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di Davide Ceraso

Illustrazione di Simona Settembre


Il 4 è come un bisturi affilato, taglia l’asfalto al suo passaggio e lo ricuce dietro a sé con binari metallici, una cicatrice che divide a metà la città deserta.

Alzo lo sguardo e vedo la nebbia della sera deformare i contorni di case e automobili, ologrammi offuscati di altre esistenze le cui dinamiche, oggi,appaiono insignificanti,lontane anni luce dal mio interesse. D’improvviso sporco e umidità solleticano i gas ionizzati che di rimando scintillano sul pantografo del tram, un lampo accecante che ferma il tempo soltanto per un attimo prima di riavvolgerlo su se stesso. Mi volto e le luci stroboscopiche della discoteca costringono le mie pupille a contrarsi. Poi la scorgo tra le ciglia di occhi socchiusi,poco prima che il cervello metta a fuoco l’immagine.

Ride. Alza un calice di vino. Sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Ci salutiamo. Parla muovendo le mani. Fisso le sue labbra. L’incavo del collo profuma di mandarino, sandalo e vaniglia. Dita intrecciate. Macchie di rimmel sulla mia camicia. Rossetto sbavato. I nostri respiri si perdono uno nell’altro.
Viola abbraccia il mio corpo, nuda, mi stringe e sento i suoi seni premere contro il petto mentre promette che sarà per sempre…

Il tram sobbalza su uno scambio, una mioclonia notturna che riporta la realtà in primo piano e spezza il filo dei ricordi. Lo stridio dei freni rallenta la corsa in prossimità della fermata. Una coppia si alza. La donna, magrissima, è fasciata in un abito rosso plissettato, l’uomo vestito con un impeccabile smoking le tiene una mano intorno alla vita. Sembrano fantasmi, forme vacue, pennellate di colore in panorami vuoti, come i ballerini nei dipinti di Vettriano.
Le porte scorrono verso l’esterno e la notte penetra fulminea nella carrozza con freddi tentacoli che avvolgono le mie gambe provando a tirarmi ancora più a fondo. Resisto, i muscoli irrigiditi dall’acido lattico. Intanto la coppia scende sulla strada buia, il tram riparte con uno scossone e il finestrino sudicio riflette i protagonisti dell’ultima corsa di giornata,volti celati da maschere alla disperata ricerca di momenti che valga la pena ricordare. La vita, d’altronde, è solo un susseguirsi di attimi, ma ci sono attimi che dividono la vita stessa in un prima e in un dopo. E questo è certamente un dopo.

I Blur sussurrano alle mie orecchie quanto sia tenero dormire con qualcuno disteso al tuo fianco.
Impreco sottovoce. Questa notte sarò da solo, per la prima volta dopo molti anni, l’insonnia quale unica confidente cui chiedere il perché Viola abbia raccolto la sua roba e sia andata via per sempre. Non abbiamo avuto figli. Li abbiamo cercati senza che fossero mai una priorità, andava bene a entrambi, una sorta di muta rassegnazione condivisa.
Ci piaceva viaggiare ma ho più fotografie che ricordi.
Leggevamo uno a fianco dell’altra, separati da centimetri che parevano distanze sconfinate,perduti in storie più attraenti della nostra. Forse non era abbastanza.

Sfilo le cuffiette e sento in sottofondo i singhiozzi sincopati di una ragazza che piange e i respiri profondi di un uomo che sonnecchia disteso senza scarpe sui seggiolini. Davanti a me, un poco a sinistra,siede una madre con un bimbo sulle ginocchia. È vestita a strati, quasi indossasse ogni capo del suo esiguo guardaroba. La pelle del viso è un dedalo di rughe profonde che corrono lungo i lineamenti spigolosi, i capelli sono arruffati come pelo di cane randagio. Il bambino, avrà sì e no cinque anni, dondola in sincronia con il tram, la schiena dritta, le braccia lungo il corpo. Sua mamma lo abbraccia, gli carezza le guance, la fronte.
Quella donna non ha nulla, né soldi, né fortuna, né un lavoro, forse neanche un futuro, ma il figlio è il pieno che riempie il vuoto di una vita intera.

Una voce metallica gracchia monotona, avverte i passeggeri che la fermata successiva sarà il capolinea. Io sarei dovuto scendere prima, così da rinviare l’eco dei miei passi tra i muri spogli di una casa ormai priva di sogni, ma non riesco a distogliere lo sguardo dalla donna con il bambino. È il modo in cui lo stringe a sé che contorce le budella, che intorpidisce i sensi, che blocca il diaframma nel mezzo di un respiro. Poi il tram si ferma di colpo, le luci sfrigolano e le porte mostrano il mondo esterno con un ronzio. Mi guardo attorno e nessuno si muove.

Allora rimango anch’io qui, immobile, in apnea, testa china, seduto dentro la carrozza di un tram fermo al capolinea e aspetto senza far nulla, aspetto come tutti quelli che non vogliono scendere da vite a loro modo al capolinea…

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di Federico Cirillo

Alle 2 di notte la vita sul 90 è sempre uguale: tanti posti liberi, qualche passeggero che riposa testa e pensieri sul vetro unto e opaco, un paio di ragazzi che, in piedi, cercano di reggere se stessi e tutto l’alcool che hanno mandato giù, biascicando commenti mentre scorrono la timeline di chissà quale social.

Tutto questo e poi io, che come ogni giovedì ho finito il turno intermedio e aspetto a Termini che ‘sto bus, già in moto, riparta e la smetta di vibrare.  Tutto è come sempre qui dentro e così decido che  anche per me è arrivato il momento di staccare il cervello e di abbronzarmi la faccia con lo schermo dello smartphone.

Non faccio in tempo a sbloccarlo che, come in un testo Shakespeariano, mi ritrovo in compagnia di tre entità: tre donne, una di fianco e due di fronte, si materializzano e mi guardano, come in attesa che io faccia un gesto, un qualcosa, un…

F: Aó, ma te voi sbriga’?

I: eddaje e sblocca

F: dai su Paoletto che c’hai già ‘na notifica…eccola!

Paolo: ma che cazzo? Ma chi siete? Come conoscete il mio nome?

(ridono tutt’e tre)

T: buongiornoDaniele, buongiornoLuca, BuongiornoSonia, BuongiornoPaolo

Paolo: buon…giorno, ma che??

I: il tuo nome? Ahahah ma noi conosciamo tutto di te…

F (inizia a leggere da uno smartphone che tira fuori dalla tasca dei jeans): Paolo Miccari, 33 anni, single, ti piacciono le donne, nato il 18 aprile 1986, ateo, lavori presso FS Ferrovie dello Stato, hai frequentato la facoltà di Ingegneria di Tor Vergata dal 2005 al 2013 – 8 anni, complimenti, ce la siamo presa comoda eh? – 1132 amici, vivi a Roma ma sei nato a Lanuvio, iscritto ai gruppi: sei di Lanuvio se…, Lanuvio unita per il clima, Sardine dei Castelli tutt* in Piazza, Lanuvio Bella&Brutta, Teneri Musetti (lo guarda con aria ironica a sfottò)

Paolo: sì…vabbè era per la mia ex, le mandavo…oh ma insomma??

F: (riprendendo) Smezziamo nel Mezzo del Racconto – mica male bravo – Cuore Giallorosso, Il Romanzo della Roma. Libri preferiti: le frasi più belle di Oisho…continuo?

I: No te prego fermate…guarda Paolè, lascia perde mi zia che sta sempre a fasse i cazzi degli altri…ci facciamo un selfino? (si mette in posa abbracciando voluttuosamente Paolo e clicca) ecco qua: filtro Juno che qua c’è poca luce, hashtag picoftheday, viaggioinbus, Rome, noidue – basta che poi so’ troppi – e ci registriamo a…Terrazza Termini, fa un sacco cool. Dai, postala, che famo rosica’ tutti. Poi facciamo anche una storia, anzi una decina con un po’ di musica, un po’ di GIF, loghi…

T: Greta Thunberg fotografata con la madre su una poltrona da 9.000€ in vera pelle di animale: ritwitto?

F: ma che ritwitti, guarda qua (prende il telefono di Paolo) ci sta un gattino piccolo dolcissimo, lo postiamo con un po’ di glitter e una frase in maiuscolo: QSTO GATTINO E’ PER IL BUONGIORNO DAL MIO CUORICINO, KONDIVIDI IL MICETTO PER UN GIORNO PERFETTO, SE IL GATTINO HAI IGNORATO I TUOI AMICI HAI INDINNIATO, BASTA NEGRI CHE SPACCIANO ALLA STAZIONE DI LANUVIO, STOP AL DEGRADO, TOLLERANZAZERO ETCETCETCETC….che dici posto??

T: L’Europa ci affossa! Italia fuori dall’Euro, ORA! Il Parlamento Europeo è tutta una montatura pan Germanica ecco la dimostrazione. Che faccio Ritwitto e Commento?

I: aó cì, guarda che Laterizio2005 sta live adesso…che dici gli facciamo sapere che ci siamo????

(si accavallano una dopo l’altra)

Paolo: oooh e basta un po’!!! Ma che Laterizio2005 è il figlio di mio cugino (riprende il telefono), e tu (girandosi verso T) che ritwitti e commenti, manco ce l’ho mi sa l’account Twitter

T: Ce l’hai: iscrizione effettuata il 5 maggio 2012. Primo Tweet un’accozzaglia inutile forse copiata dal Laboratorio di Satira di Spinoza e modificata per farla sembrare tua (patetico), hai pure sbagliato l’hashtag…

Paolo: no, è che ai tempi…aó ma fatti i cazzi…anzi fatevi i cazzi vostra…e tu (girandosi verso F che prova a riprendere il telefono) fermate che me fai posta’‘ste cose brutte, ‘ste cose da…cinq..

F: NO! Non dire 50enni che me incazzo!!! Io sono nata coi pischelli, postavamo cose fighissime neanche ieri…

I: eh e mo te ritrovi coi vecchi davanti ai cantieri. Rassegnate zia, è così…spazio ai giovani. Piacere Instagram me trovi nelle app, nella cartella Social, so’a più fashion…me posti?? (accattivante).

Paolo (imbarazzato ma un po’ lusingato e ammaliato): pi…piacere mio…Paolo…che…che devo fa’?

F: Ma lo vedi che sei aggressiva? Non lo vedi che lo spaventi? Basta che metti in mostra ‘ste due…’ste due cose (indicandole il seno) e pensi che sei sulle timeline de tutti i regazzini. Che poi guarda (indica un giovane che con cuffie e telefono si riprende e commenta un gioco ad alta voce) te stanno a preferì Twitch ah bella, altro che tette! Voi fa’ la fine del mio ex marito Youtube eh? Che mo se sta a accolla’ ai terrapiattisti?? Sfigato!!
Comunque piacere mio, (rivolgendosi di nuovo a Paolo) sono Facebook, mi riconosci, sono sempre attiva e ho ben due app. Perché non condividiamo qualcosa, dai…posso riattivare i poke se me lo chiedi,  dai mettiamo un like a CommentiMemorabili?? Giochiamo a PetSociety o a Farmville? Te lo ricordi…avevi certe zucchine! Dai…

Paolo: Mamma mia è un incubo…e tu quindi saresti…(rivolgendosi a T)

T: (meccanica) Twitter piacere, scusa sono presa da una miriade di informazioni non riesco a seguirvi e poi mi sa…aspetta…(urla) TIE’ (Facebook e Instagram si addormentano come svenute improvvisamente proprio mentre il bus si ferma ad uno stop) #Instagramdown e #Facebookdown ! Che figata…guarda come viaggio adesso, ah ridicole! Hashtag “e allora Bibbiano!” Hashtag “mai con Salvini!” Hashtag “Governo Giallorosso!” “Sapevi che la curcuma può guarire dalle lesioni alla spina dorsale? Clicca qui…”, l’ho trovato su Telegram, il mio fratellino piccolo. Dai clicca qui, qui, qui…qui RITWITTAMI!!

Si svegliano F e I e insieme                                                                                  

F,I: aó uccellino del malaugurio nun ce prova’ più, eh? Paolo è dei nostri vero? (strattonandolo)

T: No Paolo, usa me! Informati, diffondi, debunka, analizza, crea una nuvola di hashtag…(cercando di portarlo verso di lei)

Ad un tratto si fermano tutt’e tre e, vedendo che Paolo ha iniziato a sorridere a una ragazza seduta dall’altro lato, si girano prima verso di lei e poi di nuovo, guardando Paolo…

F: aó , ma che stai a fa’??

I: ah cì,  guarda che stai a fa’‘na cazzata!

T: Ah coso, quella è minorenne

I: ma guarda questo, se vole butta su TikTok

F: ah bello, a noi quelli come te ce fanno schifo.

T: Ma sai che famo? Te scaricamo noi.

I: ciao sfigato (facendo il segno dell’ hashtag)

L’autobus si ferma al capolinea, Paolo scende e nel mentre disinstalla tutte le app Social dal telefono.

Paolo: oddio che incubo…meglio WhatsApp a sto punto guarda…ma che… (arriva un messaggio proprio da WhatsApp nello stesso momento):

“Ciao Paolo, a Mamma, ti volevo dire che da oggi Whatsapp sarà a pagamento. Se vuoi mantenerlo gratuito invia questo messaggio a 400 persone…”
Paolo: NOOOO!!

Fine.


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Degli effetti della privazione del sonno (e degli anni ’90) 

di
Matteuccia Francisci

Presento tutti i sintomi della privazione del sonno, mentre trascino i piedi per Via Altomonte nel mio non-luogo dell’anima, l’Anagnina.
 Cattivo umore, irritabilità, incapacità di prendere decisioni, viso pallido.
La discesa all’infero della stazione sembra donarmi qualche giovamento.
Anelo al buio e al sottoterra neanche fossi una revenante.

Tremori, viso gonfio, ce li ho proprio tutti, perfino… alterazioni della vista? Sulla banchina mi sembra di vedere una maglietta dei Take That. Impossibile, dai, non esistono più. Arriva il treno, troppa luce. Leggo Metro per far scorrere il tempo. È stato un periodo all’insegna di elezioni ovunque, ma la foto è riservata al calcio. Piccolo piccolo, in basso, qualcosa sulle elezioni europee e, ancora, sulla Brexit, i suoi effetti e le sue ultime conseguenze. 
 
Mentre lotto con la nausea e sfoglio le pagine, odo a destra squillare le parole: 
«Non posso ancora credere di averlo visto così da vicino. Ma quanto è bello Gary?» .
A sinistra risponde un’altra voce:
«Quando hanno fatto Back for good stavo morendo, senti che voce che ho, mi sono sgolata». 
E attacca… Back for good dei Take That. 
Davanti a me due ragazze di non più di 20 anni. Magliette della prima boy band della musica (o sedicente tale). Cellulare con video e commenti live: «O mio dioooooooooo!». 

Presento tutti i sintomi della privazione del sonno, ma il suono lo sento davvero: il telefonino della ragazza di sinistra squilla. 

«Ciao mamma, sì siamo arrivate, l’aereo da Londra è atterrato in anticipo, siamo già sulla metro. Bellissimo, mamma, è stato il più bel regalo di compleanno che mi abbiano mai fatto, mi hai regalato un sogno».  
Nella mia mente rimbomba il colonnello Kurtz (L’orrore! L’orrore!) mentre comprendo che queste due ragazzine sono di ritorno da Londra: sono andate a sentire – l’orrore! l’orrore! – i Prendi Questo.  

Presento tutti i sintomi della privazione del sonno. 
Era il 1995 o lo è di nuovo? Forse loro non erano neppure nate ancora. Margaret Thatcher si era finalmente levata dai coglioni, dopo 10 anni di un governo che alcuni ancora ricordano come salvifico. Tra gli altri, i sostenitori dell’apartheid e Augusto Pinochet. La Margherita ora è morta, rispondendo al gentile invito di S. P. Morrissey. Pinochet pure. Ma i Take That no, fanno ancora concerti e le pischelle ancora ci vanno.
Nel Regno Unito ci sta una donna con la faccia cattiva come quella di Margherita. Hanno le iniziali scambiate, ma gli stessi tailleurini blu e collane di perle, il medesimo rossetto rosso su labbra piccole che quando sorridono fanno paura. Come Carmilla di Le Fanu, che si chiama anche Mircalla e Millarca.

Vabbè a breve andrà via anche lei, la Teresa il 7 fa la sua exit…ma poi? Magari arriva un Simon Le Bon ciccione e invecchiato che al posto del fascino pop trash da Duran Duran è solo trash. Torneranno Gigi D’Agostino, Gabry Ponte e Berlusconi senza la cravatta e le maniche arrotolate? Berlusconi senza cravatta… ah! Panico. Accanto a me un ragazzo ha le mèches bionde, le ragazzine canticchiano Could it be magic e la vampira mi guarda dal quotidiano gratuito: Teresa, forse? Ho paura.  

Presento tutti i sintomi della privazione del sonno e mi sento male: «A livello mentale si è rilevata una maggiore vulnerabilità nello sviluppare patologie psichiatriche quali stress, ansia, depressione, paranoia, aumento del rischio di suicidio e raramente episodi psicotici». 

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di
Federico Cirillo

Gli altri. È sempre pieno di altri qui sul 23.
Tutti diversi ma tutti così diversamente accomunati da una cosa: il tragitto. Anzi no, in realtà da due cose: il tragitto e farsi i cazzi degli altri
Ed eccoli qua: 

«Te dico che è così a Fa’…non ce volevo crede!» 
«Si, ma è assurdo! Ma lei non se n’è mai accorta?» 
«Ma chi, Camilla? Macché! La conosci mi sorella no? Se fidava. D’altronde stanno insieme da quando so’ regazzini!» 
«Si, però checcazzo! Io posso pure capi’ co n’altra, lo posso accetta’: ma così è pesante eh» 
«Pesante sì. Pensa che l’ha sgamato a vede pure i video sull’internet: gli ha preso il telefono e ha trovato di tutto! Foto, video, messaggi co tutti quelli come lui!» 


«Assurdo, assurdo, n’ce se crede. Ma poi così, senza un cenno de preavviso o un sintomo?» 
«Eh, così, all’improvviso. Che poi comunque lui ha sempre fatto parte del gruppo nostro e noi bene o male, stiamo sempre a parla’ de quello. Però, guarda, te posso dì che sinceramente lo vedevo sempre un po’ diverso, sempre sulle sue e a disagio quando se ne parlava…tipo faceva il vago, interveniva poco, non se schierava mai…». 


«Vabbè, ma che c’entra? Uno può pensa’ che non abbia il chiodo fisso e ok.  Ma addirittura così diverso no, dai! Così dell’altra sponda, te l’aspettavi? Eddaje Riccardi’…così no: guarda, io non ce lo facevo proprio. Ma senti, mica l’ha saputo tuo padre? Magari l’ha sentito in giro…? No perché ‘ste cose, lo sai è n’attimo che…». 
«No, no fermate, per adesso no. Gliela stiamo a tene’ nascosta…capirai se devono pure sposa’. Pora Camilla, guarda che pena…st’infame». 
«E tu madre? Che dice tu madre?» 
«E che deve di’? S’è fatta tre segni della croce e s’è rimessa a stende’ i panni…ma che doveva fa’ quella pora donna? Non ce se crede…dopo anni…e ce lo siamo pure portati dentro casa… ‘tacci sui» 
«Assurdo…me fa schifo» 

Così, quella sera, tra Lungotevere Tebaldi e Lungotevere Aventino, sul 23 era scesa una pesante cappa di silenzio.  
 
Poi, d’improvviso, il coraggio di un uomo. Vabbè un ragazzotto in realtà: alto bene o male la metà dei due energumeni e largo quanto l’avambraccio tatuato di uno di essi.  
Occhialetti da vista tondi, pashmina bordeaux e ciuffo scomposto ondulante, decide di affrontare le curate sopracciglia, in quel momento corrugate, dei tipi.

«Bestie – urla non riuscendo a trattenere la rabbia – e trogloditi! Ecco cosa siete! Ma vi rendete conto voi di quello che dite?  “Me fa schifo”, “assurdo” “diverso” e “quelli come lui”.
Sapete una cosa? Siete voi che mi fate specie…e no – azzittendo con fermezza uno dei due con un movimento repentino di un dito – non cercate di interrompermi che ho ragione.
Come potete fare commenti del genere su un ragazzo che ha capito la sua vera natura? Come potete, voi, giudicarlo diverso?
Ignoranti, buzzurri e trogloditi! Ancora con questi luoghi comuni sugli omosessuali e sugli orientamenti sessuali. Che pena, mi fate!». 
Così, girandosi di scatto, scende stizzito a Marmorata, continuando a bofonchiare. 

«Che cazzo ha detto? » riprende uno dei due, sbigottito e mezzo imbarazzato: «Che c’entrano i froci mo’? Mica perché sei della Lazio devi esse pure frocio…e poi – sporgendosi dal finestrino per urlare in direzione del tipo ormai lontano – me stanno pure simpatici a me…- tornando a parlare con l’amico – i froci, mica i laziali!». 
«Anfatti». 

E soddisfatti scendono dal 23, ad Ostiense. 

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di
Luca Betti

Stamattina sono stato piccolo piccolo (e mi è piaciuto molto).
Ore 8:20: autostrada A14 tra Castel San Pietro e San Lazzaro di Savena, corsia di sorpasso.
Velocità: una decina di km oltre i limiti.

All’improvviso un patacca.
Un patacca dalle nostre parti è uno sbruffone. Di quelli che li vedi da lontano.
Con la sua utilitaria smaragliata (elaborata, pimpata, personalizzata e chi più ne ha più ne metta) lo vedi farsi largo nello specchietto retrovisore a velocità smodata.
Chi mi segue o lo precede si butta a destra per fargli posto. Pista arriva il patacca.

Tocca a me. Solo una cosa in autostrada mi dà più fastidio di chi mi “fa gli abbaglianti”, quelli che ti si incollano al paraurti. È pericoloso stare ai 140 km/h a 10 cm di distanza. È per questo che hanno inventato la distanza di sicurezza.
Il patacca opta per la doppietta: si aggancia e inizia a “farmi gli abbaglianti”.

Alle 8:20 di stamattina divento piccolo piccolo.
Non rallento, non accelero e, solo dopo mezzo minuto, decido di farmi a destra.
Lo guardo mentre mi sorpassa per fargli sapere cosa sto pensando di lui. Il patacca fa la stessa cosa. La convinzione sua è che se la sua macchina fa i 160 km/h lui ha diritto di fare i 160 km/h sempre e nessuno lo deve intralciare.

Torno della mia dimensione, potrei restare “piccolo” e mettermi alle sue spalle facendogli gli abbaglianti, ma sono tornato grande e maturo e non lo faccio. Smetto di pensare al patacca e mi riconcentro sulla guida. 3 minuti dopo devo uscire. A San Lazzaro.

Ed ecco all’improvviso la grande livellatrice: la sbarra del casello.

All’improvviso torno piccolo piccolo.

I miei occhi scorgono in fila per il pagamento in contanti l’utilitaria smaragliata del patacca. Sono sempre più piccolo. E non mi tengo più.
Rallento quanto basta per immettere la sagoma della mia utilitaria nella corsia dell’uscita con Telepass. E lo guardo.
Il patacca è innervosito dall’attesa. Spero che quello davanti a lui si sia fermato lontanissimo e non riesca a mettere i soldini o a darli al casellante. E il patacca sta perdendo tempo. E io ora sono piccolo piccolo e mentre io passo e lui sta fermo voglio che lui sappia che io so. Deve saperlo.
E allora suono il clacson e lo guardo.
Sono piccolo piccolo, lo guardo e lui mi guarda e sono certo che ha capito.

E io godo.

In modo infinitamente piccolo godo.

 

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di
Stefano Pupazzi

Faccio petizione, Signora Sindaca, urgente e accorata petizione.

Mica contro gli immigrati, Signora Sindaca; non contro gli sbevazzoni della movida.
Io faccio petizione contro i ciccioni, ecco.
Sì, perché il problema è diventato pesante (è il caso di dirlo).

Che fastidio mi danno le trippe? Glielo spiego subito, e credo che Lei potrà trarne profitto: se non sbaglio ha qualche grana con l’azienda dei trasporti… Mi chiede che ci azzecca il lardo con gli autobus, vero? Mi faccia esporre i miei argomenti con calma e saprà.

Lei forse non immagina quale squisita esperienza estetica sia per me prendere i mezzi la mattina. Ogni giorno io prendo il 20 e mi ritrovo immerso nell’arte: mi si fanno dinnanzi ridondanti matrone, veneri callipigie; vedo le pance fiamminghe dei piccoli borghesi e i visi incitrulliti dei putti di Botero. E soffoco, fra seni felliniani e cosce elefantiache. Tutto ciò, Signora Sindaca, mi capita quando riesco a salire; non è raro, però, che un muro adiposo mi costringa ad attendere l’autobus successivo.

Dunque? Dunque c’è un problema di spazio: perché le persone normali come me devono arrivare tardi al lavoro o, comunque, rischiare l’asfissia? Non Le dico poi l’olezzo di stallatico emanato da alcuni dei nostri ben pasciuti amici.

Tutto qui? No, Signora Sindaca, io non penso solo a lamentarmi; io ho in mente qualcosa di grande per la nostra azienda di trasporti. E allora mi ascolti: offriamo ai cicciabomba una bella cura dimagrante. Forzata, ovviamente. Si tratterebbe di fare una liposuzione obbligatoria a chiunque sia in sovrappeso (scelga Lei i parametri per definire che cosa si intenda per persona in sovrappeso: un aficionado di Pitran, un frequentatore seriale di fast food ecc.).

Vedrà allora che lo spazio negli autobus sarà di nuovo sufficiente: questo vuol dire che non ci sarà bisogno di aumentare la flotta (son paoli sparambiati, badi bene) e che tutti arriveremo puntuali al lavoro (con conseguente aumento del PIL). Ma siccome non si butta niente, io ho un’altra proposta da farLe: usiamo il grasso raccolto per lubrificare i motori degli autobus, così magari non prenderanno fuoco dopo una settimana di utilizzo (nessuna polemica, per carità).

Ecco perché faccio petizione, Signora Sindaca: perché io voglio trasformare i problemi in opportunità.

Cordialmente Suo,

Stefano Pupazzi

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di
Matteuccia Francisci

 

L’uomo in giacca e cravatta è molto stanco. È venuto a Roma per chiudere un contratto e non c’è riuscito. Piove ed è già buio, quando arriverà a casa sua a Rovigo sua figlia starà dormendo.

«Mi sto perdendo gli anni migliori di mia figlia» pensa.

«Però è vero che Roma è bella quando piove, come dice la canzone» dice al tassista che lo sta portando alla stazione Termini.

«Roma è bella sempre» gli risponde il tassista «Come dice il gladiatore? Roma è la luce».

«Eh, a proposito di luce, ieri sera camminavo per i vicoli del centro storico e mi hanno detto che hanno sostituito le luci con le lampadine a led»

«Lassamo perde, ha visto quanto so’ brutte? Sembra de sta’ in discoteca. Oppure all’obitorio. La notte deve essere buia, se illumini tutto cosa ti resta da immaginare?»

Addirittura, pensa l’uomo in giacca, ho incontrato il tassista filosofo.

«Beh, però con la luce uno si sente più al sicuro no? E poi con le lampadine a led si risparmiano un sacco di soldi» tenta di controbattere.

Errore, a quel punto il tono del tassista si alza.

«Ma al sicuro de che? Ma risparmia de che? Qua se so’ magnati tutto e mo’ vonno risparmia’ du sordi illuminando la città come fosse Tokyo? Ma qua mica stamo ‘n Giappone, qua ce camminavano imperatori, pittori, scultori, regine. Ma come fai a mettere il nuovo in una città che è storia in ogni sasso? Come fai a immaginatte de cammina’ vicino a Michelangelo se stai sotto ‘na luce che pare n’interogatorio de polizia? E ‘nnamo su. E poi le lampade del centro storico se le rivendono sulle bancarelle. Robba da chiodi.»

L’uomo in giacca è stanco, l’uomo in giacca abita a Rovigo. Che è proprio brutta, si dice tra sé e sé.
L’uomo in giacca sa che ora deve prendere un treno e tornare in un posto brutto. Dove vive bene, e dove troverà i grandi amori della sua vita, sua moglie e sua figlia, ma che è proprio brutto a confronto di Roma.

Quando a Rovigo piove, l’uomo in giacca si sente marcio dentro, mentre adesso che passa per le strade bagnate di Roma, pur stando dentro al taxi si sente come parte di un tutto.

«Ma nessuno dice niente?» chiede al tassista.

«Certo, tutti si sono ribellati, come al solito qua non è colpa de nessuno, nun se sa chi ha ordinato cosa. Roma è ‘na caciara dotto’. Ma è abituata, de qua so’ passati tutti e tutto, Roma sopporta».

«Certo, certo» l’uomo in giacca è sempre più stanco e si è ricordato perché non si è mai voluto trasferire a Roma pur dovendoci venire molto spesso per lavoro. È questa prosopopea romanesca che gli ha sempre dato fastidio, questo vivere nel passato, in una gloria ormai passata. E basta, pensa l’uomo in giacca, siamo nel 2017 e Michelangelo è morto da un sacco di tempo. Le lampadine a led fanno risparmiare e magari riuscite a tappa’ qualcuna di queste buche che il tassista sembra conoscere una per una visto che le prende tutte.

«Che poi, dotto’, er buio è il fondamento dell’amore» continua il tassista, ormai inarrestabile nei suoi filosofeggiamenti.

«In che senso?» chiede l’uomo, mentre si slaccia la cravatta a pois. Sta pensando di non metterla più, sta pensando che porta sfortuna, che avrebbe dovuto mettere quella rosa. Con quella sì che avrebbe chiuso il contratto.

«Ma lei lo sa quante pischelle me so’ caricato nei vicoli bui de Roma quann’ero ragazzo? Quelli de oggi che fanno, je fanno la visita odontoiatrica co ‘ste luci bianche da ospedale?»

L’uomo in giacca ride. Una risata larga, liberatoria, che gli distende il diaframma. E si ricorda perché ama venire a Roma. Qualunque cosa succeda, si diverte sempre, si fa sempre un sacco di risate con i romani.

«Voi romani siete come le donne, non puoi vivere con loro ma neanche senza».

«Se ride pe’ nun piagne, dotto’. Ecco, semo arrivati, so’ 35 euro».

Eh, fate piangere gli altri con queste tariffe, pensa l’uomo in giacca.

«Arrivederci, la prossima volta che vengo voglio andare a vedere queste bancarelle, magari riesco a portarmi un po’di luce romana a Rovigo»

«Quanno vole dotto’, c’ho un cugino che lavora all’ACEA, m’ha detto che se ne volevo una me la procurava senza problemi, le lascio il mio numero».

L’uomo in giacca si rimette a ridere, mentre prende il biglietto dell’uomo che gridando allo scempio della sua città ne fa merce allo stesso tempo.

Ma forse ha ragione lui, Roma è ‘na caciara ma è abituata.

 

Questi sono gli articoli che hanno ispirato il racconto: 

Se le lanterne storiche (rimpiazzate dai led) vanno a Porta Portese

Le «Lanterne Roma» sostituite da anonime lampadine a led. La consigliera dei Radicali Naim: «Roma è Città storica e patrimonio Unesco, nessuno ha chiesto pareri»

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di
Leonardo Vigoni


Come al solito
, sali sull’autobus delle 7:35 e, come al solito, siedi al tuo posto (è uno dei quattro in fondo all’autobus, meglio se nel verso di marcia).

Poggi il piede destro tra i due sedili davanti a te e sfili l’iPod dalla tasca sinistra con la mano opposta.
Lo fai scivolare dall’alto sotto la maglietta tenendo le cuffiette ai lati del collo – ognuna nel verso giusto – e lo accendi. Come al solito, conti i quattro secondi e mezzo che impiega per accendersi, resetti il brano in esecuzione, alzi il volume di due, mandi in play come al solito dal tasto laterale, alzi nuovamente il volume – questa volta fino al massimo – e, come al solito, lo riponi nella stessa tasca con il jack rivolto a sinistra.

Come al solito, sistemi lo zaino davanti a te, cinghie allo schienale.

La lampo più grande è chiusa simmetricamente rispetto alle altre? Sì.
Le stringhe scendono dritte ai lati? Sì.

Lo hai posizionato esattame … Diavolo! Possibile che quel tipo al posto dietro l’autista con i capelli rasati e un neo a due terzi tra l’orecchio e l’asta destra dei suoi occhiali blu notte poggiati sulla testa non sia in grado di non ripetere io ogni otto parole (tredici quando il tono della voce è più basso)?! Dannazione, ti ha pure distratto.

E per non farti mancare nulla, una goccia di condensa è caduta dal sistema di areazione dritta sul tuo maglione marrone, creando una macchia più scura larga almeno cinque fibre. Considerando la forza con cui è caduta e risalendo alla sua probabile dimensione originaria, prevedi che si allarghi di almeno due fibre per lato.

Quell’uomo seduto al posto dei disabili che è salito tre fermate prima non si è nemmeno accorto che la sua cravatta ha una piega a sinistra del nodo. Deve essere un principiante; probabilmente è anche destrorso. Sì, le unghie della mano destra lo confermano. Sono tagliate in modo disgustoso.

Finalmente l’egoista ha interrotto la chiamata. Deve aver commesso qualcosa di grosso: non fa altro che sfregarsi la mano, ora.

E questa vecchia seduta davanti a te vicino al finestrino? Accidenti, capisco che non hai un’anima a farti compagnia e vuoi parlare “di tuo marito morto nella Battaglia di Vittorio Veneto il 26 ottobre durante i festeggiamenti per aver respinto gli invasori”. Peccato che tu soffra di demenza senile e sia fuggita da una casa di cura. Il braccialetto al tuo polso ne porta anche il nome. Ah, tanto per la cronaca: la battaglia è terminata il 4 novembre, dunque cercati un’altra storia.

E quei tre alle porte centrali? Andiamo, che urto i fidanzatini talmente innamorati da non rendersi conto di come la propria compagna sia invece innamorata di un altro – proprio del terzo della compagnia, a quanto pare… fratello di lui? In fondo lo spessore delle labbra è lo stesso e le sopracciglia sono uguali; entrambi, poi, hanno gli occhi azzurri chiazzati di rosso, sintomo di un albinismo oculare difficile da scambiare per coincidenza.

Dio… ancora dieci fermate! Questa mattina è un’agonia. Quella donna accanto alle porte se non chiude immediatamente quella borsetta che lascia intravedere quell’assorbente rosa, farà una brutta fine.

E quell’idiota dell’impiegatuccio annodatore-incapace che ha dimenticato il portafogli sul sedile?
Andiamo, Cristo, è troppo facile così! E quando è troppo facile non ti diverti, ma piuttosto cazzo ti imbestialisci!

Oh sì, se ti imbestialisci… e lo sai cosa succede quando accade, sì?!

Devono tutti ringraziarti, però… l’assassino-per-caso egoista che ha finalmente mostrato i calzini bianchi macchiati di sangue ancora fresco… la signorina adultera che tradisce il compagno addirittura con il fratello, il quale – mi dispiace, tesoro – è un omosessuale con tendenze suicide (i tagli sui polsi ti eccitano? Che pervertita!)… per non parlare di quella lì, che va al lavoro fingendo di avere il ciclo per salvarsi dalle ramanzine del capo! Ci vai già a letto, vero bellezza? O vuoi dirmi che quella cravatta nella borsa è tua?! La nonnina, poi, non la devi nemmeno considerare: dal colorito della sclera le puoi dare un’altra settimana prima che il tumore le mangi il cervello e cada in coma, se la fortuna è dalla sua parte.

Beh, almeno una ricompensa ce l’hai: è il portafogli dell’impiegatuccio. Ora ti alzi e lo prendi, così scopri dove abita. Ma guarda… il documento è di un altro! Divertente…

Facciamo così: appena torniamo a casa, io e te, e riprendiamo la pistola che da idiota hai lasciato all’ingresso, prenderò io il controllo e farò una visitina al fortunato che si è fatto derubare da qualcuno che con quelle mani farebbe meglio a farsi un nodo scorsoio attorno al collo con la cravatta …

Un caricatore sarebbe bastato, se l’avessimo avuta con noi fin dall’inizio?

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di
Gualtiero Titta

 

Capitolo IV

Credono di aver capito chissà cosa, di aver scoperto l’assassino o aver svelato un grande mistero, ma le telecamere di oggi vedono anche al buio. L’uomo della metro ha tentato di avvicinarsi alle ragazzine, voleva salvarle, tirarle via da un destino segnato, ma è rimasto intrappolato nella folla. Ha raccolto il cellulare da terra e lo ha consegnato al controllore. Soltanto questo.

Se non fosse per i corpi estratti da sotto il treno nessuno direbbe sia successo qualcosa in quei secondi. La fermata è di nuovo chiusa ma domani sarà riaperta, solo perché tenerla così vorrebbe dire bloccare la linea intera, infestare le strade con chissà quante altre macchine e paralizzare il mondo.

 

«Ao’… Scusa pe’ prima…», dice il controllore buono. «Io però gliel’ho detto subito che non c’entravi niente.»

«Grazie», risponde l’uomo della metro in piedi davanti a lui, rannicchiato nel suo cappotto.

«Però ’na cosa… Me dispiace, ma te ne devi anna’ comunque…»

L’uomo della metro non reagisce alla notizia, sembra non esserne capace. Riesce solo a sedersi nel suo angolo e guardare il muro della galleria davanti a sé, fissando il vuoto.

«Non ce posso fa’ niente. La gente s’è lamentata, e poi ce sta pure chi pensa che sei stato te.»

«Ma…»

«Che te devo dì? Già s’ammazzano da soli, ce manca pure che tipo te dànno foco pe’ vendicasse.»

Il controllore si china sulle ginocchia, cerca lo sguardo dell’uomo della metro, senza trovarlo.

«Stanotte puoi sta’, poi domani insomma… Ecco…»

«Va bene… Stanotte va bene.»

 

Il rumore dell’ultimo treno diretto al deposito arriva fino ai binari davanti all’uomo della metro. È notte, ma qualcosa nei suoi occhi sembra voler dire che non ci sarà più tempo per riposare o tentare di dormire. Beve un sorso d’acqua da una bottiglietta di plastica spiegazzata, tira fuori dalla tasca del cappotto il pacchetto di sigarette e i fiammiferi. Ne sono rimasti pochi, rimbalzano uno sull’altro nella scatolina di carta. Prova ad accendere il primo ma, quando la scintilla diventa una fiamma, un soffio di vento freddo la spegne. L’uomo della metro cerca un’ombra nel buio della galleria, senza trovarla. Prova ad accendere il secondo, il terzo, ma i fiammiferi sembrano essere bagnati dalla luce che inizia a dissolversi, fino a sparire.

L’uomo della metro alza lo sguardo verso l’unico neon che balbetta segni di vita. Respira, beve l’ultimo sorso d’acqua e si alza. Non c’è altro da fare: deve entrare nella galleria.

 

Cammina, i passi rimbombano uno alla volta tra i muri e i binari. Si avvicina una mano agli occhi ma non vede nemmeno quella. Il tunnel dell’intera linea sembra essere al buio. Lo squittio di alcuni topi gli passa di fianco veloce, lasciandogli un brivido lungo il collo. Il vento freddo soffia leggero dietro di lui, lo invita a fermarsi o a scappare via da tutto, a dimenticare per sempre quello che è rimasto da vedere. L’uomo della metro cammina, non cede, continua a camminare senza mai fermarsi, fino a quando una luce si accende su una banchina in lontananza. La raggiunge, ma quello che trova non è che il suo angolo, lo stesso posto di tutti quegli anni, lo stesso spazio di sempre. È tornato dov’era, il buio lo ha riportato al punto di partenza. Non potrà mai scappare.

L’uomo della metro avanza, poggia una mano sul muro per risalire, ma qualcosa lo paralizza. Il sangue si gela. Da un lato c’è il buio appena attraversato, che ora sembra un luogo da rimpiangere, dall’altro due bambini, tornati in questo mondo solo per poco.

Respira profondo, prende coraggio e guarda…

[Continua…]

 

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di
Gualtiero Titta

 

Capitolo V

I due bambini sono fratelli, uno appena più grande dell’altro. Sembrerebbero gemelli se non fosse per qualche centimetro di differenza. Giocano con un pallone di carta a ridosso della linea gialla. Il più piccolo dei due provoca l’altro, lo sbeffeggia dimostrandogli che non lo potrà mai battere. L’altro sta al gioco, accetta la sconfitta ma il più piccolo insiste per giocare ancora. Continuano, ridono, mentre il treno in lontananza si avvicina percorrendo la galleria. I due bambini giocano, ognuno cerca di segnare all’altro in due porte immaginarie grandi come tutta la stazione. Il treno è sempre più vicino. Il bambino più grande segna, esulta, smentisce ogni pronostico e vince la partita, ma il fratellino non ci sta e corre verso di lui. Vuole una rivincita immediata, non è abituato a perdere. Il più grande si gira, non lo guarda, cammina esultando con le mani al cielo in equilibrio sulla linea gialla. E il più piccolo lo spinge, con tutte le forze. Per scherzare, per reagire, per dimostrare a sé stesso di non essere in grado di perdere. È un gioco da bambini, nient’altro.

Il più piccolo rimane in piedi, pietrificato di fronte al suo gesto, di fronte al corpo del fratello ora sparito fra il treno e i binari. Stavano giocando, non l’ha fatto apposta, deve essere stato qualcosa, un fantasma, non può averlo spinto lui.

 

L’uomo della metro osserva la scena dall’altro lato della banchina. Guarda il bambino paralizzato ed è come se tutto tornasse insieme, venendo fuori da quel buio. Vede sé stesso, trent’anni prima, nel momento che lo ha imprigionato per sempre, costringendolo a nascondersi, a rimanere fermo in quella colpa.

Ora invece è la luce a tornare, è già mattina, la fermata riapre, e di quella scena rimane traccia solo nei suoi ricordi ritrovati. Passano i primi treni, le persone salgono, scendono, nessuno sembra in pericolo. Del vento freddo nessuna traccia.

Basta uno sguardo del controllore buono a far capire all’uomo della metro che è arrivato il momento di andarsene e togliere il disturbo. L’uomo raduna le sue poche cose in uno straccio arrotolato, piega il cartone come fosse una tovaglia ricamata, si alza ma lascia tutto a terra. Cammina verso il controllore, senza più nulla. I neon sembrano accorgersi dei suoi primi passi. Le voci delle persone si rincorrono sulla banchina, sembra poterle sentire tutte, percepire ogni sguardo fin dentro la pelle. Credono sia lui ad aver spinto i ragazzini, ed è come se lo accusassero ancora, per sempre.

 

Il treno è a una fermata di distanza, la luce inizia a fare scherzi. Ed ecco anche il vento freddo a rigare gli occhi di tutti. Il controllore buono si avvicina, lo scorta tra la folla con una mano sulla spalla. L’uomo della metro sente che il momento è vicino, si guarda intorno cercando di capire chi sarà la prossima vittima. Vede qualcosa, un movimento sospetto di due ragazzini che rubano gli occhiali a un compagno più piccolo e iniziano a spintonarlo verso la linea gialla. Il treno è in arrivo. L’uomo della metro scosta la mano del controllore, corre verso di loro. Sembra essere in gara col treno a chi arriverà prima nel buio. Accelera, supera i due ragazzini e spinge via il più piccolo verso il muro, finendo lui al suo posto, senza potersi più guardare indietro.

 

È quasi mezzanotte, la stazione è pronta ad essere chiusa. L’ultimo treno si dirige al deposito, mentre i passi del controllore buono rimbombano tra i muri. Riguarda i filmati delle telecamere un’ultima volta. Rivede quel momento in cui l’uomo della metro si è staccato da lui e si è buttato sui binari salvando il piccoletto, che ci ha rimesso solo gli occhiali. Vorrebbe tornare indietro di qualche ora, qualche giorno al massimo e dare più peso alle sue parole, ma non sarà possibile. Meglio pensare che quelle storie sui fantasmi fossero solo i deliri di un pazzo vissuto per anni sottoterra. Meglio così.

Uno degli schermi mostra ancora la banchina in diretta. Il controllore nota lo straccio arrotolato e il cartone, rimasti lì a terra, nel solito angolo. Scende. Forse almeno le sue cose meritano una specie di sepoltura.

 

Il controllore raccoglie tutto ma una sigaretta cade a terra, rotola, e al balbettare di un neon si accende da sola. Il fumo viene aspirato via tutto in un attimo, sparendo nella galleria. Il sangue nelle vene si scuote in un brivido. Vorrebbe girarsi e sfidare lo sguardo del buio, ma non lo farà. L’uomo della metro aveva ragione. Lì non c’è nessuno, solo qualcosa che non si fa mai vedere.

 

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di
Gualtiero Titta

 

Capitolo III

È mattina presto, i cancelli della fermata cigolano e riaprono. La pioggia bagna le scale più di quanto dovrebbe. Ricomincia tutto, nessuno parlerà più di quel suicidio.

La banchina accoglie le prime persone, ma il treno non arriva, lo schermo elettronico non funziona. L’uomo della metro dorme ancora, si sveglia solo quando la ressa diventa quella dei giorni peggiori. È finito lo spazio anche per girarsi, risalire e tornare a casa. Del treno nessuna traccia, mentre le persone si moltiplicano. La sigaretta consumata è ancora lì, accanto al cartone, come a testimoniargli che quello che è successo non può essere ignorato. L’uomo della metro si fa piccolo nel suo angolo, si guarda intorno. Cerca quell’ombra della notte prima, ma non c’è nessuno, soltanto centinaia di sconosciuti in attesa di iniziare la giornata.

L’orologio segna quasi le otto. Lo sguardo cade allora su un gruppo di ragazzini diretti a scuola. Ridono, scherzano, due classi intere pronte ad andare chissà dove a perdere una mattinata. Lo zoo, il planetario, un museo pieno di sassi di un’altra epoca. Li osserva per capire se sia tra loro la prossima vittima, e il vento freddo soffia di nuovo. Sì, succederà ancora. Lo sa, i neon prossimi a spegnersi gli dicono tutto, ma quello che non ha capito è che oggi sarà peggio di ieri e domani peggio ancora.

 

Il controllore buono scende ad annunciare che il treno è in arrivo. Il vociare si dissolve in un sospiro di sollievo. L’uomo della metro lo guarda facendogli cenno di avvicinarsi. Il controllore lo raggiunge, svicolandosi tra le persone.

«Dormito bene, sì?»

«Fermate il treno.»

«Eh?»

«Fermate il treno.»

 

Dall’altro lato della banchina due ragazzine si tengono per mano accanto a una professoressa appena più alta di loro. Si scattano una foto con il cellulare, inchiodano quel momento sugli schermi di chi potrà solo ricordarle. Non importa di che colore abbiano gli occhi o i capelli, come passano i pomeriggi o cosa vorrebbero fare tra qualche anno. Non importa più, non è mai importato. Il treno è vicino, il macchinista è un altro, ma non cambierà nulla.

Le due ragazzine si guardano, poggiano la testa l’una sull’altra, ancora assonnate. Lasciano la professoressa indietro di qualche centimetro, poi di qualche passo. Il treno sbuca dalla galleria. Si muovono tutti verso la linea gialla, hanno aspettato troppo per non salire adesso. C’è chi spintona fingendo di essere spinto, chi guadagna spazio un millimetro alla volta. Il controllore lascia l’uomo della metro seduto, a ripetere di fermare il treno, e prova a calmare le persone. La luce si spegne, il treno si avvicina. Il controllore urla di stare calmi, le corse sono riprese, ne arriveranno altri, ma nessuno sembra capire. È il buio a cambiarli, a isolarli da qualsiasi altra cosa, a muovere tutti verso i binari. È il vento freddo a rendere ogni passo più pesante, impossibile da fermare.

L’uomo della metro vede qualcosa in mezzo alla folla. Qualcosa che si sposta senza lasciare traccia, senza farsi mai vedere. Si alza, prova a raggiungerlo, ma non c’è più tempo. Il vento freddo spinge le due ragazzine sui binari. Sembra sia stata la ressa, o che siano cadute da sole, saltate giù anche loro. Si guardano quasi senza sapere dove siano finite. La loro foto sul cellulare illumina il soffitto in cerca d’aiuto, dalla banchina. La gente non vede, il buio riempie gli occhi di tutti, nessuno può capire. Ogni urlo rimane soffocato, le ragazzine si abbracciano. Il treno frena, ma è troppo tardi.

 

La luce si riaccende. Nessuno sa cosa sia successo, sono solo sparite, scomparse. Il controllore buono si fa largo tra la folla, si avvicina ai binari, chiama i soccorsi, ma sarà inutile anche questo. Si gira verso l’uomo della metro, convinto di trovarlo nel suo angolo, ma sul vecchio cartone non c’è nessuno. È lì dietro, a pochi passi da lui, in mezzo al fiume di persone che lentamente si dissolve in preda al panico verso le scale d’uscita. Non sembra sapere neanche lui il perché del suo essere lì. Trema, stringe qualcosa fra le mani. Abbassa lo sguardo all’avvicinarsi del controllore.

«Che c’hai in mano?»

L’uomo della metro non risponde, svelando il cellulare delle ragazzine tra le dita.

[Continua…]

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di
Gualtiero Titta

 

Capitolo II

Non sempre basta guardare per poter vedere, se ne accorgeranno presto.

Il corpo del ragazzino è sulla banchina, coperto da un telo troppo grande per lui. Una fibbia dello zaino sbuca appena da un lato, quasi volesse staccarsi e provare a ricominciare per conto suo. I treni continuano a scorrere sui binari dietro di lui, ignorano la fermata chiusa e vanno avanti; il corpo viene portato fuori dalla polizia, di nuovo su. Lo aspetta una donna che non fa che piangere e riempirsi di dubbi. Dovrà conviverci, per lei è uno di quei giorni che tracciano una linea tra il prima e il dopo. Chissà come farà, si chiedono tutti i curiosi lì intorno. Chissà come farà.

 

Il gabbiotto della sorveglianza è solo un quadrato pieno di schermi, non è certo qui che si scoprirà qualcosa. I controllori studiano i filmati delle telecamere, continuano a guardare la stessa scena, avanti e indietro, cercando una spiegazione diversa a quello che è successo.

«S’è buttato…»

«Secondo me nun se ne è accorto… C’aveva ’e cuffiette.»

«Magari s’è distratto…»

«Ma te pare… Non è er primo, eh…»

«Guarda che stanno fori de testa… Dice pure che ce sta ’n gioco su internet…»

«Ma falla finita… ma te pare.»

Continuerebbero per ore, scambiandosi ruoli e battute, confondendosi l’uno con l’altro. La fermata riaprirà domani, c’è poco da fare nascosti sotto terra. Indagano a modo loro su quello che non possono capire, tirando dentro ipotesi e smentendosi da soli per paura di avere ragione. Scendono anche i poliziotti, li interrompono, serve una copia dei filmati per l’indagine in centrale.

«Lei ci segua…», dicono al macchinista che si guarda intorno come cercando qualche alleato per una fuga da improvvisare. Ma di alleati c’è poco bisogno. Gli schermi e le facce di tutti lasciano pensare la stessa cosa: è una formalità, una pratica da compilare. Il ragazzino si è buttato, non è colpa di nessuno, c’è poco da aggiungere. Si può tornare a casa.

 

«L’ha spinto.»

La voce dell’uomo della metro emerge dalle scale della banchina.

«E te ancora non te ne sei annato?», dice il controllore che lo ignora sempre, «… vedi de ringraziacce che non t’avemo fatto arresta’».

«E dài… Lascialo perde’», risponde quello che lo ha preso in simpatia.

L’uomo della metro però non chiede un po’ d’umanità, vuole qualcosa di più: vuole essere ascoltato.

«C’era il fantasma. L’ha spinto lui», dice guardandoli negli occhi uno alla volta.

«Ao’… vedi de finilla. È morto un ragazzino: ce sta poco da gioca’.»

«Basta cazzate… Vattene a dormi’.»

E qui sono d’accordo tutti.

Ma l’uomo della metro insiste, anche mentre i controllori se ne vanno. Ormai sussurra. Guarda i tre uomini allontanarsi verso l’uscita. Parla da solo.

«Vive nella galleria… È tornato.»

La frase si dissolve a terra tra gli ultimi passi di una giornata da dimenticare. I tre lo guardano come per dirgli di tornarsene al suo posto e non chiedere altro. Domani ricomincia tutto, a lui è concesso il suo angolo, c’è chi non ha più nemmeno quello.

 

L’orologio sul muro segna le due di notte, ma l’uomo della metro non riesce a prendere sonno. L’angolo è sempre lo stesso, il cappotto e il cartone lo avvolgono quasi come un letto vero, ma c’è qualcosa che non lo lascia dormire. La galleria. Non riesce più a guardarla da quando ne ha parlato a voce alta. È quel buio lì in fondo che lo tiene sveglio, sembra avere un peso, una forma, sembra possa avvicinarsi e nasconderlo per sempre, portarlo via. L’uomo della metro si gira faccia al muro, non vuole più pensare al ragazzino, a quel momento, a cosa ha visto, a cosa è nascosto in quel buio.

 

Fa freddo qui sotto, sempre più freddo. Il fiato caldo sulle mani non basta più, e l’uomo si rannicchia, cerca qualcosa. Una scatola di fiammiferi, un pacchetto di sigarette. Gliene sono rimaste poche, regalate da uno sconosciuto che quel giorno aveva deciso di smettere. Ne accende una, aspira due, tre volte. Tossisce, non è più abituato. La posa a terra, ancora a metà.
Il fumo leggero gli passa intorno al viso e lui si rannicchia di nuovo, pronto a dormire. Chiude gli occhi. L’unico neon acceso a quest’ora balbetta di nuovo, una folata di vento percorre tutta la galleria, quasi intonando una nota, consumando una frequenza. L’uomo della metro riapre gli occhi, sa che è arrivato il momento di guardare. La sigaretta si consuma in un attimo, tirata via dal soffio freddo che sembra correre e sparire lontano, dove la luce non entra mai.

Chi ha spinto il ragazzino si nasconde lì dentro [continua…]

 

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di
Gualtiero Titta

 

Capitolo I

Nessuno lo sa, ma sta per morire un ragazzino.

Sono tutti qui, appena svegli. Chi in piedi, chi seduto, chi con la testa nascosta in uno schermo grande mezzo palmo, tutti impegnati a distrarsi da qualsiasi cosa meriti un po’ d’attenzione.
È un giorno come un altro, sotto terra, ad aspettare un treno.

Dicono sia la stazione più buia della linea. Non c’è un motivo vero e proprio, nessuno si è mai sforzato di capirlo, ma è ormai quasi un anno che anche la luce sembra voler scappare da qui sotto.
I neon balbettano di continuo, pronti a spegnersi da un momento all’altro e non riaccendersi più. Forse è colpa del pavimento consumato dai passi e dagli anni: non riflette come dovrebbe, e allora la luce si offende e minaccia di andarsene.
Sì, deve essere questo il motivo. Così, come ha fatto adesso, proprio così. Qualche falso contatto dovuto al peso dei vagoni sui binari ed eccoci nascosti nel buio.

Il rumore del treno che arriva si fa strada nella galleria, un soffio freddo sfiora le guance di chi è troppo vicino alla linea gialla e la luce si spegne. Solo per un attimo, il tempo di chiedersi se stia davvero per succedere qualcosa, poi un nulla di fatto, si torna a vedere. Di nuovo nel mondo, sempre gli stessi.

Un’ultima accelerazione in lontananza. Un ragazzino si fa strada tra la gente, non serve chiedere il permesso, è ancora presto, c’è spazio per tutti e per tutto. Avrà undici anni, lo zaino più grande di lui, le cuffiette infilate nelle orecchie, una scodella di capelli a nascondergli gli occhi. Guarda fisso a terra, controlla di aver fatto bene ogni passo. Il treno si avvicina, il ragazzino continua a camminare. Le luci della stazione balbettano ancora, il vento freddo soffiato dai binari scivola su tutta la banchina. Questa volta non è come al solito, ma non se ne accorge nessuno.

Nessuno tranne un uomo seduto a terra, per tutti l’uomo della metro.
Non fa che starsene su quel cartone, riparato in un cappotto che ne ha vissute troppe, chiuso nel suo angolo. Avrà quarant’anni ma ne dimostra tanti da farne perdere il conto.

Vive e dorme lì, ogni sera, senza mai uscire, in quello che ormai per tutti è il suo posto, la sua stanza. I controllori fanno finta di non vedere, si sono abituati a lui, a quella macchia per terra, non fa più nessun effetto. Uno di loro ogni tanto si avvicina, gli porta un giornale, un panino riscaldato, gli ricorda di esistere. Il controllore buono, è così che lo vede lui.
Ma l’uomo della metro non ricorda neanche più di avere avuto un’altra vita diversa da questa, e forse non ce l’ha mai avuta davvero. Non fa che stare fermo a contare i secondi tra un treno e l’altro, con gli occhi persi nelle ombre dei binari o nella folla.
Guarda, osserva, spesso vede più degli altri, prima degli altri, e ora vede anche il ragazzino superare la linea disegnata a terra.

I neon si spengono e riaccendono ancora, il ragazzino guarda l’uomo e gli sorride appena, come a dirgli di non preoccuparsi. Ma l’uomo vede qualcosa dietro quel sorriso, come se quel soffio freddo avesse preso forma. Qualcosa che non c’è, che non si fa mai vedere.

Il treno emerge dal buio della galleria ed è questione di un attimo. Il ragazzino si lascia cadere, il macchinista cerca di inchiodare ma è solo un riflesso involontario. Non ci sono tasti da premere o leve da tirare in momenti del genere. Niente può fermare in tempo il treno, nemmeno le urla di chi realizza che cosa è appena successo.

La gente si blocca e di fronte alla morte prende vita un ritratto collettivo di anime che si risvegliano.

Sembrava un ragazzino così normale… Che cos’hanno in testa i giovani d’oggi? È caduto, forse è caduto e tra poco starà bene… Non è possibile, non è successo… Povero ragazzo, poveri genitori…

Il macchinista non riesce a uscire dal suo abitacolo. Guarda nel vuoto, paralizzato. Non è colpa sua, ma è la prima volta, nessuno gli ha mai spiegato come reagire a certe cose. I passi veloci dei controllori invadono la banchina; non c’è niente da guardare, la fermata è chiusa. Vanno via tutti, risalgono, non dovranno far altro che continuare la giornata e dimenticare.

L’uomo della metro invece rimane sul suo cartone, ancora non si muove, i tre controllori non sembrano nemmeno averlo visto. Si alza e si avvicina al capannello di divise.

«Non puoi sta’ qui… ’mo no» gli dice uno dei tre mentre dà una pacca sulla spalla al macchinista con gli occhi lucidi.

Ma l’uomo della metro insiste, rimane lì, e parla.

«L’ha spinto… non si fa mai vedere.»

[Continua…]

 

 

 

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Flavia Cuddemi

 

«Posso?».

Chissà se sono rimasto uno dei pochi a farsi ancora lo scrupolo di chiedere, prima di sedersi.
Questo penso, ma la signora grassottella, intenta a trovare combinazioni di caramelle e dolciumi sullo schermo del suo smartphone palesemente d’annata un po’ rigato, non mi degna di uno sguardo.
“Bene” mi dico tra me e me, e facendomi spazio tra un Samsung e un Huawei prendo posto sul treno che da Tiburtina mi porterà a Piramide.

Certo checcazzo, mi ripeto con un lieve senso di sdegno e di fastidio, tutti co ’sto telefono in mano…che sta a fa’ questa? Eh, come te sbagli, facebook! Esclamo dentro di me mentre un occhio mi cade sul display alla mia sinistra.
Ma che è?! Il video di una ripresa fatta da una go-pro messa in testa a un cane: se vedono solo muri e alberi.
Osservo, guardando con aria interrogativa e pensosa, il quattordicenne dall’espressione inebetita che mi siede accanto.
S’ode a destra uno squillo di Facebook, a sinistra risponde un WhatsApp, mi ripeto in testa volgendo lo sguardo prima da un lato e poi dall’altro.
Davanti a me, intanto, si susseguono una serie di selfie irritanti che ritraggono due ventenni pronte per il pre-workout in palestra. Pre-workout di selfie, ovviamente.

Mah, fammi legge qualcosa, mi dico, e, mentre prendo dallo zaino il solito libro che mi accompagna in metro/autobus/tram/aereo/treno, decido che per isolarmi dal rumore dei tasti cliccati dal tizio in piedi davanti a me, devo assolutamente mettermi le cuffiette.
È la sera dei miracoli fai attenzione/ Qualcuno nei vicoli di Roma/ Con la bocca fa a pezzi una canzone

  • CASTRO PRETORIO, PROSSIMA FERMATA CASTRO PRETORIO USCITA LATO…

che si fottano tutti, e sospirando quest’ultimo estremo anelito contro il capitalismo, crollo nel mio mondo.

Non trascorrono 5 minuti che, nello spazio creatosi tra il libro e le ginocchia, dove ho appoggiato il cellulare che trasmette la mia musica, noto una mano. Veloce, con le dita dalle pellicine mangiucchiate al par delle unghie, prova a tirare a sé lo smartphone, togliendomi le cuffie e facendomi urlare: «A testa de cazzo!» esprimendo con tutto il bon-ton un disappunto percepibile.

«Ma che, me stai a frega’ il telefono??» domando, alzandomi di scatto, al biondino magrolino che, accovacciatosi, provava il colpo.

«No, no, aspetta amico – mi fa lui tra il sorpreso e l’impaurito – non è come credi. Cioè, ok sì, te volevo fa’ il telefono, lo ammetto, ma non credevo che stessi attento, non credevo fossi… strano, insomma. Pensavo fossi come gli altri. Credevo fossi normale e che non te ne accorgevi. Capito, no?».

«No – rispondo incazzato – macheccazzo stai a di’? Me stavi a frega’ il telefono e te stai pure a giustifica’?».

Si alza, il ragazzo, mostrando in realtà un viso non cattivo. Una faccia appuntita, nascosta da un cappello di lana fuori stagione e dai capelli color cenere che, a ciuffi, gli sovrastano la fronte che presenta un paio di cicatrici. Intorno a me non è successo nulla, tutto è come prima: tutti si scaldano alla luce dei loro smartphone.

«Sì – riprende lui – aspè, non te incazza’. Ok, m’hai sgamato, tieniti il telefono, ci mancherebbe. È che qui lo facciamo sempre, guarda – indicandomi da una parte e dall’altra altri tre ragazzi intenti a sottrarre, con naturalezza, i dispositivi elettronici dalle mani dei passeggeri – loro neanche se ne accorgono, e non te ne saresti accorto neanche te se fossi stato normale. Ma che stavi a fa’?».

«Leggevo» rispondo sbigottito più dall’affascinante scenario che mi si presenta attorno che dalla domanda del tipo. «Leggevo un libro» ripeto inebetito e quasi balbettando «Ma… possibile che nessuno se ne accorga?».

Dopo una fragorosa risata, reazione immediata alla mia domanda, il ragazzo mi fa: «Ma te sei proprio strano davero. A parte che, ’ndo vivi? Che, se legge così? Senza manco un tablet? Mah, me fai taja’ – accompagnando il tutto con una pacca sulla spalla – serio. Ma accorgersi di che? Ma come fanno ad accorgersene? Stanno concentrati! Poi questa è ’na mossa rapida: se chiama “sfila&metti”, guarda, te ’mparo io».

Nel tempo di un tumulto di binari il Samsung della signora cicciottella in cui si stanno accatastando caramelle e amenità varie ora è tra le mani svelte del tipo.

La signora, al posto dello smartphone, regge un volantino di una gelateria sulla Tuscolana.
Senza rendersene minimamente conto, continua a scorrere il dito, provando a far allineare i vari gusti dai diversi colori.
«Visto? – mi fa soddisfatto – il segreto è avecce sempre qualcosa che non contrasta troppo con quello che sta a fa’ il tipo o la tipa. A quella, per esempio – mi indica una tizia bloccata su una foto di Instagram – j’ho messo in mano una foto del gatto mio, so’ 10 minuti che sta a cliccacce sopra pe’ mette un cuore. Ah e… lo vedi quello? – e me lo indica rivolgendo lo sguardo al ragazzo del video su facebook che adesso in mano ha un depliant scolorito che ritrae la street art a Roma – ’sta settimana è già la seconda volta che je faccio il telefono. Tanto domani, appena ha realizzato, vie’ da me e se lo ricompra: co’ questo me ce pago le vacanze st’estate, di sto passo».

Incredibile.

Nel breve volgere di cinque fermate tutti, nel vagone, non hanno più tra le mani i loro smartphone, i loro  tablet, i loro ipoddofoni, smartophoni e tutta l’intera vasta gamma di touchettofoni che popola questo universo mondo i-tech.
Chi osserva attentamente un santino in attesa che il “video” riparta, chi struscia il dito su un volantino, chi fissa immobile la foto di un cane dallo sguardo interrogativo o di un parente di uno della “banda” e chi, infine, chatta digitando tasti su un telefono di gomma che ad ogni pressione emette un sibilo acuto e sfiatato.
“Assurdo” penso, sgranando gli occhi immobile, come se il mix di sorpresa, meraviglia e stupore avesse all’istante ghiacciato me e tutto ciò che mi circonda.

Guardandomi intorno, stringendo nelle mani il telefono e il libro, noto che i tre, con il loro bottino, si avvicinano all’uscita, parlottando tra loro: «Tranquillo – mi fa il biondino – tanto prima di mezz’ora/un’ora non se ne rendono conto: è tutto cronometrato, al capolinea se svegliano. E tu – strizzandomi l’occhio – non fa’ cazzate: leggi, che è meglio. Non sarai normale, ma sei un tipo simpatico. Ciao, grande!» e con un balzo è già fuori a Garbatella.
Garbatella. Cazzo! Dovevo scende pure io! Impietrito e ancora scosso, lascio che il treno compia tutto il suo tragitto.

Intorno a me, tutto è normale e scorre.

Normale.

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di
Riccardo Marin

 

Il salto giù dal tram è il momento migliore del mio viaggio mattutino con Samuele; nei due secondi tra quando il mezzo si ferma e quando aprono le porte, tutti i giorni lo guardo e gli chiedo: «Pronto?»
Samu mi osserva, sorride e alza le braccia.
Tutti i giorni quando dobbiamo scendere appoggio un piede sulla banchina, lo prendo per i fianchi e con un colpo di reni lo alzo finché con le dita non tocca il tetto del tram. Quando lo rimetto a terra piega sempre un po’ le ginocchia come ha visto fare nei documentari delle missioni spaziali.
Questa mattina però non riesco a sollevarlo abbastanza. Arriva a pochi millimetri, scalcia, emette un gemito di disappunto e arriva al suolo senza piegare le ginocchia. Si gira di scatto. Segue la Luna allontanarsi per il viale. Poi guarda per terra, e io farfuglio qualcosa. Non siamo pronti a diventare grandi.

Gli accarezzo la testa, e vorrei che qualcuno accarezzasse la mia.
Questo è il momento in cui ci sciogliamo; la sua scuola è proprio davanti alla fermata, e io aspetto il tredici per andare al lavoro.

Aprono i cancelli. Gli sistemo il giubbino. Si guarda le scarpe.

«Ehi Samu devi proprio andare adesso, noi ci vediamo all’uscita.»

Non si muove.

«Samu, mi hai sentito?»

Resta silenzioso, col capo chino.

«Samu, tutto bene?»

Alza la testa. Mi guarda come fossi un palazzo altissimo e volesse capire se c’è altro oltre il tetto. Il cielo inizia tra i miei pochi capelli?

«Samu, dai, sarò qui quando esci.»

Sembra che stia organizzando delle lettere nella bocca per dirmi qualcosa.
Poi lo fa: «Promesso?»

Non si accontenterà di un sarcastico: Farò del mio meglio.
Io non mi accontentavo.

«Promesso»

Ma non è vero che posso prometterlo, è solo l’Amen delle mie preghiere interiori al Dio dei Padri: proteggici dalle coincidenze perse, dal traffico delle diciotto e dagli straordinari negli uffici pubblici.

Samu però sembra più soddisfatto. Torna a guardarsi i piedi.

«Papà» pausa. «Mi sistemi le scarpe?»

Ha i lacci slegati. Non posso aiutarlo; non ho mai imparato come si fa. Non mi hanno insegnato.

«Samu vai dentro e chiedilo alla Maestra Luisa, dai che altrimenti fai tardi.»

Mi guarda. Non ha lettere da organizzare.

«Va bene, ciao!». Corre verso il cancello.

Sgambetta scoordinato. Vorrei dirgli di non correre ma non ne ho il tempo.

Si pesta un laccio con il piede e perde l’equilibrio. Piccolo com’è sembra un sacco della spesa che cade, afflosciandosi sul cemento. Faccio per andare verso di lui ma si è già rialzato. Torna a correre, a gambe larghe per non inciampare, coi lacci che svolazzano. Ha per la testa la missione che gli ho affidato e vuole compierla, senza far caso al suo passo incerto, veloce come il vento.
E vorrei chiederglielo.

Chiedergli: che te ne fai di un padre che non sa allacciarsi le scarpe?