù» dico.
Ma il signore è del tutto immerso in colori e forme di fiori.
Sarebbe molto utile sapere qualcosa di più sul nostro percorso.
«Signorina, mi puoi descrivere con precisione cosa vedi al finestrino?».

«Sono Margarethe, signora, e lei non si è ancora presentata. Vedo campi arati, pecore gonfie di lana, e lì giù c’è un paesino». «Quale paesino? È importante per capire dove andiamo. Lo riconosci?».
Ora si volta verso di me. «Sono tedesca, signora» mi dice gelida «Non so niente dei vostri pittoreschi villaggi». Il silenzio torna pesante, la bambina si immerge nella visione dal finestrino. «Grazie, comunque, cara» dico tra i denti.

Si sente dagli scossoni che il fondo stradale è cambiato.
Conosco questa strada, stiamo andando a ovest. Mi sembra una buona notizia, ho alcune amiche fuori Londra e mi sembra di riconoscere la prima parte del tracciato. Non siamo usciti molto dalla città, se è così. Dal finestrino il sole è ancora alto.

Dopo appena un altro po’ di noia insopportabile, ecco infine arrivare la nostra terza compagna. Una signora sui sessanta, gioviale. »Buondì” esclama entrando. L’atmosfera all’interno è quella che sapete. «Oddio!» esclama subito «Cosa ci fa lei laggiù? Si è fatto male?» dice rivolta sul signore in basso. «Non si preoccupi, signora, è una sua precisa scelta. Non lo guardi troppo, o le verrà il mal di strada.” intervengo io per evitare lungaggini.
«È ben strano, non si è neanche tolto il cappello» e poi, guardandomi: «Io sono Bettie, signora, e lei mi dà l’impressione di essere una gran dama.” «E lei, signora, mi dà l’impressione di essere l’unica persona in sensi di questo viaggio strampalato. Sono Anne. E mi dica, signora, dove è salita a farci compagnia, cosa di cui le sono profondamente grata? Forse dalla parti di Shifstenton?»

«Oh no, mia cara! Devo andare a Milbury street, qui a Londra. Sono salita a Battery.” «A Londra? Non siamo usciti dalla città?» Sono furibonda. «Bambina, perché mi hai detto che vedevi la campagna? Perché mi hai mentito?».
«Che accade, signora?» Dice Bettie «È solo una bambina impertinente, ne può trovare due così anche a casa mia».
«Signora» dico chiaramente «le sembra un viaggio normale, questo? Sono stata prelevata, dico prelevata, quasi di peso, dal mio ristorante, e mi ritrovo in questa compagnia, senza alcuna informazione, con quest’uomo muto come una tomba, il signore che vede qui sul pavimento, Dio sa perché, e una bambina tedesca. E saremmo ancora a Londra? Che razza di rapimento è questo, in pieno giorno? Lei non parlerà mai, eh?» Dico infuriata all’uomo in bianco.

«Signora, la prego. Da fuori questa sembrava una normale carrozza pubblica, non c’è motivo di allarmarsi. Non penso che ci sia di mezzo un rapimento».
«E perché non riesco a vedere fuori, se non per impedirmi di sapere dove stiamo andando?» quasi grido. La mia disperazione ha ammutolito tutti, mi viene quasi da piangere.
«Mi scusi, cara, per un attimo mi era balenato in mente che stessimo andando tutti in visita da una delle mie amiche, sa? Due mie grandi amiche abitano fuori Londra, verso Ovest. Poteva…poteva essere una bella idea, e avrebbe spiegato tutto».

«E in che modo, cara? Come potremmo noi quattro, dico io, il signore in bianco, la bambina, il signore peculiare qui sotto, essere con lei in una carrozza che la portasse in visita a un’amica, di cui noi nulla sappiamo?” “Perché sarebbe stato uno scherzo non male, mia cara!» dico con voce sottile.
«Il signore, qui, in bianco, sarebbe l’incaricato dello scherzo. Il signore in basso, lo vede da sola, è un attore consumato. Lei e la bambina potreste essere altri figuranti, oppure…una cuoca, delle parenti».
Bettie si era un po’ adombrata: «Mi scusi se le do della serva, ma il suo abito…».
«Non si preoccupi, lei è molto scossa, lady Moorgrove».
«Grazie per la sua comprensione. Come sa il mio nome?».

Ma non ci fu tempo.

«Grosvenor!» urla il signore sul pavimento: «Ecco dove scendere. Un mazzo di mughetto e tre rose. Signore!».
L’uomo in bianco batte una volta col bastone, la carrozza si ferma, vedo l’uomo stravagante uscire dalla carrozza, nell’aria polverosa e accecante. Poi lo sportello si richiude. La desolazione cala su di me.
Una vera vigliaccata, come vi dicevo.

Mi sento stanca, avvilita da questa colossale congiura.

«Bettie, da Grosvenor a Milbury non c’è molta strada. Tra poco scenderà anche lei».

«Oh, credo scenderemo tutti, signora».
«Non capisco».
«È per lei che siamo venuti».
«Per me?».
«Sì. La sua esecuzione. Lady Moorgrove, non può non saperlo. Le hanno anche trovato il veleno in casa. Povero suo marito! Tutta Londra verrà a vedere. A Milbury, alle tre».
«La mia…» guardo i miei compagni uno a uno.
La bambina stringe il suo taccuino da disegno.
Disegnerà me, lassù sul patibolo, per qualche giornale tedesco?

La mia esecuzione. Me ne ero completamente dimenticata. Sapete che mi perdo facilmente nei miei pensieri. In effetti sembra quadrare. «E perché il signore qui in basso, invece, è appena sceso?».
«Sarà un po’ matto, ecco tutto» mi dice Bettie con un sorriso.

«Millbury!» grida Bettie entusiasta.
Da lì in poi sento tutto ovattato.
Il bastone del signore in bianco, le mani che mi spingono fuori, non so più di chi, la forca che si staglia lassù contro il sole in un cielo assurdamente limpido.

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di Jacopo Triggiani

Illustrazione di Matteo de Lucia

Bologna centrale.
Tanto per cambiare, piove durante tutto il tragitto per arrivare in stazione.
Il binario è il solito, il numero tre.
Mi fermo davanti alla porta della mia carrozza a entro nel mio intercity 604.
Vado a casa, o ci torno: fa poca differenza, almeno per chi, come me, non ha l’assurda presunzione di possedere un luogo.

Il posto è l’11d.
È dal lato del finestrino e, almeno di solito, il posto accanto rimane vuoto, forse perché la seduta è leggermente ristretta per la vicinanza del vano porta valigie della carrozza. Poco male, io ho le gambe corte, come il fiato del controllore che ci passa in rassegna, e quello spazio mi è più che sufficiente.

Stavolta si siede una persona accanto a me.
È un uomo anziano, ha la barba lunga, e un lungo cappotto nero. Di recente mi è capitato fra le mani un racconto di Tolstoj: La morte di Ivan Il’iĉ.
L’ho preso a mio fratello più piccolo, che non sapeva che farsene, e ora lo stringo fra le mani.
Voglio rileggerne alcune parti. So che manca qualcosa alla mia lettura.
«Un bellissimo racconto», esordisce il vecchio. Chissà perché mi aspettavo che sarebbe successo.
«Non mi è del tutto chiaro. Mi sembra banale, troppo snello. Però è Tolstoj…» faccio io di rimando. «Quando lo lessi, tanto tempo fa, mi diede la stessa impressione. Ora che sono vecchio e mi sento più vicino al protagonista, forse comincio a capirlo».
«Il problema è proprio quello. Non so cosa ci sia da capire. La storia è travolgente, in tre parole si descrive una delle morti più atroci di cui io ho mai letto. Ma non vado oltre. Un borghese della Russia del XIX secolo muore di un male incurabile. Tutto qui. Niente di più semplice. Partecipo alla sua angoscia e basta».

«Secondo me ti stai ponendo la domanda sbagliata. Quando ho letto di Ivan Il’îc pensavo che l’unico dubbio di quel povero borghesotto riguardasse il destino. Come se si chiedesse perché stesse capitando a lui tutto quel male… Non è così, te lo assicuro. Quando la morte si avvicina, come capita al personaggio, o come sta capitando a me, ci si domanda se sia vero che può succedere anche a noi». «Però la risposta è ovvia. Ci mettono davanti la morte ogni giorno; a volte, se ci va male, ci cade letteralmente affianco. Tocca a tutti, prima o poi».
«Un conto è saperlo; un conto è capirlo». Mi fa il vecchio.
«Secondo te perché Ivan chiude la sua vita urlando per ore che lui vive come un secondo? Non c’è redenzione, c’è solo paura, ed è terrificante. Tutto il tempo buttato a inseguire i sogni da salotto che gli hanno imposto, a sopportare una vita, una moglie, dei figli, solo perché deve. E alla fine muore, e neanche sa perché. Gli manca la terra sotto i piedi. Al suo capezzale non c’è veramente nessuno, a parte il servo che gli lava i piedi o lo solleva dal letto per farlo soffrire meno. Anche io urlerei, a squarciagola». Rispondo: «in effetti, è una fine proprio squallida. Nessuno riesce a comprendere il dolore, e l’unica cosa che rimane al malato è la rabbia, la paura. Non credo che sopporterei di capire che la morte è anche mia. Solo a pensarci, mi viene da piangere».

Ci penso su, come non avevo fatto prima di incontrare questo signore invadente. Penso che forse, finchè non ci prende per mano, la morte non esiste davvero. È questa la scoperta di Ivan Il’îc. Sì, forse è così.

Quasi mi viene voglia di gridare: io che mi dimeno nel vagone, valigia alla mano e zaino in spalla. Io che urlo a quei compagni occasionali che moriranno, e che devono accettarlo. Che fra i titoli di coda, c’è scritto anche il loro nome, che ci credano o meno. Dal Vangelo secondo Lev Tolstoj.

Soppeso ancora un po’ il volume fra le mani. Il vecchio deve scendere dal treno, quasi non mi saluta, l’ingrato. Dopo poco tocca a me, come a tutti: siamo in arrivo a Ancona.
Termine corsa del treno.
Scendo gli ennesimi gradini anneriti, sornione sui passeggeri ai quali ho deciso di non elargire la mia novella.
Chissà perché, questa fine, riesco ad accettarla di buon grado.  

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di Cristi Marcì

Illustrazione di Anastasia Coppola

Vienna, 1938. Samuel Adler è un bambino ebreo di sei anni il cui padre scompare durante la Notte dei cristalli, quando la sua famiglia perde tutto. La madre, per salvarlo, lo mette su un treno che lo porterà dall’Austria all’Inghilterra. Questa la trama di “Il vento conosce il mio nome”, il romanzo dell’Allende per chi non ha mai smesso di sognare un futuro migliore.

Per chi desidera fare i conti con le leggi del tempo

Se è vero che le sue lancette sembrano scorrere inesorabili verso mete a noi del tutto sconosciute, di contro gli strani tesori di cui dispone sono sempre pronti a depositarsi sul nostro essere, facendo del corpo e della memoria due bussole impazzite che rischiano di farci perdere la rotta.

Rotta che tuttavia, pagina dopo pagina, assume le sembianze di una nuova mappa tutta da scoprire, da leggere e rileggere più volte e sulla cui superficie la parola fine non è ammessa, poiché costretta a lasciar fiorire la sola ed unica capace di coniugare più trame possibili fra loro intrecciate e che, al pari del vento, viaggiano invisibili sotto il nome della speranza.

Il valore della storia

Ambientato in epoche storiche tra loro differenti, dalla notte dei cristalli avvenuta nel 1938 sino al 2022, l’Allende consegna al suo pubblico un valore mitico se non addirittura eterno, che soltanto la storia è in grado di incarnare in tutte le sue imprevedibili sfumature e dinanzi alle quali l’amore e il prezzo della vita non conoscono confini.

Perché oltre ad essere un romanzo dove il riscatto e l’abbandono riflettono i capisaldi delle vite dei protagonisti, l’autrice attraverso l’inchiostro delle sue parole, denuncia le vicende legate al traffico di esseri umani, che dal centro del Sud America si estende sino ai confini degli Stati Uniti.

Il romanzo traccia una mappa che troppo spesso scegliamo di non voler vedere e lungo la quale il dolore e la violenza rischiano di valorizzare la nostra indifferenza. Crea, a nostra insaputa, una striscia geografica lungo la quale una moltitudine di vite viene prontamente spezzata al passaggio di chi fa dell’umanità stessa il proprio guadagno e dove la morte è il più grande prezzo da pagare.

Storia di sradicamenti

La morte, d’altronde, è l’unica in grado di rimettere in moto la logica della sopravvivenza così familiare a chi è costretto ad abbandonare la propria casa, i propri affetti e non ultimo le proprie radici: le stesse che Samuel, Leticia e Anita (i tre protagonisti) si troveranno pagina dopo pagina a dover estirpare, pur di ritrovare quel luogo sicuro che li attende oltre il confine.

Quanto il presente e il passato possono condividere una drammatica somiglianza? La posta in gioco non si riduce ad un semplice riepilogo di eventi realmente accaduti, bensì chiama in causa una semplice domanda: quanto ancora può accadere?

Perché questo non è un semplice romanzo ma una scomoda inchiesta che non vuole farci perdere di vista quella crudeltà che l’essere umano a più riprese è stato in grado di commettere.

Eppure, ciò che più affascina del romanzo è la descrizione di un luogo ed un tempo dove il dolore non trova il suo spazio. Un posto che soltanto il linguaggio dell’immaginazione è capace di farci raggiungere, adornato di quel mistero che né la ragione né i ricordi sono capaci di scalfire, tantomeno di demolire nelle sue fondamenta. Spetta a ciascuno di noi riscoprire quel posto attraverso quel linguaggio del cuore che l’autrice propone con parole nuove e al contempo invisibili, pronte a raggiungerci al primo soffio di vento.

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di Cristi Marcì

Illustrazione di Redazione

Una volta atterrato non sapevo cosa aspettarmi, ricordo soltanto che dall’oblò dell’aereo che mi stava riportando da te, un sole splendente sembrava divertirsi con i suoi raggi e i suoi giochi di luce. Quasi a voler rendere un po’ più luminoso quel sentiero che in cuor nostro ignoravamo dove avrebbe portato.

Sin dalle prime ore della mattina, quel giorno di ottobre sembrava non finire mai, eppure mi hai sempre detto che “proprio nella stasi risiede il movimento, con la differenza che non sempre siamo disposti a coglierlo”.

Volendo omaggiare quella che per te era una tra le tante regole, la numero 125 se non vado errato, posso confermarti che sono in piedi dalle 7:00, in movimento dalle 8:00 e che la mia corsa non si è mica conclusa alle 18.30 (ora locale) come annunciato dallo steward di bordo di questo volo Ryanair. Il quale, continuando con i soliti rituali, dà il benvenuto a noi passeggeri in una delle città più belle e al contempo più brutte dalla quale non sei mai riuscito a decollare.

Un termine che a pensarci bene ci ha accompagnato in tanti momenti durante questi ventotto anni; quando ad esempio sei venuto a trovarmi con la mamma la prima volta a Bucarest; oppure ancora quando mi hai trasmesso l’importanza dei viaggi puntualmente fatti ad agosto, rimarcando come “ci rendessero liberi”. Per poi a volte scendere in picchiata durante le mie paure dei vent’anni che a differenza di quelle adolescenziali erano una vera palestra di vita.

Mentre maneggio con cura tutti questi ricordi, in maniera automatica e senza che me ne sia reso conto, mi trovo già sul pullman diretto verso il centro città, che come sempre è ben lieto di farsi trovare sporco e trasandato. Puntuale biglietto da visita di una metropoli sporca e caotica dalla quale tantissime volte mi hai ammonito di scappare, perché ricca di quella futile cultura e tuttavia sempre pronta a farsi vanto di un’arte sempre più in declino.

Appoggiato al finestrino del pullman, con impresso a caratteri cubitali il logo Prestia e Comandè, mi sento cullato seppur in lontananza dal nostro mare azzurro, che a più riprese mi hai insegnato ad osservare, ad ascoltare e a svuotarsi gentilmente dei suoi tesori, dei suoi ricci e delle sue splendide conchiglie.
Ora, in questo preciso istante è un po’ mosso: il vento che lo accarezza non sembra dei migliori, eppure è del tutto in sintonia con questa nuova trama alla quale abbiamo affidato l’ingrato compito di raccontare e raccontarci nel mentre che io ero a Milano e tu prigioniero a Palermo.  

Sentendoci come sempre, prima per messaggi e poi a voce, ti ho percepito felice e forse (è un azzardo) un po’ sereno. Ma non voglio sbilanciarmi più di tanto, perché voglio essere cauto.

Soprattutto con le parole che sembrano avere esaurito il loro potenziale.
A dirla tutta credo che a poco siano servite e che difficilmente abbiano scongiurato le mie paure e le tue preoccupazioni. Perché in una situazione del genere come si può pensare di non averne? Di non esserne invaso e a volte perfino soffocato?

Tante, troppe parole che però non mi hanno impedito di tornare da te.
Nel frattempo, ti abbraccio papà, forse per l’ultima volta.

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di Cristi Marcì

Illustrazione di Anastasia Coppola

Sono pochi i romanzi che lasciano un senso di inquietudine mentre svelano l’enorme anima della natura umana. Una vita come tante di Hanya Yanahihara, edito da Sellerio, è uno di questi.

Quanto pesa l’a natura’animo umano?

Non sempre le parole si rivelano capaci di contenere il peso delle proprie esperienze, di trasformarle attraverso la fioritura di un nuovo dialogo e ancor più di fare del proprio vissuto una bussola in grado di portaci verso nuovi orizzonti e di allontanarci da quelle schegge con le quali troppe volte abbiamo corso il rischio di tagliarci. Spesso queste creature viventi rischiano di appassire ancor prima che possano sbocciare in nuove sorgenti luminose, rendendo il corpo l’unico mezzo attraverso il quale esprimere quanto di più intimo e doloroso risiede al suo interno, dove le radici del passato corrono il rischio di ledere un presente dal futuro incerto.

Spesso le numerose trame che abbiamo vissuto solcano, come onde spumose, la superficie della nostra pelle depositando cicatrici, rughe o perfino indelebili sorrisi debitamente mascherati dal volto della menzogna e da un silenzio che non cessa un solo istante di fare rumore dal profondo della nostra fragilità.

Storia di una lunga amicizia

Una chiave quest’ultima che pagina dopo pagina porta con sé tanti chiaroscuri quante sono le emozioni vissute sia dal protagonista, Jude, che dai suoi tre amici di lunga data: Willem, Malcom e JB. Quattro ragazzi legati da un’amicizia di lunga data risalente ai tempi del college e che tuttavia, in un’America sempre in movimento, deve fare i conti con le richieste imposte dalla vita e dalle nuove sfide evolutive; di fronte alle quali ciascuno sceglierà un nuovo modo di stare al mondo.

Yanagihara invita chiunque desideri leggerla a conoscere gli inviolabili confini della vulnerabilità umana, dove il tradimento e la fiducia nei confronti sia del prossimo che del proprio vivere, riflettono i capisaldi attorno ai quali prende vita una trama fatta di abbandoni, riscatto, amore e speranze.

Parole pronte a ghermire e al contempo a far risplendere corpi forti e deboli, raccapriccianti e rumorosi ma tuttavia perfetti nella loro fragilità.

Eppure, l’amore nei confronti della vita sembra sfidare prepotentemente il desiderio della morte, creando un equilibrio che sul filo del rasoio è sempre pronto a crollare. A dissolvere le numerose speranze che non cessano un solo istante di alimentare un cuore che, malgrado gli eventi, tiene ancora duro. Reclamando ancora un ultimo battito.

Per chi ama farsi leggere

Farsi leggere da questo romanzo vuol dire riconoscere e riscoprire un linguaggio psichico capace di diramarsi anche e soprattutto a livello corporeo, sulla cui superficie i segni del nostro tempo danno vita a porte che non vorremmo si aprissero più.

In questo romanzo il corpo si fa dunque portavoce di un vissuto dai numerosi risvolti, rispetto ai quali tanto l’amore quanto il desiderio di riscatto sembrano collocarsi al servizio dell’altro e mai a proprio favore.

Leggerlo pertanto vuol dire addentrarsi in quei distretti corporei e in quegli anfratti oscuri della propria anima, entro i quali la paura del passato non cessa un solo istante di bussare alle soglie del proprio cuore; dove le trame della propria esistenza rischiano di sgretolarsi per sempre.

Per chi ama tornare a vivere

L’infinito rapporto fra il trattenere e il lasciare andare riflette a pieno titolo la modalità attraverso la quale il protagonista, Jude, sceglie di lasciarsi guidare dai quei linguaggi del proprio vissuto pronti a delinearsi sulla sua pelle. Quello che si evince è una brutale forza magnetica pronta a ridefinire il concetto del limite, oltre il quale la pelle stessa, nonché la propria carne, rischia di lacerarsi fino alle sue radici.

Perché la vera protagonista di questo magnifico romanzo è proprio la pelle, in carne e ossa; un velo fatto di tessuti cicatriziali che altro non fanno se non evocare strade ormai battute, bivi dinanzi ai quali il dovere era l’unica forma di sopravvivenza; scelte pronte a mettere in discussione finanche il concetto stesso di speranza.

Al contempo l’autrice pone l’animo del lettore di fronte ad una scelta di non poco conto, la stessa che mi ha accompagnato lungo questo sentiero fatto di carta e parole; ovvero quello di scendere nel profondo degli abissi dell’animo umano, affinché la parola possa tornare ad essere l’unica arma con la quale abbattere un’oscurità sulla quale si rischia di costruire la propria identità.

Un romanzo denso di imprevedibilità, anche narrativa, nel quale ogni finestra di carta che si sceglie di sfogliare invita a posare gli occhi su un mondo sempre nuovo, del tutto sconosciuto, dove anche l’ultimo briciolo di silenzio è pronto a trasformarsi in un grido rinnovato: quello di tornare a vivere.

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di Laura Bortot

Illustrazione di Redazione

«È libero il posto, signorina?»

«Sì, certo, prego»

«Davvero un bel verde, quel suo maglione… »

«Grazie».

Scatta rapidissimo, il primo pensiero: questo vuole attaccare bottone.
Mi giro verso il finestrino, tanto per chiarire subito il concetto: non ho voglia di parlare.

Ma nei pochi secondi che mi sono serviti a rendermi conto della domanda e a formulare una risposta ho anche avuto modo di incrociare lo sguardo dell’uomo: due occhi azzurrissimi, quasi bianchi, spalancati sul mondo come se non restasse che lo stupore, e persi oltre il vetro, in un orizzonte opaco.
Subito sotto un naso storto e sottile, uno scivolo perfetto verso la bocca incerta tra un sorriso e un tremito. Sulla fronte un brizzolo di capelli scompigliati in una nuvola inquieta.

Non proprio il volto dell’aggressività.
Quindi mi rilasso, mentre il treno parte e le immagini al di là del finestrino se ne vanno, una dopo l’altra, dolcemente, e come sempre mi aggredisce quella sensazione di perdita definitiva.

«Davvero un bel verde… sì, sì, un bel verde… come l’albero, un albero di montagna, sì, sì, la montagna… ti ricordi l’albero… l’albero…».

Ruoto appena la testa per capire se stia parlando con me.
No, gli occhi continuano a guardare fuori, smarriti. Prendo dallo zaino il libro per segnalare ancora una volta che non c’è possibilità di conversazione.

«L’albero, l’albero verde, davvero un bel verde, ti ricordi? Non ricorda. No, non  ricorda… L’albero verde, davvero un bel verde… Dobbiamo raccogliere le foglie? Ma l’albero è verde… Davvero un bel verde…».

L’udito disobbedisce e abbandona il libro.
La vista procede nella lettura. Forse ha solo bisogno di parlare, forse è solo un po’ strambo, dopotutto sta viaggiando da solo, immagino sappia dove andare, dove scendere. Declama a voce alta ma non urla, le parole sfilano senza picchi, scorrono in alvei sicuri, solo che hanno bisogno continuamente di appigli, la ripetizione come una sorta di conferma, una saldatura per poter passare al pensiero successivo.

«Verde, vedi il tetto verde? È il muschio, vedi? Il muschio è verde, vedi? Non vede. Dobbiamo togliere il muschio? Io non lo so… Dobbiamo togliere il muschio? Io non lo so… tu lo sai? Non lo sai. Il tetto è tutto verde. Davvero un bel verde… Ma non lo vede».

Ci sono patologie lievi, suppongo. Si vive leggermente scollati dalla realtà, si cerca di ritrovare un contatto attraverso la parola, può essere? Magari è una fase, un momento difficile della vita. Magari si prendono delle medicine che creano un certo equilibrio, solo che brandelli di mente si incaponiscono, si ribellano e sfuggono comunque.

«Il tetto verde, davvero un bel verde, ma le finestre non sono verdi, no, quelle no, ti ricordi? Perché non parli? Non parli? Non vuole parlare. Non parla. Ma le finestre non sono verdi, no, no, quelle no… invece sì, quando si chiudono diventano verdi, sì, sì, diventano verdi… Dobbiamo chiudere le finestre? Non lo so, tu lo sai? Così le finestre diventano verdi…»

Di nuovo un impercettibile movimento del capo per sbirciare il suo viso.
Sorride, sta sorridendo, sembra felice, guarda lontano nel paesaggio liquido al di là del finestrino, e sorride. Un’improvvisa tenerezza.
Riprende subito, con lo stesso tono di voce, solo che ora cavalca le parole.

«Davvero un bel verde, quando si chiudono diventano verdi, quando si chiudono… quando si chiudono… quando si chiudono è buio, ma poi è mattina, la mattina non è la montagna, no, no, la mattina non è la montagna, la mattina è il mare, sì, il mare, l’acqua, senti l’acqua, senti il mare? Dobbiamo entrare nel mare? No, vedi il mare? Lo sai il mare? Lo sai l’albero? No, non lo sai. Senti il mare? No, non lo senti…»

La cavalcata si spegne di colpo collassando sull’ultima frase: non lo senti.
Collassa, sembra sul punto di spezzarsi, poi riannoda miracolosamente un filo.

«Il mare è verde».

Un sorriso lontano.

«Il mare è verde, davvero un bel verde».

Parole lente, che a quel punto mai potrei sporcare con un commento qualsiasi per riacciuffarlo, per non lasciarlo precipitare nel crepaccio aperto tra due realtà che gli franano addosso, trascinando con sé detriti di ogni genere.

«Senti che il mare è verde? No, non lo senti. Non senti l’albero verde? Davvero un bel verde… Non senti il tetto verde? Non senti le finestre chiuse verdi? Non senti il mare verde? No. Non ricorda, non vede, non parla, non sente…»

Mi manca il respiro.

«Davvero un bel verde, signorina».

Mi guarda. Si alza. E scende alla stazione.

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di Rachele Fattore

Illustrazione di Anastasia Coppola

Una biciletta, una gran voglia di crescere e un cuore ancora non pronto per farcela. La commedia umana, edito da Marcos y Marcos, definito romanzo di formazione, parla del passaggio all’età adulta non solo del maggior protagonista Homer, ma dei giovani dell’intera comunità di Ithaca, protetti – ma non troppo – da chi prima di loro deve soppesare dolori e sconfitte. Un affresco dell’America di provincia degli anni Quaranta che rimane impresso.

Quanto pesa una lettera?

Non sono discorsi di bilance, non per quelle che misurano in grammi ma per quelle che misurano lacrime e sorrisi. Non tutte le lettere hanno lo stesso peso. Questo il quattordicenne Homer lo impara fin da subito quando, nei pomeriggi dopo la scuola, comincia a lavorare come fattorino per l’ufficio del telegrafo.

Un romanzo con personaggi a tratti utopici dove il bene sconfigge il male grazie alla bontà d’animo. Bisogna avere la forza di sospendere il giudizio ed arrivare fino alla fine per non cedere alla tentazione di definirlo stucchevole, cosa in cui la prosa delicata e scorrevole di Saroyan non scade mai.

Chi bussa alla porta?

Arriva un momento nella vita di tutti, forse anche più di uno, dove ci si sente irrimediabilmente soli e smarriti. I personaggi di questo romanzo lo sembrano un po’ tutti ma ad alleggerire questo apparente peso è la solidarietà di una comunità mista che in qualche modo cerca di superare il difficile presente. Un orecchio teso all’uscio della porta alla quale può bussare un messaggero di morte o un annuncio di speranza per il futuro.

Siete pronti a farvi ipnotizzare?

Bisogna farsi ipnotizzare dal movimento dei raggi della bici, farsi cullare dal ritmo delle sbornie, delle canzoni di chiesa e mangiare tortine di mele e cocco fino ad arrivare alle ultime pagine.

Ithaca può anche sembrare un mondo ideale in cui comunicazione e comprensione hanno la meglio sui normali dissapori di comunità. La bravura dello scrittore è quella di darci questa illusione facendo in modo che, pagina dopo pagina, non solo lo stupore e la meraviglia del mondo infantile ma anche il dolore tenuto a bada diventino anche i nostri. Un’impalpabile leggerezza nonostante la cornice di dolore si slabbri sempre in schegge che lambiscono le figure dei vari ritratti.