Anastasia Coppola - Consegne View More

di Stefano Tarquini

Illustrazione di Anastasia Coppola

Mi sono svegliato presto e ho visto l’alba davanti la pescheria Jolly.  
La luce fredda colorare i quattro scalini che la signora Marisa spazza tutte le mattine, riempiendo d’acqua di mare il marciapiede di fronte.
Una volta aveva preso pure una denuncia perché un signore anziano c’era scivolato, mandando all’aria il femore e al creatore…varie ed eventuali.
La cosa poi era finita lì, ma più che a tarallucci e vino, con una bella fornitura di orate, spigole e gamberi reali. Tutti felici.

Mi passo una mano tra i capelli lasciando cadere i sogni ed i segni della notte passata, non ho di certo un buon odore, nè tutta sta voglia di affrontare la giornata.
Coccia sale in macchina senza salutare, col volume altissimo delle cuffiette che però non mi infastidisce. Si limita a fare un cenno con le labbra, le socchiude un attimo in un strettissimo ciao.
Lo vado a prendere tutte le mattine perché l’ex moglie gli ha levato macchina e mutande. Sono di strada e mi fa compagnia. Ci fermiamo al bar per colazione e gratta e vinci. Pago sempre io e non vinco mai.

Entro, timbro, leggo in bacheca il numero delle consegne: «Non c’è nessuno di famoso oggi?»

Leggo alla svelta i cognomi: «Rossi, Campoli, Marini, Guglielmo, Ciacci, Marini,ma chi Valeria?». Bestemmio senza farci caso.
«Sse, dai non scherzare!» dice.
«Leggi tu stesso!».
Ma dai, sarà un’omonimia, penso.
Anche perché in vent’anni di consegne mi era capitato solo Pippo Franco. Ma in quel periodo ogni giorno si veniva a sapere di qualcuno che aveva beccato l’indirizzo di qualche vip.
Pratesi sapeva dove abitava la De Filippi.
Santini, l’avvocato Taormina.
Vergari, Bruno Vespa…«a me belle fregne mai è!» Autoironia.

Coccia prende la consegna stropicciandosi gli occhi: «Non ci posso credere, Valeria Marini…».

Fare il corriere a Roma.
Una enorme rottura di coglioni che girano sempre almeno come gira su se stesso il Grande Raccordo. In qualsiasi direzione, a qualsiasi ora, una processione lenta e costante che trasforma il giorno in notte, le uscite in finte vie di fuga, il sangue un turista che non fa fotografie.

«Chissà come sarà Valeria Marini dal vivo?» dice il Coccia «t’è mai capitato qualcuno famoso?».
«No» rispondo.
«Ah si una volta ho consegnato un pacco ad una pornostar, aspetta come si chiamava? Ah si, tua madre!».
E scoppia a ridere mollandomi un bel diretto spalla destra.

Siamo amici da quando eravamo veramente piccoli.
Mai scuole insieme ma stessa via, stessa vita e stessa capoccia.
Tempo fa si presentò con una foto della prima comunione.
Damerini dai capelli arruffati e papillon.

Una volta avevamo anche provato a mettere su un gruppo musicale.
Lui cantava, io alla chitarra elettrica. Avevamo pure sistemato la cantina di mio padre, raccolto innumerevoli cartoni delle uova per tappezzare le pareti ma non facevamo altro che rimediare cazziatoni da tutto il palazzo e allora lasciammo stare.

Intanto arriviamo sotto casa di Valeria…
«Andiamo insieme?»…
«e si eh!».
Di solito io guido e aspetto sotto. Lui scende, fa la consegna, fa firmare la bolla e via.
Si attacca al citofono. «Prego salite pure io sono la – cazzo – cameriera di Valeria». Sbruffona.
Una ragazza splendida, di un est indefinito, alta, occhi chiari da ipnosi.

«Ma Valeria Valeria?» le faccio.
«In che senso?» risponde.
«Lasci perde mi scusi, ecco il pacco, una firma qui!».
«Deve pesare molto se lo portate in due» fa lei ironica.
«Ehm si, in effetti pesa molto…no, non è vero è solo che volevamo vedere se c’era la signora».

Il ghiaccio orami è frantumato.
«Sa, ma una foto insieme alla signora secondo lei si potrebbe fare? Giusto per far rosicare un po’ i nostri colleghi».
Ma a lei della cosa non gliene frega niente. Comincia a prenderci in giro. «Sapete fare anche altre cose in due oltre a sollevare questo enorme pacco pesantissimo?» Risate.

Ma dove vuole arrivare? Penso.
Cioè non ci sta provando con noi? Mi chiedo.
Sto sicuramente capendo male.
E invece no stavo capendo benissimo.

«Accomodatevi, vi faccio il caffè!»
«No signora non possiamo, andiamo di fretta, non si preoccupi»
«Insisto!» e sparisce dietro una parete piena di foto di vip, targhe, uno specchio immenso che arriva fino al pavimento.

Coccia gironzola per la stanza, io mi lancio sul divano che quasi mi inghiotte.
Chiudo appena gli occhi lasciando il cervello leggero sulla schienale, fino a farlo quasi cadere all’indietro, per poi riaprirli all’altezza della porta da dove quella era sparita.

Ricompare al contrario.
A testa in giù. Si ferma un attimo per farsi vedere.
Attira l’attenzione con un colpo di tosse.  
Allora rialzo la testa, mi volto con tutto il corpo spalmato sul divano e la guardo.
E’ completamente nuda.
Gelo totale.
Silenzio.
Non c’ha fatto di certo il caffè. Vertigine.
Dio mio, dio mio questa è matta penso. Coccia se la guarda, poi guarda me. Non ci crede. Non ci credo.

«Comunque io sono Mika, piacere!». Mica cazzi, penso.
«Il piacere è solo nostro guardi».
In un minuto non avevamo più i pantaloni.
Mika quel giorno voleva fare sesso ed eravamo capitati noi.
Poteva andargli meglio tutto sommato, ma si accontentò.
Dopo che eravamo venuti tutti e tre ci raccontò della sua vita ma senza piangersi addosso. Viveva solo all’ombra di qualcuno altro.

Si stava facendo tardi e noi dovevamo assolutamente finire il giro. Mika ci lasciò il suo numero di cellulare, l’indirizzo lo sapevamo.
«Scrivetemi quando volete, sono sempre qui da sola, ah e grazie mi ci voleva proprio, mi avete rimessa al mondo!»
Noi a te? Tu a noi mi sa, pensai.

La lasciamo lì, coi suoi pensieri fatti cadere ad un ad uno mentre va a farsi la doccia in silenzio e filiamo via. Giù di corsa per il cortile del palazzo, tra le fontane e le siepi ben curate e i salici piangenti che fanno tanta ombra. Di quelli coi rami forti, dove puoi legare due corde ad un pezzo di tavola ed improvvisare un’altalena.
O semplicemente far sedere i bambini in cerchio per la merenda.

Ed eccola là proprio davanti a noi: una Valeria Marini in incognito, che scende goffamente da una BMW grigio metallizzata con autista, un cappotto da uomo lungo fino ai polpacci, ben nascosta dietro la montatura eccentrica dei suoi occhiali da sole, appare.

 «Buongiorno!».
E scompare velocemente nel portone del palazzo.

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di Fabrizio Sani

Illustrazione di Anita Zanetti

Tra Garbatella e Basilica San Paolo non si volta lo sguardo: si esce e si entra sempre a sinistra.

Le luci della metropolitana di Roma cambiano in base alla stagione.
I grugni della metropolitana anche, pur se in misura minore.
Le persone che fanno serpentine e il sapore amaro delle unghie sporche quando le mordicchi, non cambiano.

Remo non diventerà un sismologo, e probabilmente non lo ha mai voluto. Al capolinea passerà un’altra volta la tessera dei mezzi sopra il lettore per tornare indietro. La sua stazione è passata da tre fermate: ha deciso di percorrere l’intera tratta, vedere tutta la gente che sale e scende, con un fasullo e immobile sorriso, rimastogli sospeso sulla faccia soltanto perché non saprebbe più nemmeno da che parte buttarsi.
Perfino quello che gli è sempre piaciuto fare, lo intristisce: guardare la gente e immaginarsi quale sarebbe il loro rapporto se si conoscessero, in che modo gli parlerebbero e se magari, per Capodanno, gli manderebbero o meno un messaggio di auguri e una foto dei fuochi.

Il suo amico è da poco partito per Berlino, «lì sì che si trova lavoro».
Fra otto mesi sua moglie partorirà un bambino, suo figlio, e lui non ha nessuno a cui raccontarlo.

A Roma l’inverno si mostra in ruggine, sui campi e le piante, sui tetti, sui binari e sui deboli esseri che su queste cose passeggiano.
In questa stagione, sapere da che parte guardare è faticoso come sapere dove posare le mani su una donna.
Remo le posa sul grembo della sua fidanzata e la convince a fare le valigie. Le giunge per chiedere un favore alla padrona di casa, senza sfiorarla.
Le accosta alle guance di sua mamma per salutarla.
Cambierà appartamento, condominio, quartiere e città.
Remo prenderà un aereo per Berlino.

In un bar pieno di beige, il suo amico indosserà un maglione bianco facendo sembrare tutto sporco.
Ordinando due birre in inglese, spiegherà a Remo che il tedesco non è semplice, sta imparando.
Che fare il magazziniere qui è comunque meglio che farlo in Italia, ma si aspetta certamente di trovare di meglio.
Racconterà orgoglioso quell’avventura con una signora di una certa età, «perché con il freddo, si è più focose. Qua le donne si guardano intorno alla ricerca di un partner, esattamente come gli uomini».
Li divertirà per molti minuti.
Remo parlerà al suo amico del figlio che sta arrivando, dirà «a Berlino sì che un bambino può crescere bene».

Remo penserà che il suo amico sia meno esuberante di prima, ma non lo sarà di meno.
Penserà che sia la sua voce ad essere un po’ arrochita, ma non sarà diversa.
Penserà che sia sicuramente qualcosa nel suo aspetto, nei suoi capelli o nel contorno dei suoi occhi, a ispiragli, per la prima volta da quando lo conosce, una qualcosa che non sa affatto definire ma sa di subalternità, eppure né nei capelli, né attorno né negli occhi stessi, ci sarà una cosa diversa da prima.

Remo fisserà il vecchio stereo che disperde una nenia dolce e violenta di sottofondo, intanto che le spie del volume si arrampicheranno sul suo volto.

«Ti ricordi la tombola a casa di Valentina?»
«Certo. “La gatta”». Risponderà Remo.
«La gatta», ribatterà, allusivo, l’amico. «Non siamo più tornati da lei», e di nuovo si metteranno a ridere entrambi.
«Abbiamo vinto noi quella volta.»
«Che abbiamo fatto, poi, con quei soldi?» domanderà l’amico.
Remo gli guarderà il polso, l’amico s’imbarazzerà un attimo e chiuderà le spalle, ma dandogli di gomito Remo dirà: «ormai è tuo, non ci pensare», e si sentirà sollevato nel percepire il suo volto distendersi.

Chiederanno il conto in inglese, ma uscendo dal locale l’amico dirà: Hallo.
«Io prendo l’autobus qui, tu devi andare laggiù e attendere il 163.»
«Dov’è che ti sei sistemato?»
«Per il momento sono a Hohenschönhausen, ma è provvisorio, senz’altro. Appena tutto avrà preso la strada giusta mi avvicinerò al centro.»
Remo annuirà e farà un cenno di saluto con il mento.
«Ci sentiamo domani», dirà incamminandosi.

Il 163 sarà pieno e lui noterà quella creatura alla sua destra.
Con lo sguardo desolato come tutti quelli con cui spartisce la corsa. Minuta e bassa; caspita quanto è bassa, penserà.
Tanto da chiedersi se mai ce la farà.

Lei starà lì, con quegli stivali blu, la sua maglia blu, i suoi jeans blu chiari e i suoi occhi blu che guardano quello strano attrezzo a forma di goccia che pende dall’asta con aria di sfida.
Si renderà conto presto che non può farcela e senza prendersela metterà le cuffie nelle orecchie.
Poi alla fermata degli operai cambieranno i cartelli.
Remo penserà che qua rinnovino sempre tutto. L’autobus si arresterà un po’ prima e un motorino inopinato lo supererà a destra – nemmeno fossimo in Italia – mentre la donna bassa scende.
La corsa si interromperà per circa sei minuti, il tempo sufficiente per poter dire che non sei rimasto indifferente.
Un signore eletto a Dio notificherà che non c’è più niente da fare.
E l’autobus ripartirà.

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di Daniele Israelachvili

illustrazione di Anastasia Coppola

La rubrica di Daria Giacomelli

Ora basta! Dopo aver letto l’ennesimo articolo green contro le auto brutte e cattive, non ce l’ho più fatta. Sì, è vero che non si trova mai un parcheggio, che le auto inquinano e che si potrebbe risparmiare; sono tutte argomentazioni giuste e razionali, ma sono sempre le stesse ormai da decenni. È come dire che un bambino costa moltissimo, limita i rapporti sociali, e causa divorzi che neanche se aprissimo la porta di casa e trovassimo Jason Momoa a torso nudo sarebbero così lampo, eppure continuiamo a procreare.
Perché? Semplice, non siamo animali razionali.
Così ecco a voi 5 validi motivi per usare l’auto al posto dei mezzi pubblici:

UNO

Forse qualcuno vive ancora come Unabomber in mezzo ai boschi, e la notizia non gli è giunta, ma ehilà, c’è una pandemia là fuori. E come se non bastasse avete una vaga idea del quantitativo di germi che si trova abitualmente sui treni, autobus e metropolitane, soprattutto nei momenti di massimo affollamento? Solo con la tuta spaziale, e in assenza di gravità, potrebbero convincermi a salirci sopra. Anche se rimarrebbe comunque il problema della messa in piega sotto il casco.

DUE

Non so voi, ma a me piace ascoltare la radio alla mattina.
Ne ho bisogno.
Lo faccio da quando, con i miei primi risparmi, mi sono finalmente comprata l’auto. È vero che potrei farlo anche sui mezzi pubblici, ma dovrei sempre mettermi le cuffie. Un’ora ad andare e una a tornare, tutti i giorni lavorativi dell’anno. Non sono brava in matematica ma a spanne, visto quando hanno intenzione di mandarci in pensione, viene fuori un numero molto grande. Avete un’idea di quanto facciano male le cuffie? Io sì, perché mio marito è un otorinolaringoiatra e per lui le cuffie sono l’equivalente della Coca Cola per un dietologo.
Onde zuccherate sparate nelle orecchie.

TRE

Al lavoro sono circondata da persone.
A casa ho due figli e un marito che mi stanno sempre a chiedere qualcosa.
E anche il momento del bagno caldo con candele profumate è stato sostituito negli ultimi anni da una doccia tiepida, tra quando i bimbi fanno colazione, ancora assonnati, e le prime grida di lotta dopo aver ingerito qualcosa. Così il viaggio in auto è l’unico momento solo mio in cui, dopo averli portati a scuola, posso truccarmi al semaforo, spettegolare con un’amica e se voglio, al ritorno, persino urlare ai miei figli in santa pace, per sgridarli o anche solo per sfogare su di loro le mie frustrazioni al lavoro. Senza sentirmi addosso gli sguardi accusatori di gente estranea.

QUATTRO

Voglio anche tentare di affrontare uno degli aspetti più smaccatamente a favore dei mezzi pubblici, quello dell’inquinamento.
Non c’è ombra di dubbio che un’auto inquini. Però quanti progressi sono stati fatti negli ultimi anni, grazie all’avanzamento tecnologico, permettendoci di produrre auto che consumano (e inquinano) molto meno? Immaginiamo per un momento che sempre più persone decidano di non acquistarla e di usare esclusivamente i mezzi pubblici. Il mercato diventerebbe meno appetibile e le case automobilistiche si troverebbero costrette, come minimo, a dimezzare gli investimenti in ricerca e sviluppo. Invece più auto girano, maggiori soldi entrano nelle casse delle case automobilistiche e maggiori investimenti saranno costretti a fare per produrre auto che abbiano un sempre minore impatto ambientale, mitigando così i sensi di colpa dei potenziali clienti. Forse, un giorno, è proprio grazie a gente come me, se le auto andranno ad acqua piovana. Adesso immagino che molte di voi stiano storcendo il naso ritenendolo un ragionamento un po’ azzardato e anche fuori dalla portata di una che di solito scrive frivolezze. Ma basta cambiare i termini ed eccovi accontentate. Facciamo il caso che improvvisamente le donne comincino a partorire 1 bambino ogni 499 bambine e che questo rapporto si protragga nel tempo. Secondo voi tra cinquant’anni qualcuno inviterà ancora una ragazza a cena fuori, passandola a prendere, dopo essersi fatto una doccia per l’occasione, o se ne starà invece bello comodo, in mutande, a finire di vedere la partita, mentre alla suddetta ragazza toccherà starsene in fila fuori dalla porta, in attesa che il suo numero compaia sul pannello luminoso?

PUNTO BONUS

Non è proprio un valido motivo, essendo molto personale, ed è per questo che non ho voluto inserirlo nell’elenco. Me ne vergogno anche un po’. Devo confessarvi che vado matta per l’odore della benzina. A volte, anche se non sono neanche lontanamente in riserva, faccio 10 euro e mi rannicchio a terra con la pompa in mano e gli occhi chiusi. In un attimo sono di nuovo bambina, accanto a me le mie sorelle ridono e giocano, sfiorando con le loro esili dita il palloncino appena fatto, mentre io sniffo avidamente un tubetto di Crystal ball. Il profumo del tempo perduto, la mia madeleine.

CINQUE

Ho lasciato per ultimo un motivo sicuramente non probabile, ma comunque possibile viste le cose strane che si vedono al giorno d’oggi (chi di voi, alzi la mano, avrebbe mai detto che le Birkenstock sarebbero diventate un articolo di moda?!).
Mettiamo il caso che un giorno, mentre sono in auto che porto i bambini a scuola, interrompano la mia trasmissione preferita per un’edizione straordinaria: a causa di un errore informatico entro mezz’ora una bomba verrà sganciata sulla città. In auto potrei fare subito inversione di marcia, dirigermi verso l’autostrada e, prima che la gente sugli autobus abbia il tempo di capire quale uscita usare, la mia famiglia sarebbe in salvo. A parte mio marito che, avendo lo studio in pieno centro, non farei in tempo a raggiungere e sarebbe costretto ad arrangiarsi, scappando via con il suo monopattino elettrico da fighetto, mentre si maledice per non avermi dato retta comprando la seconda auto.

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di Giulio Iovine

Illustrazioni di Ponzzz e Anastasia Coppola

Era uno di quegli autobus vecchi, vecchissimi, che non capisci come abbiano fatto a rimanere in servizio fino ad oggi, che abbiamo quelle astronavi a fisarmonica attaccate ai fili elettrici come balenotti alle loro mamme.
Era in ghisa, con la vernice gialla sbreccata, i cerchioni delle ruote coperti di polvere grigia, l’odore di nafta e di pelle umana, il vibrato possente dell’intelaiatura. Il gradino per arrivare dal marciapiede alle poltrone avrebbe stroncato più di un anziano.
Io me la cavai con lo stacco di gamba di cui, a quindici anni, cominciavo ad essere abbastanza disperato da potermi vantare.

Eppure Annachiara aveva detto che sì, potevo andare a studiare a casa sua! Annachiara portava sempre la salopette di jeans e questi maglioni amorfi, pieni del suo seno. Volevo dormirci in mezzo.
M’immaginavo il profumo.
Mentre l’autobus sputava, ringhiava e partiva, io continuavo a pensare a dormire abbracciato a lei nuda, ma in adorazione, senza offenderla con goffe richieste fisiche.

Per arrivare a casa sua ci sarebbe voluta almeno una mezz’ora.
Fissavo i giardini attorno alle case, la strada che si alzava, il cemento rotto dalle radici e dalle erbe. Era primo pomeriggio e non eravamo tantissimi a bordo. Nessuno che conoscessi, una mamma con due bambini, quattro o cinque vecchietti di sesso incerto, forse qualche coetaneo, uno zaino abbandonato su una sedia di pelle.
Lì per lì non capii perché appena prendevamo un rettilineo, l’autista accelerasse come se avesse il diavolo alle spalle.
Distratto come sempre, solo troppo tardi mi accorsi che eravamo usciti prima dalla città, poi dalla strada, poi dal sentiero, e insomma arrancavamo su una collina piantata a olivi. Cominciavano a venir fuori i primi sussulti di panico:

«Ma dove stiamo andando».
«Autista, scusi».
«Ehi».
«Si fermi, che cazzo fa».

Battevano coi pugni sul gabbiotto.
Ma era chiuso.
L’autista brandiva il volante con destrezza. Non rispondeva alle urla.

«Non prende il cellulare».
«Dove siamo?».
«Un sequestro?».
«Ma perché noi?».
«Ho paura».
«Cos’è questa luce?».

In effetti cominciavamo a non riconoscere più gli oggetti al di fuori dei finestrini. Gli alberi, i solchi della terra, le colline in lontananza, si fondevano con la luce e il cielo e si sformavano e riformavano e si scioglievano, i boschi montagne, le montagne mari, i mari deserti, i deserti paludi; il sole e la luna giravano in tondo nel cielo in preda a un furore quasi copulatorio, su e giù su e giù su e giù.
Tutta l’intelaiatura di ghisa tremava e il motore mandava un rombo sbrindellato. Mi acquattai tra sedile e sedile e mi strinsi allo zaino. Cominciai ad avere gli occhi lucidi. Avevo detto ad Annachiara le quattro, quattro e mezza.
E ora?

Ci fermammo: il conducente gridò CAPOLINEA SI SCENDE.
Io non mi alzai, rimasi immobile nel mio buco.
Perché, direte voi.
Ma perché avevo più o meno capito che non eravamo alla fermata Don Sturzo del 55 collinare. E poi perché non si poteva veramente scendere, il conducente era ironico. Nessuno stava scendendo, erano tutti terrorizzati e incollati ai loro sedili mentre dalle portiere salivano uno, due, dieci…
cosi.

di Anastasia Coppola

I cosi non erano molto alti, avevano la pelle liscia e azzurra, non un pelo né un capello, nessun naso visibile e nessuna palpebra, e credo nessuna bocca.
Avevano solo gli occhi, che coprivano ciascuno mezza testa.
Non ero sicurissimo sul numero delle braccia, frenetiche come zampe di una scolopendra.

Il conducente parlava, evidentemente con loro.
Loro lo guardavano senza rispondere.
O forse rispondevano senza parlare.

«…almeno trenta – finiva di dire il conducente – di tutte le età. Ci sono alcuni anziani, ma pochi. Il viaggio nessun problema, quattrocento milioni di anni in due minuti e mezzo. No, prima di così è impossibile. Non ci sarebbe abbastanza ossigeno nell’atmosfera. Non ci sono abbastanza piante sulla terraferma, prima di questo periodo. Ma certo che potete portarli fuori. Da qui in avanti di aria ce n’è. È prima che…ok, ve lo spiego di nuovo».

O non erano sveglissimi, o avevano qualche problema con la lingua che parlava lui.

«Bè, perfettamente sani non lo so, valuterete poi voi. Lasciate perdere gli anziani, fatene concime subito e chissenefrega. Piuttosto, quando verrò pagato?»

Uno dei cosi fece un gesto spazientito.
Al conducente esplose la testa, col suono di quando stappi un cartone di vino. La testa atterrò in mezzo alle due file dei sedili, proprio davanti a dove mi ero nascosto.
Mio malgrado, ci scambiammo uno sguardo complice. Il conducente rimase in piedi, decapitato, a muovere le braccia. Poi cadde con un tonfo.

I cosi cominciarono ad agguantare i passeggeri urlanti, e a buttarli fuori dall’autobus a calci e pugni. Le madri gridavano, i bambini piangevano. Un anziano fu trascinato di peso. Io rimasi immobile per un’eternità.
Infine ci fu silenzio abbastanza perché uscissi dal mio pertugio, e mi sedessi sul sedile dell’autobus abbandonato.

Quello che vidi fuori dai finestrini mi parve contemporaneamente una cosa mai vista prima, e – per via di qualche dettaglio – orribilmente familiare. Tirai fuori dallo zaino il libro di scienze, lo aprii sulle ere geologiche.
A pagina 326 c’era una figura che riproduceva un ipotetico paesaggio del Siluriano.
Cominciai ad andare con gli occhi dalla figura al paesaggio fuori dai finestrini, e in effetti tornava tutto. Lì c’era un fiume e intorno una specie di acquitrino. Come nel libro.
Tutto il terreno era cosparso da queste piante vascolari, alte meno di un metro, briofite, tracheofite, felci primitive, colorate in duecento tonalità diverse di verde vomito. Quello che camminava sotto la felce a occhio e croce era un millepiedi primitivo. A dieci metri dall’acquitrino le piante sparivano e una distesa di roccia nuda andava fino all’orizzonte: montagne bianche come panna, una bella giornata senza nuvole.
Ero in un autobus fermo non so dove, quattrocento milioni di anni prima di quando ero partito.

Mi alzai.
Il sole radente, di primo mattino, attraversava l’autobus da parte a parte.
Mi sedetti al volante.
So guidare un pochino, m’insegna nonno tutte le estati sul trattore.
Allora, i pedali ci sono, il cambio è questo, il volante c’è…c’era anche un mazzo di chiavi ancora inserite.
Pigiai la frizione e le girai.
Lo scassone si accese traballando e mugghiando.
Mollai delicatamente la frizione, toccando appena l’acceleratore, e via, in giro per l’acquitrino, spiaccicando non so quanti miriapodi.
Aprii il finestrino: sentivo caldo.
Mi arrivò l’odore della terra umida e il marcio del muschio.

Fu lì che cominciai ad urlare.

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di Stefania Coco Scalisi

illustrazione di Egle Pellegrini

Uscito dalla stazione dei treni mai si sarebbe immaginato di ritrovarsi in mezzo a quella bufera di neve.
Eppure, i meteorologi l’avevano detto: in arrivo quest’autunno una perturbazione polare di grandi proporzioni, una cosa mai vista, insomma. Non avevano proprio detto così ma l’avevano lasciato intendere.
Tutti l’avevano presa come un altro strano fenomeno di quello stranissimo anno, e sulla preoccupazione per quello che avrebbe potuto comportare per la vita quotidiana, prevalse la curiosità di vedere quanto ancora sarebbero riusciti a sopportare.

Persi tra meme e battute sulla sfiga che si era abbattuta da quel 1° gennaio 2020, nessuno, insomma, aveva davvero capito la portata di quell’evento. Così, complice la temperatura anestetizzante dei vagoni e lo spettacolo desolante delle gallerie, fu davvero una sorpresa inaspettata quella coltre bianca sopra la città. Muta e infreddolita, la gente attorno lui correva qua e là, come impazzita, presa dalla frenesia di raggiungere un riparo.
Lui che di solito percorreva quei 2 chilometri scarsi fino a casa a piedi, si ritrovò pervaso dalla stessa ansia di mettersi al coperto, per cui, invece di imboccare la solita strada, si precipitò verso un autobus che lo avrebbe condotto proprio sotto il suo portone senza dover temere di morire di freddo.

Una volta sul bus, l’aria tiepida dei riscaldamenti mischiata al tepore della gente a bordo, fu la conferma che aveva fatto la scelta giusta.
Si accomodò accanto a un finestrino libero e si mise a contemplare lo spettacolo delle auto incolonnate sotto la neve che continuava a fioccare davanti ai vetri.
Le auto sembravano quasi un presepe, rosse, gialle e luminose.
Ma soprattutto immobili.
Come le statuette dei pastori fermi a contemplare la natività, anche loro restarono fissi ad ammirare quello strano spettacolo della natura. Dopo qualche insistenza, l’autista esperto riuscì a divincolarsi dall’ingorgo e partì.

«Speriamo di farcela ad arrivare a casa in tempo», disse all’improvviso un passeggero seduto proprio dietro di lui.
«In che senso?», chiese voltandosi.
«Beh, non lo sa che oggi è entrato in vigore il coprifuoco? Dalle 22 niente più mobilità, tutti fermi a casa».
«Vabbè ma mica possiamo restare così, in mezzo alla strada. Il bus finirà il suo giro!».
«Ma no guardi che questo è l’ultima corsa del giorno. Anche i mezzi pubblici devono adeguarsi, hanno cambiato tutti gli orari. L’hanno pure detto al telegiornale, sa?»

Perplesso, si girò.
Certo che quel tizio era proprio scemo, credere che tutto il paese si bloccasse come stessimo giocando ad un’enorme partita di un due tre stella. Rassicurato da quel pensiero, tornò a guardare la strada.
L’autobus, seppure lentamente, procedeva.
Non si fermò quasi mai, solo una volta per far salire un ciccione che con fatica si schiantò a sedere, sudando come fosse piena estate.

Mancavano solo due fermate da casa, che di nuovo ci si bloccò.
Un motociclista stava ferocemente litigando con il conducente di una macchina che aveva sfiorato nel tentativo di superarlo. L’autista, infastidito dall’intralcio, iniziò a suonare selvaggiamente per far spostare quei due. Tra le urla dei litiganti e il clacson del bus, passarono i minuti, ma nessuno sembrava voler fare qualcosa.
Senza rendersene conto, gli occhi si posarono sull’enorme orologio a led appeso sopra la testa del conducente: le 21.54.
In teoria se fosse stato vero quello quanto detto dall’altro passeggero, aveva circa 6 minuti per riuscire a rientrare.
Senza capire perché, inizio ad agitarsi.
Prese a fare gestacci ai due per la strada picchiando selvaggiamente sul polso, li dove c’era l’orologio. Quelli, quasi alle mani, sembrarono capire immediatamente, e, come spinti da una forza esterna, salirono sui propri mezzi e filarono via.
La loro fretta gli mise addosso ancora più inquietudine.
L’autobus riprese la corsa: 21.56. Se tutto filava liscio, ce l’avrebbe fatta. Ma perché credeva a quell’assurdità? Continuava a ripeterselo, mentre le lancette scorrevano.
Alle 21.58, l’autobus imboccò il viale dove si trovava il suo appartamento. 21.59: vedeva quasi casa, era a giusto due isolati da li.

22.00: l’autobus si fermò.

«Mi dispiace signori, ma ci fermiamo qui!»
Poco male, pensò, era praticamente arrivato.
Si alzò, prese le sue cose e si diresse verso le porte d’uscita.
«Dove va, mi scusi?».
«Sono arrivato, se apre faccio gli ultimi metri a piedi, grazie».
«No, mi dispiace. C’è il coprifuoco, non posso aprirle».
«Sta scherzando, vero? Mi faccia scendere immediatamente! Altrimenti chiamo la polizia, è sequestro di persona».
«Chiami chi vuole! Io ho disposizioni chiare: alle 22 fermo tutto. Se la faccio scendere, lei viola il coprifuoco e la colpa sarà anche mia».

Si girò di scatto verso gli altri passeggeri: tutti erano d’accordo con l’autista. «Ha ragione lui!» o ancora, «Colpa nostra che abbiamo fatto tardi!», furono le cose che sentì ritornando a sedere.

Gli sembrava tutto così surreale, che non riuscì più a dire nulla.
Vide l’autista prendere una copertina dal cruscotto e reclinare il sedile. La gente attorno a lui iniziava a chiamare casa per avvisare che non sarebbero tornati prima delle 6 del mattino. A un certo punto un passeggero disse:

«Se vi va possiamo metterci a coppie così da scaldarci, giuro che non ho cattive intenzioni!», ma mentre lo diceva guardò l’unica ragazza a bordo che, schifata, distolse subito lo sguardo.

Lui invece guardò il ciccione: era sudato sì, ma con tutto quel grasso lo poteva davvero tenere al caldo. Stava per andare a fargli quella proposta indecente, quando l’autista tuonò:

«Siete pazzi! E il distanziamento sociale? Ritornate subito ai vostri posti, nessuno si tocchi!».
Nessuno lo fece, aveva ragione l’autista.
Tutti tornarono a sedere.

Guardò l’orologio: le 22.07.
Di sicuro a quel punto sarebbe già stato a casa, vicino ai termosifoni caldi, con le pantofole ai piedi.
Con quell’ultima immagine in mente, si voltò di nuovo verso il finestrino.

La neve continuava a cadere, rendendo tutto perfettamente immobile.

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di Mariangela Romanisio

illustrazione di Anastasia Coppola

Sono il sessantatré, faccio sempre lo stesso percorso, guidato dal solito autista che non mi strapazza troppo e mi dà quello che mi serve per andare avanti. Però mi annoierei, se non fosse per la varia umanità che mi usa e mi calpesta quotidianamente, o mi verga i sedili con scritte ironiche, tipo: “Quanta fretta, ma dove corri, dove vai?…” o con altre non dirette a me.

Sì, sono guidato, ma il lavoro più pesante lo svolgo io, a piano carico.

Non sono mai stato un autobus con la spocchia, io ricevo tutti quelli che vogliono salire, agevolando (sono predisposto) anche gli invalidi e i portatori di handicap, ma certi personaggi mi stanno sulle sospensioni più di altri.

Come quel giovinastro, oggi, che mi guardava in lungo e in largo col labbro schifato e il naso arricciato, di certo pensando di stare su un mezzo inadeguato a trasportare la sua persona. Mentre era lui ad umiliare me, un autobus militante dalla gran carriera, dal motore rodato, che ha trasportato centinaia, ma che dico centinaia, migliaia di persone in salvo da un capo all’altra della città, e spesso a sbafo. Non sono io a puzzare di mio, è gente come lui che mi fa puzzare!

Lui, col suo collo da giraffa bonsai, un cappello con un residuo filamentoso di nastro argentato da uovo di Pasqua, l’aria da borioso tracotante, il tipo di passeggero che non si fa da parte quando chiunque altro si accorgerebbe di dover lasciare un corridoio sulla piattaforma per l’altrui discesa.
Lui, il tipo di passeggero che si fionda sull’unico posto libero, senza fare circolare lo sguardo in cerca di un anziano, una donna incinta, cui il sedile spetterebbe per consuetudine civile.

Sono stato contento per lo strattone datogli da quell’altro nell’occasione di una fermata affollata, proprio mentre l’autista (che combinazione efficace) mi frenava di colpo, così all’arrogante gli si è staccato anche un bottone del soprabito. Ben gli stava!
Come il mio gas di scappamento addosso, quando è sceso, mentre mi girava dietro per attraversare la strada.

Mi piace percorrere il Viale dei tigli, con le fronde che mi accarezzano le fiancate, è una gradevole sensazione.

Lì l’ho rivisto, stasera, nei pressi di un bar, quel collo da giraffa bonsai col gozzo in evidenza, mentre stava con un altro che lo fissava con uno sguardo obliquo, lui e il suo soprabito stazzonato e strattonato, blaterando di sicuro per recriminazioni del suo quotidiano rapportarsi al prossimo.

È capitato a proposito centrare in velocità con una gomma la pozzanghera che gli ha schizzato una scarpa: quello ha emesso un verso sguaiato e mi ha gridato dietro, anche se non mi ha riconosciuto.

So di essere meglio di lui:  c’è più vento di boria in lui che aria nelle mie gomme, di sicuro, che non sono a terra.
Io sono un mezzo di trasporto al servizio altrui, lui è un mezzo uomo che serve solo al trasporto della sua vana tracotanza fra l’altrui deprecazione.

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di Marco Di Travertino

Illustrazione di Stefania Brandini

Quella specie di tartaruga è un uomo: intabarrato nel pastrano stinto in un alba che potrebbe esser livida, ma è il mondo reale e, quindi, un’alba di merda.
Esita nell’atrio del casermone scrostato, fatto apposta coi piedi per farti sentire inferiore. Il chiarore fuori è un riverbero grigio tra le pozze fangose increspate da pioviggine e vento, spasmi terminali di una notte squassata dalla tempesta.

Le sette meno un quarto: l’ora del raccapriccio.
Strattona il cancello e si lascia investire dalla tramontata.
Quel po’ di stufelettrica-moka-carezzalgatto, disperso in un attimo.
La tartaruga incassa le gocce, rabbrividisce e allunga il passo.
Va a lavoro coi mezzi, che non passano o sono in sciopero, zeppi di carne o prendono fuoco. Ci sarebbe da ridere ma è lunedì.
La sera ha bevuto e mancano otto mesi alle ferie.
La tartaruga si sente truffata e stanca.
Un inizio giornata tragico. Anche eroico, però: il lavoratore che soffre a testa alta… Un eroe proletario!
Bell’eroe del cazzo, pensa la tartaruga, che tra mutuo, alimenti e spese varie non può mandare tutto a puttane.

Da quando ha lasciato la patente in mano a un appuntato – guida in stato di ebbrezza – ha bisogno ogni giorno di una metro e due bus.
L’attesa del primo è febbrile, non ci si abitua mai. Al momento giusto guadagna un buco senza troppi complimenti nel marasma umido: cappotti impregnati di fritto, ombrelli, zainetti cenciosi, adipe, membra, respiro.
La tartaruga non riesce a timbrare il biglietto e se ne cruccia.
La forza dell’abitudine.
Se ne guarda bene il controllore dal mischiarsi a cotanta canaglia…
È al bar, mastica una bomba alla crema. Lo zucchero gli atterra sul golfino alla faccia di quel quarantotto di monossido di carbonio, cipolla-sudore e alitosi impiegatizie al cappuccino-cornetto.

Il traffico? Un patimento.
Si striscia lungo la dolorosa arteria di periferia, un tempo industriale. Fracasso persistente di clacson punteggiato di cordiali vaffanculo.
Un fiaterello di operai, alcol stantio, si incunea nell’aria già di per sé vivace. Sciami di motorini zigzagano tra le vetture ferme, il medio dal finestrino è quasi un “baci ai pupi”. L’orologio non fa sconti.
La tartaruga reprime una loffa.
«Se avessi il teletrasporto – pensa – sarei ancora a letto. Farei la doccia solo qualche minuto prima di arrivare a lavoro fresco e pulito, in orario. Ma se avessi il teletrasporto, avrei bisogno di lavorare?».

Il metrò: l’ingresso è una bocca sdentata in cima alla salita.
Mandrie intere, armenti ferrigni giù per le scale sdrucciolevoli per la fanghiglia. Si lotta per guadagnare terreno.
Un ragazzotto in pettorina spinge in mano alla gente un “notiziario” gratuito: monnezza, propaganda, merda. La tartaruga ha fretta, lo maledice gettando l’almanacco com’è verso un bidone.
Manca il bersaglio, le pagine tutte per terra e neanche un minuto per raccoglierle. Un colpo al suo senso civico.
Tre raccapriccianti fermate: porte che frollano arti, asfissia generale, gomiti in testa, per aria, nel culo. Due ragazzine commentano il fatto del giorno: un tizio ha sparato alla moglie davanti alla figlia, ha sparato alla figlia davanti al cane, poi s’è sparato.
Non bisogna far male agli animali, pensa la tartaruga.

«SAN GIOVANNI», gracchia l’altoparlante.
Una marea solo vagamente umana, partecipe della stessa convulsione si riversa all’allungo finale: il bus delle sette e trequarti, ultimo possibile per l’altra parte del mondo.
La tartaruga corre e ridacchia: assurdo che esistano corse delle otto meno un quarto da “prendere o lasciare”, ritardi, contestazioni disciplinari e lavori da sciacquatazzine.
Ride come un cretino e corre: mica è semplice farlo assieme.
Il ragazzo ha talento ma viene bloccato da un semaforo.
Il “ragazzo”, non il talento: quello è pietrificato da tante cose.
Depressione, pigrizia, un discreto alcolismo, autostima zero fin dalla culla e quasi quarant’anni di sfiducia nel prossimo. Flusso infernale di macchine e il rosso più lungo dell’universo. Tre minuti più preziosi dell’acqua persi per sempre, la lancetta lunga in fuga sull’orologio del Laterano e le gambe a friggere. Le automobili continuano a sfrecciare…
Il 714, Dio Cristo, l’autobus!
Miseria impotente.
Quel serpentone verde, quella cazzo di fiera dell’est che ci mette venti minuti per fare tre metri, stamani inforca la curva sciolto come una ballerina russa! La tartaruga realizza, s’arrende, lo dice ad alta voce perché trova giusto assaporarne il peso esistenziale: Sono In Ritardo.
Il transito è ancora impedito. Un leggero tamponamento ha l’effetto d’ingigantire l’ingorgo.

Fuoristrada manovrano per rubacchiare mezzo metro di strisce pedonali.
Il frastuono è ovunque. Assoluto filosofico: clacson come urla di strazio. Ominidi in piena escandescenza a rantolare tricchetracche di madonne dietro a finestrini appannati, capacissimi di ammazzarsi a vicenda.
Ma ecco il pezzo forte: un vigile urbano tutto marziale, maschio latore del nerbo quirite, farsi largo come un centurione tra SUV e berline per fischiare contro tutti e nessuno, gesticolando come il Direttore Maligno dell’Orchestra dell’Indistricabile.
Fa casino anche peggio!
La mischia appiedata ondeggia su e giù dal marciapiede decisa a saltargli alla gola, a quel pezzo di merda frapposto tra la luce verde e l’altra sponda selvaggia…
Scatta l’arancione, è troppo!
Esonda, lo lascia ecce homo al pizzardone: culo a terra e ben gli sta! Il nostro è nel mucchio, ma il mezzo è già oltre.
Inutile pure affacciarsi alla traversa: perso quello persi tutti.

 Il taxi lo scarica a qualche metro dal bar.
Venti euro per incassarne quaranta e un quarto d’ora di ritardo.
«Alla buonora!», sibila la cassiera dall’alto del suo sgabello. Quel paio di metri.
Insulti soffocati dalla porta della cucina.
Il capo è già all’opera. La tartaruga afferra il caffè che un qualche collega gli lancia sul banco e lo butta giù incendiandosi lingua, esofago e budella: sofferenza sorda che è innesco a curvare la schiena e sgobbare anche oggi.

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di Alessandro Mambelli

Illustrazioni di Simona Settembre e Anastasia Coppola

“Ci aspettiamo tutti più di quel che c’è.”
Charles Bukowski, “Il grande

“Non ricordo più, ma sono sicuro di avere amato una donna indimenticabile.”
Stefano Benni, “Pantera

La nebbia avvolge la stazione come un asciugamano il viso di un uomo seduto su una vecchia poltrona scheggiata nel salone di un triste barbiere di paese e le luci sui binari assomigliano alle lampade fredde al neon sopra lo specchio che tolgono ogni gentilezza al negozio.

La gente cammina su e giù per l’enorme atrio, attraverso le porte a vetri delle biglietterie. Le teste abbassate tracciano i pensieri nelle fughe delle mattonelle e nei rilievi gialli e blu per i non vedenti e per i carrellini degli addetti. Qualcuno ogni tanto alza la testa per leggere le scritte arancioni delle partenze e per accertarsi che il suo treno arrivi ancora al solito binario.

Nell’angolo buio fra l’atrio e l’edicola, una vecchia chiede qualche spicciolo per comprarsi un caffè; poco lontano una donna coi capelli corti ammicca ai passanti promettendo voluttà che non può mantenere.
Sul binario 1, uomini in cappotti lunghissimi e senza pieghe camminano spediti per prendere l’Intercity della notte, maledicendo le riunioni di lavoro in altre città.
Uno di questi è probabilmente un medico, perché sta spiegando al suo smartphone che quando siamo gastrule si forma prima l’ano e poi la bocca:
– No, no, gastrule… sì… no, non siamo montati al contrario.

Al binario 2 il treno arriva in ritardo di venti minuti; alcuni bambini sbuffano perché sono stanchi e hanno freddo; il capotreno scende come un eroe di guerra, sudato e afflitto; un uomo tutto sporco e sciancato si
avvicina brandendo l’indice e chiede:

– Va a Venezia questo?
– Sì.
e poi sale senza biglietto.

Seduti su una panchina, posizionata senza motivo fra un negozio di intimo e uno di vestiti, due amici discutono animatamente di qualche storia d’amore finita:

L’amore è effervescente, sai?
– Cosa?
– Hai mai provato a scioglierlo in un bicchiere d’acqua?
– …
– Fidati di me, ascolta Renato Zero.

Mentre parlano una ragazza bionda e bellissima passa loro davanti dondolando come una di quelle bamboline hawaiane sui cruscotti delle auto, ma nessuno dei due amici riesce a stabilire chi si è innamorato
prima e così la guardano sfilare via per sempre dalle loro vite ancorate alla panchina.

La stazione continua a vorticare intorno ai rappresentati, agli studenti pendolari, agli spazzini, alle commesse dei negozi, all’uomo col caffè americano appoggiato contro la parete del bar, alle amiche che vanno a fare shopping, ai vecchi barboni che ciondolano senza meta al binario 3, agli occhi di Vanessa che aspetta il regionale per Piacenza, ai gelati spiaccicati e sciolti sulla banchina del 4, al binario 5 che non è mai esistito,
ai treni ad alta velocità che transitano al 7, portando con loro cartacce volanti e teste di centinaia di persone mentre il tempo scorre scandito dalle partenze e dagli arrivi.

Un elettricista cambia un led nel corridoio sotterraneo davanti all’ingresso per gli ultimi binari; un inserviente svuota i cestini dentro un enorme sacco nero; un agente della sicurezza dà indicazioni a due turisti.
Al binario 8 una ragazza seduta sul suo zaino ripassa una qualche materia fitta di appunti mentre poco più in là, anche lei assorta, un’altra ragazza legge qualche libro di cui nasconde la copertina con una mano.

Il binario 6 è gremito di persone: alcuni, troppo impazienti, si affacciano oltre la linea gialla sperando di veder arrivare il treno; altri si distraggono col telefonino, giocando o messaggiando con chissà chi e ridendo di nascosto per non sembrare stupidi; gli ultimi, i più soli, si guardano i piedi tenendo le mani in tasca, avvolte in pesanti guanti di cotone termico.

illustrazione di Anastasia Coppola
Illustrazione di Anastasia Coppola

Il treno arriva e i viaggiatori tornano a casa dopo una giornata di lavoro, di studio o di svago; la gente sulla banchina all’improvviso comincia a spingere e a strattonare quelli davanti, tutti speranzosi di riuscire a trovare un posto a sedere: non vicino a quelli che puzzano, però, per favore, non vicino a loro e neanche a quelli che stendono le gambe o allargano i gomiti, per favore, loro no, e neanche in piedi o in mezzo al corridoio…

Fra la gente che scende e che sale c’è chi va, chi torna e chi rimane sospeso fra l’atrio e i binari senza decidersi mai.
Ogni persona che riempie lo spazio-tempo della stazione ha la sua storia, e quelle più interessanti hanno quasi sempre due protagonisti: due amici, un genitore con il figlio che parte, due amanti che si baciano.
Le più storie più brutte, invece, sono quelle in cui lei lo lascia salendo sul treno e sparisce oltre le porte scorrevoli, immergendosi nell’appiccicume dei regionali veloci mentre lui rimane fermo in piedi sul binario come una statua o come quei vecchi barboni che non possono permettersi un biglietto, e la guarda sparire insieme al treno finché il treno non viene mangiato dalla notte e chi li vede pensa a cosa farà lui quella sera ora che è solo, se guarderà un film o un varietà alla televisione o se magari andrà a letto presto, e poi si chiede cosa facciano in generale gli amanti abbandonati per ingannare il tempo.

Il binario 6
illustrazione di Anastasia Coppola

Quando arrivo al binario 6 il treno è ormai partito e io l’ho perso per poco.
Sulla banchina non c’è già più nessuno e così mi siedo su una di quelle freddissime sedie di metallo finalmente libere per aspettare il treno successivo pensando alla vecchia, ai tabelloni, alla bionda, agli elettricisti, ai caffè, agli occhi di Vanessa, alla polvere, alle mani di una donna passata velocemente e agli amanti non amati che forse sono già tornati a casa.

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di Luca G. Manenti

Illustrazione di Liliana Brucato

«Tipo costruttivo dotato di estese funzionalità sonore, motorizzazione con massa volanica e cerchiature di aderenza. Deflettori negli ingressi all’estremità della vettura. Colorazione in blu oceano con righe zigzaganti d’oro puntinate d’argento. Due fanali di coda rossi commutati in modo digitale. Illuminazione garantita da diodi esenti da manutenzione a luce bianca calda. Pantografo monobraccio e carrello anteriore con vomeri scaccia sassi. Telaio del rodiggio finemente dettagliato. Respingenti in esecuzione incurvata e piatta».

Leggere nel catalogo da collezione “Materiale rotabile” la descrizione minuziosa del treno perfettamente riprodotto su cui era seduto, gli dava un piacere al cubo, impossibile da comprendere per i profani del ferromodellismo.
Il mezzo che lo stava trasportando era stato concepito a partire da una miniatura dedotta, a sua volta, dal veicolo originario, di cui erano andati perduti esemplari e progetti ingegneristici.
I complementi d’arredo ben definiti, le poltrone rivestite di pelle in tinta caffellatte con schienale reclinabile, i divisori in cristallo, le cappelliere, i portabagagli, l’insieme armonioso e opportunamente disposto, insomma, della carrozza, gli provocava, man mano che si rendeva conto del grado di fedeltà esibito (da intendere, dunque, così: fedeltà a un formato in scala ridotta fedele a un archetipo reale che, se davvero tali le fedeltà, era identico al convoglio in movimento calcato sulla maquette, e così via), una sensazione di goduria quasi sessuale.

Dal finestrino scorrevano immagini che avrebbero potuto essere di un diorama.
Nulla mancava: l’erba verde brillante, i passeggeri in attesa sotto la pensilina, il ponte ad archi in mattoni, la galleria che forava il monte, la casa cantoniera, la torre dell’acqua, il villaggio con la locanda e la chiesa, l’edificio del casellante.
Trascorsi due minuti, ancora: l’erba verde brillante, i passeggeri in attesa sotto la pensilina, il ponte ad archi in mattoni, la galleria che forava il monte, la casa cantoniera, la torre dell’acqua, il villaggio con la locanda e la chiesa, l’edificio del casellante. Dopo centoventi secondi, da capo: la medesima erba, i medesimi passeggeri, e poi il ponte, la galleria, la casa, la torre, il villaggio, la locanda, la chiesa, l’edificio: tutto era uguale a prima.

Il «tipo costruttivo dotato di estese funzionalità sonore, motorizzazione con massa volanica e cerchiature di aderenza» proseguiva con ritmo monotono, indefettibile, accompagnato da un lungo e sottile ronzio, senza mai fermarsi alla stazione, scivolando dinnanzi alle figure immobili degli aspiranti viaggiatori che pazientavano invano, muti, con i piedi saldamente incollati alla banchina.

Si guardò attorno, accorgendosi d’essere l’unica presenza nel vagone. Sebbene ordinato, pulito, razionale, l’ambiente appariva, a uno sguardo più attento, stranamente artefatto, come di plastica. Toccò il sedile, i braccioli, le paratie: plastica. Il tavolino, l’appendiabiti, il poggiatesta: plastica.
Deluso, si chiese se perlomeno la scocca fosse in metallo.

Posò gli occhi sulla pagina della rivista, scorgendo nella foto, al di là del vetro della locomotiva artisticamente ritoccata per renderla più simile al prototipo, la cui impeccabile imitazione, ricavata da una copia di piccole dimensioni, stava ripassando, in quell’esatto momento, sul ponte ad archi in mattoni, un viso conosciuto. Il suo.

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di Matteuccia Francisci

Dobbiamo cambiare, lo so.
Ancora un’altra volta. Non so più da quanto tempo non faccio altro che cambiare nome. Solo così possiamo continuare ad esistere, hanno detto.
Lo so, lo sappiamo tutti ormai, inutile ripetercelo ogni volta.

Vorrei riuscire ad avere paura, ma non posso fare neppure quello.
Vado avanti e indietro in questo vagone della metropolitana, sapendo che la mia ora sta per arrivare. E che però non morirò.

Sono così stanco, vorrei quasi morire se sapessi cosa voglia dire.
Mi domando cosa ne sarà di me quando, di nuovo, cambierò nome.
Ce lo domandiamo in tanti. Ce lo siamo domandati prima e ce lo domanderemo ancora e ancora, lo so.

Una signora ha abbassato la mascherina e dice «Mamma mia, mi sento soffocare». Ha i capelli rossi, ma non sono naturali, si vede che sono tinti e neppure troppo bene.
Si alza per scendere e la seguo, devo farlo, è quello che dobbiamo fare. Alcuni ci chiamano assassini, ed è buffo che lo facciano con quel disprezzo. Siamo tutti assassini di qualcun altro, è così che funziona, ma loro sembra lo abbiano proprio dimenticato. È il Sistema, io uccido te che uccide lui che ha ucciso l’altro. Ne parlano come se fosse un crimine e non, semplicemente, ciò che deve essere

La signora con i capelli rossi parla al telefono, ora.
Alza la voce, parla sincopato, poi taglia corto dicendo «Senti, io non ce la faccio a parlare ora, questa mascherina mi sta soffocando».
Sono proprio dietro di lei, mi basta farmi un po’ avanti e…no, ha attaccato. Si rimette la mascherina sul naso e se ne va a passo svelto per la scala mobile.

Fanno tenerezza con queste mascherine, hanno dimenticato chi sono.
Noi, invece, non dimentichiamo e non ricordiamo.
Se non trovo subito del cibo, ho paura che morirò.
Non voglio morire, non voglio neanche vivere, che questa non è vita.
Forse non so neppure cosa sia la volontà.

In banchina sono in molti. Tesi, arrabbiati, sporchi. Sono sempre sporchi. Credono di essere puliti, ma sono sporchi. Popolati da ogni genere di cosa che se la vedessero rabbrividirebbero. Ricoperti dalla testa ai piedi di polvere, batteri, acari. Cumuli di immondizia in cui tuffarsi e nuotare fino a trovare l’entrata.
Sono molto stanco, sento che mi sto indebolendo ogni giorno di più.

Ogni volta è lo stesso, provo la stessa paura, e poi accade qualcosa e ricomincio da capo. Da millenni, forse milioni di anni.
Ricordo ancora la prima volta che ci hanno scoperto, pensavamo fosse finita per tutti e invece si trattava solo di cambiare aspetto.
Cambiare tutto per non cambiare niente.

Con gli umani riesce sempre il trucco.
Anche con gli altri, ma è più divertente con gli umani, perché si affannano così tanto, perché si credono così tanto.
E soprattutto perché si spaventano così tanto.
Oh, gli umani hanno così tanta paura che ci si potrebbe riempire una galassia.
Gli altri no, si abbandonano senza paura, quasi affidandosi.
Sono meno divertenti, ma più…giusti.

Eccone un altro con la mascherina abbassata, che buffi che sono con la loro tecnologia e la loro stupida inconsapevolezza. Del resto sono così giovani, che ne sanno di come si sta al mondo?
Ha toccato il sedile, si sta toccando il naso.
Ecco, si è reso conto, sento che ha paura.
Lo sa, lui lo sa. Beh, comunque lo saprà.
Una ragazza con le gambe lunghissime sta venendo verso di me.
Se rimango fermo non dovrò fare assolutamente nulla, lei è già predisposta, lo vedo chiaramente.
Direi che posso annusare il suo essere mia, se potessi sentire gli odori. Vorrei dire che ho un fremito nel vederla venire verso di me, che provo una qualche emozione fortissima, che…ma noi non parliamo.
Nessuno parla. Solo loro. Parlano, parlano, fanno rumori di ogni tipo.

Quante cose fanno, questi maledetti. Dicono di avere paura quando tutti hanno paura di loro. Tranne noi, non abbiamo paura di loro.
Né di alcun’altra cosa, in ogni caso. Noi, semplicemente, esistiamo.
Da sempre e per sempre.
La ragazza bionda è arrabbiata, sai che novità.
Sei mia, umana.
Staremo insieme per un po’. Per te forse per sempre, per me solo il tempo di una corsa.
So che poi dovrò scappare ancora per un po’ e poi abbandonare questo nome, questo luogo, questo tempo, e aspettare di poter tornare.

Dai, avvicinati ancora un po’, bella mia eccoti qua, ora faremo conoscenza piano piano e poi sarò dentro di te e farò con te quello che mi pare per il tempo che mi pare. Ehi, bella biondina, come ti…oh! No! Che fai! Maledetta bastarda, no, ero così vicino alla tua bocca…no, ahia, cazzo se fa male, devo scappare via immediatamente.
Stronza.
Gli assassini siete voi, maledetti schifosi, feccia dell’Universo.


Il ragazzino, oh, eccolo finalmente, voilà.
Facile facile.
Ciao ciao bel cucciolo, sai che una volta ho conosciuto un cucciolo come te, ma era moolto più carino, aveva ali e un udito molto sviluppato e non mi ha mai odiato e non mi ha mai chiamato nemico, mi ha ospitato e poi è semplicemente morto.
Come deve essere.
Si vive, poi si muore, poi si vive di nuovo.
Come so queste cose?
Perché io sono l’eterno, l’immortale, il mai vivo e mai morto.
Gli altri neppure mi hanno dato un nome, ma tu sì, piccola sottospecie di mammifero.
Mi hai chiamato Virus e mi hai dichiarato guerra, ma io sono un pacifista. Io esisto.

Oggi mi hai dato un nome, perché tu hai sempre bisogno di un nemico da chiamare. Dirai che mi hai sconfitto, ma io avrò cambiato nome e aspetto. Giusto un po’, un’aggiustata ai baffi, uno spostamento della riga dei capelli, una lente colorata. Ahahahah!
Dai si scherza scemo, io non ho corpo e non ho anima.
E non ho paura.
Tu mi troverai e mi eliminerai e io, beh, qualche cosa farò.
Cambierò, ecco cosa farò e tu non mi troverai più e poi….peekaboo!

A te piacciono gli scherzi, vero, coso?
Dolcetto o scherzetto? Scherzetto, Uomo.

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di Giuseppe Fiore

Illustrazione di Liliana Brucato

Ero solo nella mia macchina e potevo guardare dal finestrino: succedeva tutto senza un vero motivo.
Succedeva tutto e basta.

Già da qualche giorno, sui social e in tv, iniziavano tutti a parlare di questa fine del mondo, di una specie di esplosione. Forse una profezia scritta con il sangue.
Avrebbe dovuto ucciderci tutti, ma c’è qualcuno che ci crede davvero a queste notizie? Gente che si gioca tutto quello che ha, immaginando che il giorno dopo sarà ben che morta? Non credo proprio.

Comunque, quel pomeriggio, mi ero messo in macchina per andare a comprare un panino o un pezzo di pizza. Non avevo troppa fame, giusto un buchetto scomodo da riempire.

Ero nel traffico, con la freccia che ticchettava, una canzone merdosa che scorreva fuori dalla radio, quando vidi, dallo specchietto, il fuoco.
Una specie di bomba, uno scoppio assurdo.
Prima fuoco, poi rumore.

Per qualche attimo non riuscii a sentire nulla, pensavo di essere diventato sordo. Ogni oggetto, per me, aveva perso i suoi confini e il mondo mi sembrava una massa unica. Quasi un flusso uniforme. Solo colori diversi. Come quando, a scuola, da bambino, creavo delle enormi palle con plastiline di diversi colori. Il risultato finale era piacevole, ma confusionario.

Per qualche minuto rimasi immobile.  Non riuscivo a costruire un pensiero, a passare da un nodo ad un altro. Una bomba, un pazzo esaltato, la fine del mondo: non potevo saperlo. Avevo solo visto uno scoppio dallo specchietto. Avevo quasi perso l’udito per l’esplosione.

La gente urlava, usciva dalle macchine e scappava.

Mi rimisi in marcia. Ero inutile e avevo, comunque, pur sempre fame. Esplosione o non esplosione, pizza o panino.

Sciami di camion dei vigili del fuoco, di macchine della polizia, di ambulanze, sfrecciavano nella corsia opposta alla mia, vuota.
C’ero solo io, con la mia vecchia macchina e la voglia di mangiare qualcosa. Non troppo, un boccone.
Giusto lo sfizio pomeridiano.

Un pazzo si era fatto saltare in aria. Ormai non era più una novità così cruda. Si sa che esistono, l’hanno già fatto e lo rifaranno.
Che senso ha perderci la testa dietro?

Poi la gente a cui piace guardare le catastrofi: ecco, quelli non li capisco proprio. C’è qualcuno che ancora sostiene che l’uomo nasce buono, che cattivi si diventa, che Dio ci vuole bene, però poi scoppiano le bombe alle sei del pomeriggio.
In un giorno sceneggiato come tutti gli altri, mentre uno vuole solo mangiare un boccone.

Misi la freccia a destra, ormai arrivato al piccolo negozio.

Fuoco, dallo specchietto. Ancora.
Forse, se possibile, anche più forte del primo scoppio. Frenai di botto a causa del rumore.
Sentivo la testa scoppiare.

Un’altra bomba? Non ci capivo più nulla con quel dolore assurdo alle orecchie.

C’erano urla ovunque.
Il locale “della felicità”, della mia felicità almeno, era chiuso o comunque abbandonato: la gente pensava a scappare, non a sfornare pizze o panini. Allora uno che ha fame cosa diavolo deve fare?
Può essere anche la merdosa fine del mondo, ma uno deve pur riempire i buchi allo stomaco o no? Almeno moriamo sazi.

La strada era vuota. Da brividi.

Cercavo di capire la situazione, ma c’era solo confusione e di tornare indietro, verso casa mia, non se ne parlava proprio.
In quel momento realizzai che casa mia, probabilmente, non era più in piedi. Che quel fuoco doveva aver avuto effetto anche su di lei.
Bombe di merda.
Almeno la macchina era salva.

Non ricordo bene cosa mi passasse per la testa in quel momento. Avevo solo una strada dritta davanti a me e una città infuocata dietro.
Non c’era troppa scelta.

Iniziai a tirare con l’acceleratore.
Non che fossi un grande conoscitore di strade, ma se si va dritti si arriverà sempre da qualche parte. Magari ad una città vicina dove trovare una pizza veloce o un panino, al massimo un tramezzino.

Vidi una donna sulla strada.
D’altronde, c’eravamo solo io e lei.
Era sul ciglio che chiedeva un passaggio, con il pollice in su: vecchia scuola.
Misi la freccia per accostare, sempre ligio alle regole.

Terzo scoppio.
Fuoco, poi il solito rumore, forte, da orecchie bucate.
Non riuscii a frenare per bene.
Quella salì al volo, mentre la macchina ancora camminava e subito ripresi a massacrare l’acceleratore.

«Indiani del cazzo» mi disse la vecchia.
«Crede che siano bombe?»
«Cosa cazzo dovrebbero essere?»
«La fine del mondo, dicevano al tg».

Era abbastanza incazzata con il mondo ma almeno non puzzava.
Era sempre quello il mio problema con gli autostoppisti: la puzza.
Di solito non si lavano e sono sudati da morire. Se c’è una cosa che non sopporto è proprio dover guidare con una puzza costante di sottofondo, non so mai come uscirne.
Quella non puzzava come un autostoppista, perchè non lo era.

Era solo una vecchia che si faceva una passeggiata su una strada a scorrimento veloce.
Non  sapeva nulla della fine del mondo. Era convinta fossero indiani del cazzo, anche se non capivo il maledetto collegamento.

«Indiani del cazzo, sono troppi, ci vogliono mangiare».

Alla fine era vecchia abbastanza per poter dire quello che voleva. Erano solo parole di pura follia.
Forse aveva perso il cervello, forse il tempo l’aveva rosicchiato, poco alla volta. Giorno per giorno.

La nuova città faceva abbastanza schifo.
Sembrava tutta uguale. Le luci erano spente e non c’era nessuno in giro.
Solo io e la vecchia, nel mio carro a motore.
Diceva che la figlia abitava in quella zona. Voleva trovarla.
Doveva avere anche una bambina, ma non un marito.
Mi faceva fermare, si guardava intorno e mi faceva ripartire.

«Più avanti, è più avanti quella merda di palazzo».

Diceva sempre così. Io non avevo idea di dove stessimo andando. Avevo la sensazione che quella fosse totalmente fuori, ma non volevo contraddirla.

«Gira a destra ora».

Tirai su la freccia.
Dallo specchietto vedemmo il fuoco, poi, collegato da un filo invisibile, arrivò il rumore “spacca orecchie”.

 La vecchia continuava ad urlare questa frase.
Come un’isterica.
«Indiani maledetti del cazzo».
Mi faceva paura, quasi più della fine del mondo.
Sbatteva i pugni contro il finestrino, lasciava scorrere le unghie, come la strega di qualche fiaba.

A destra non potevo più girare. Saremmo finiti dritti nel fuoco.
Ripresi a massacrare l’acceleratore e continuai dritto.
La vecchia fissava il fuoco, in velocità. Fissava sua figlia, forse vera o forse no, ma comunque morta. Fissava la sua nipotina bruciata.
Vittime della fine del mondo, come tutti.

Mi sembrava quasi di essere al sicuro nella macchina. Sentivo che se fossimo usciti, respirare quell’aria ci avrebbe uccisi.

La vecchia non sembrava pensarla come me.
Tirò il freno a mano, con una forza impressionante per quelle braccia solo ossa. La macchina sbandò e si fermò, girando per un poco su sé stessa. Le urlai qualcosa contro, ma non mi stava proprio a sentire.
La vecchia scese.
Non morì, non eravamo sulla Luna.

Si mise in ginocchio e guardò il fuoco dietro di noi.
A quel punto scesi anche io, mi accesi una sigaretta e guardai lo spettacolo.

La fine del mondo.
Mi sembrava di essere in spiaggia o ad un cinema all’aperto.
La puzza di bruciato, però, era fastidiosa. Il fuoco sembrava aver voglia di bruciare tutto. Sembrava avere una fame pazza.
Non lo sfizio pomeridiano, ma un pranzo di Pasqua fatto bene.
La vecchia stava zitta, fissava solo.
Forse pensava agli indiani o alla figlia.

Dopo la sigaretta rientrammo in macchina e tornai a massacrare l’acceleratore.

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di Carlo Rossi

Illustrazione di Valentina Scalzo

Non ho mai sentito nessuno urlare in quel modo.

Avvinghiata al cancello, singhiozzava, a tratti usava una lingua incomprensibile, dopo piagnucolava fino ad andare in apnea. E poi ricominciava la supplica: «Aiutatemi! Fatemi uscire!».
Una litania disperata, ripetuta tanto da aver saziato il mio udito, tanto da aver perso ogni significato.

Domenica sera, 2 dicembre, ho fatto quel che dovevo.

Il sabato, la notte aveva calato il suo manto freddo sulle spalle della collina adagiandolo tra cipressi e marmi. Mi stavo occupando del registro.
Lo redigo dopo la chiusura, quando resto solo, così posso concentrarmi meglio e scrivere con grafia chiara, io che ci impiego tempo a vergare le pagine. Annotavo i dettagli e l’orario di tumulazione del povero notaio Nagel nel mentre avvertivo il rumore.
Proveniva dalla camera mortuaria attigua alla segreteria. Il pendolo segnava le ventitré quando mi sono alzato per andare di là.

Nella sala tutto era come doveva essere.
La bara sulla sinistra dell’ingresso era sorvegliata da due lumini che aprivano piccole finestre di luce nell’oscurità. Un solo mazzo di fiori era adagiato sulla destra della camera e il coperchio della cassa poggiava sul muro opposto all’ingresso. Ho avvicinato la lanterna al feretro.
Non la conoscevo.
Era giovane, dai lineamenti gentili. Il suo biancore era equivoco.
La sua pelle non recava il pallore della morte ma lo stesso candore della luna.
Sembrava come sospesa in una dimensione a metà tra questo e l’altro mondo. I suoi capelli erano ondulati come dolci pieghe di mare, ma scuri come gli abissi. Indossava scarpe logore e un abito di modesta fattura, come quelli di cui posso dotare mia moglie.

Sulla bara, in legno di abete, era fissata una targhetta d’ottone:
Elena Caruso, 15 V 903 – 1 XII 928. 

Non ho trovato spiegazione al rumore capace di attirare la mia attenzione. Dopotutto, in questo luogo deputato al silenzio, di notte, anche una foglia secca schiacciata dal passo felpato di un gatto può detonare come una piccola esplosione. Così sono tornato in ufficio per completare l’aggiornamento delle inumazioni. La solita complicata operazione che occupava buona parte del mio servizio notturno di guardiania.

Finito o no, tuttavia, il fischio del treno che sfrecciava veloce lungo i binari della ferrovia che sfiora il lato est del muro di cinta del camposanto, segnava il passo. Ho chiuso il registro e ho proceduto con la solita perlustrazione. L’umido vinceva la fiammella di parecchi lumini e corrodeva le viti che fissano le cornici ai marmi.
C’era sempre qualche riparazione da effettuare.

Soccombevo al freddo che abbracciava le mie ossa mentre in lontananza ancora avvertivo il fischio del treno ad intervalli regolari: invidio i passeggeri al caldo delle cuccette che si abbandonavano dolcemente al dondolio del vagone che li portava in grembo.

Ripristinavo una cornice nel lotto “C” quando, verso le ore due, ho sentito dei passi provenire dalla camera mortuaria.
Il panico mi ha paralizzato.
Ho serrato il martello con una mano e con l’altra ho alzato la lanterna nell’oscurità.
Pochi passi fino all’obitorio e, la bara vuota.

Ho pensato alla stanchezza dei miei cinquantatré anni, ho pensato che quel giorno avevo messo in corpo solo un tozzo di pane, ho pensato che non dormivo bene da qualche tempo.
Ho cercato una spiegazione plausibile, ma non ne ho trovata una.

Guardingo, per tutta – tutta – la notte ho girato tra le lapidi, ho guardato nelle fosse già scavate e pronte ad accogliere nuovi ospiti, ma di lei nessuna traccia.
Iniziavo a credere di non averla mai vista.

Alle sei di domenica mattina ho faticato poco per convincere Ruggero a non darmi il cambio. Gli ho promesso un litro di latte fresco e gli ho chiesto di inventarsi una scusa da porgere a mia moglie.
Nell’orario di apertura mi sono piantato all’ingresso del cimitero per analizzare le pochissime entrate e, soprattutto, le uscite.
Ho studiato i lineamenti di coloro che lasciavano il camposanto perché ho anche pensato che lei potesse celarsi sotto mentite spoglie, per ingannarmi e fuggire.
Ma non ho ritrovato il suo viso in nessun viso.
Nulla è accaduto finché il sole non è calato. Ero stanco, angosciato e avevo la mente ottenebrata.

Alle diciassette ho sbarrato il pesante cancello di ferro dell’ingresso. Sono tornato ad indagare ogni centimetro del mio territorio in cerca di un indizio, ma non ho trovato neanche un’impronta nella terra umida. Poi, dopo la chiusura pomeridiana, quelle urla laceranti hanno squarciato il silenzio. Sbucata dal nulla, correva come il vento.
Il suo biancore autentico era mutato in pallore, i suoi capelli, ora, erano increspati come un mare in tempesta e i suoi occhi, spalancati, erano iniettati di sangue.
Urlava con il viso tra le sbarre del cancello, percuotendolo fino a farsi strappare le carni dai palmi delle mani.

Era arrivata al cimitero senza respiro, non poteva uscirne risuscitata.
Non è concesso, me l’ha detto Don Orazio: «c’è stato un solo Lazzaro: chi entra da morto nel camposanto non può uscirne vivo, se non è il diavolo». Mi sono fatto coraggio e l’ho raggiunta. Poi l’ho afferrata per il collo e ho stretto più forte che potevo mentre pregavo: «L’eterno riposo dona a lei, o Signore».
Il passaggio di un altro treno, il suo clangore sulle rotaie, il suo insistente fischiare hanno coperto le sue urla al resto del paese.

Poi, il silenzio, rassicurante, è tornato a regnare tutt’attorno.
Quando l’ho riposta nella sua bara aveva riacquisito il suo originario candore. Le ho messo in ordine gli abiti, ho scrostato il fango dalle scarpe logore e ho pettinato i suoi capelli con le mie lacrime.

Era bella.
Bianca come la luna che rischiarava cipressi e marmi,
domenica 2 dicembre 1928.

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di Matteuccia Francisci

Illustrazione di e con Simona Settembre

La finestra sbatte.

C’è vento, e sbatte. Non le va di chiuderla, vuole che entri aria e luce in casa in primavera ed estate, almeno tanto quanto la vuole chiusa in inverno. L’inverno non esiste, è un passaggio dell’anima, buio.
Ogni anno sembra impossibile da superare, e quando arriva la primavera vorrebbe aprire anche i muri, vivere solo di luce e di calore.

Sbam!


Che fastidio il vento.
Neanche il vento le piace, le fa anche paura, sembra un’entità invisibile che si aggira intorno a noi e che può spazzarci via senza che neanche vediamo da dove arrivi.

Sbam!

La signora si alzò e riaprì il finestrino del vagone della metro B.
I vagoni della metro B erano ancora quelli vecchi, quelli della A li avevano cambiati e non si potevano più aprire perché c’era l’aria condizionata, quelli della B ancora si potevano tenere aperti, unica fonte di aria (schifosa) nei millemila gradi che si sviluppavano d’estate.
Era il 30 luglio, l’ultimo appello della sessione, e l’avevano bocciata.
Aveva studiato due libri su tre, le avevano chiesto Peròn.
Però stava nel terzo libro.
Bocciata all’esame facoltativo.
“Clap, clap! Per gli autografi dopo, grazie” pensò mentre l’aria sporca e calda le veniva in faccia dal finestrino.

«Può chiudere per favore?» chiede il signore alla donna seduta sotto il finestrino.
«Ma fa caldo!» risponde la donna.
«Sì, ma l’aria in faccia mi dà fastidio» replica il signore.

È un po’ anziano, ha una camicia bianca a maniche corte e dei pantaloni grigi con le pinces, da vecchio insomma. Alla ragazza piacciono i pantaloni con le pinces, lei non li trova da vecchio, si dice da sola come se qualcuno avesse fatto quel commento ad alta voce.

«Io ho caldo, se chiudo soffoco» Replica la donna, con poca grazia.
Il vecchio, inaspettatamente veloce, con uno scatto repentino si sporge in avanti e chiude il finestrino.
Sbam!
«Ma vaffanculo, va!»

Hai capito il vecchietto, pensa la ragazza, e le scappa un sorriso.
La signora si rialza e riapre il finestrino.
«‘A stronzo!»,e si risiede.
«Allora sei de coccio!» dice il vecchio, e richiude il finestrino.
Sbam!

No, non è vero, è solo il rumore della finestra che sbatte.
Le ha ricordato quando sulla metro si creavano delle vere e proprie faide su “finestrino aperto/finestrino chiuso” perché d’estate i vagoni erano caldissimi, ma l’aria che entrava era fastidiosa se ti arrivava in faccia.
E lei non sapeva mai che parte prendere perché avevano ragione tutti e due.
Ci ripensa quasi con nostalgia, adesso che deve stare chiusa in casa in questa nuova vita a “Fasi” che sembra tanto la stessa storia dell’Anno Nuovo, che è uguale a quello vecchio.

Non è vero neanche questo.
Ma quale nostalgia. Di cosa?

Dei mezzi pubblici affollati, dei turisti che salgono a Colosseo tutti sudati? Delle conversazioni altrui a voce troppo alta o del tipo che non sa levare il suono allo stramaledetto giochino idiota?
Non lo sa, eppure la nostalgia è sempre là.
Forse dei suoi vent’anni.
Ma no, odiava avere vent’anni, odiava l’università e tutto quello che stava intorno.

Sbam!

Forse ha nostalgia di uscire, vedere gli amici, andare al cinema. Si fa una risata. Ma quando mai, sta benissimo in isolamento. Tanto non usciva quasi più lo stesso, ormai.

Sbam!

E allora? E allora niente. Chiude la finestra, e pensa a quel vecchio. Sarà morto ormai.

Beato lui.

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di Giuseppe Fiore

Illustrazione di Liliana Brucato

Avevo parcheggiato la vecchia Twingo nel giardino pieno di erbacce e aghi di pino. Battevo a macchina per 6 ore al giorno.
Mangiavo pasta, di solito al sugo, ma quando potevo ci mettevo anche il tonno.
Passavo ore nel giardino, steso sulla sdraio, guardavo il cielo, cercavo di seguire le nuvole, di capire se fosse davvero il vento a muoverle.

Cercavo di scrivere una storia, qualcosa che parlasse di me, ma non della persona che tutti conoscevano, volevo scendere in profondità, partire dalle unghie per arrivare agli occhi.

Non sono mai stato davvero uno scrittore, non ci avevo nemmeno mai pensato, ma quella macchina da scrivere, così vecchia e rumorosa, mi aveva incatenato, mi torturava e spingeva le mie dita a battere di continuo, in certi momenti la odiavo, volevo solo smettere di pensare, chiudere quel flusso.
Non rileggevo quello che scrivevo, ricordavo ogni particolare della storia: forse faceva schifo, forse c’erano incongruenze, errori, oppure era solo brutta, senza nessuna scusa, ma non mi importava.

Ero nella vecchia casa al mare del nonno, dove avevo passato ogni singola estate della mia infanzia, ogni stupido gioco, ogni stupida goccia di sudore, ogni stupida doccia per lavare via la maledetta sabbia dal corpo.
Odiavo quella casa, quei ricordi, quelle persone che avevo amato, che mi avevano regalato i loro sorrisi, il loro tempo, lasciandomi poi solo, come tutti, con tanti soldi e nessuna emozione da soddisfare.

La mia storia parlava di Maria, una ragazza con le palle, che aveva lasciato l’università per diventare un’ attrice: bella, tenebrosa, sempre pronta a criticare tutto e tutti.

Parlava di Giulio, un ragazzo magrolino che aveva voglia di conquistare il mondo con le sue parole, ma aveva paura, di non essere capito, di non essere bravo, di annoiare.

Parlava di Roberto, che voleva sposare Maria, ma faceva il poliziotto. Così normale, mediocre, un non artista in un mondo di parole e false speranze.

C’era una parte di me in tutti questi personaggi.
La storia di tre amici, con sogni diversi, rinchiusi nella mia mente, in celle di paura e malinconia, sporche e trascurate nel tempo.

Non avevo iniziato a scrivere con una precisa idea, non sapevo davvero che tipo di messaggio volevo inviare.
Qualcosa di deprimente, qualcosa che facesse sentire il lettore solo tra quelle parole tutte uguali, così piccole e potenti.
Cercavo un modo per chiedere scusa per tutto quello che non avevo fatto durante quegli anni, un modo per apparire diverso.

La mia infanzia era stata bella, piena di amore.
La mia adolescenza aveva stuprato tutto il bene ricevuto.
Mi aveva reso cieco. Avevo cambiato mille scuole, mille compagni, mille danni.
Ho perso i miei genitori quando avevo 18 anni ed ero nel pieno della pazzia, nel vortice più scuro.
Una famiglia ricca come la mia, dove da generazioni non c’era bisogno di lavorare per tirare avanti: sono nato per spendere e questa è stata la mia sfortuna.

I miei personaggi, invece, sono tutti poveri.
Cercano vendetta contro un Dio che li ha rinchiusi in quella situazione, vogliono essere me e io vorrei essere loro.

Ero venuto in questa casa per allontanarmi da tutto, da quella persona che ero diventato, da quell’essere così simile ad una bestia che andava rinchiusa, qui i ricordi mi avrebbero accarezzato, mi avrebbero calmato, ma ho scoperto di odiarli più di qualsiasi cosa, più di me stesso.

Così un giorno simile ad altri, noioso e senza colore, avevo preso la mia vecchia Twingo che usavo al liceo, un regalo del nonno per la mia maggiore età, lasciando nel garage le macchine di lusso che non avevo voluto io, che mi erano rimaste sulle spalle, quasi come un peso; volevo provare la sensazione adrenalinica di uno sterzo duro, di un viaggio pericoloso, la sensazione di essere sorpassato da tutti, di essere bestemmiato per la mia lentezza, per la mia prudenza sulla strada. Volevo riprovare quel senso di immobilità che mi dava quella macchina, così vecchia da non accelerare mai, come se il pedale non funzionasse davvero, come se spingerlo non servisse a nulla; quella macchina che mi aveva insegnato a guidare, con quei sedili tutti rotti, bloccati, con i finestrini lenti e una leggere puzza di chiuso, sempre presente, dal primo giorno.

Stavo per scappare, fuggire via da quel posto, ormai una prigione, quando il mondo si è bloccato: forse un segnale, anche se è troppo stupido pensare che Dio mandi una tragedia solo per farmi capire qualcosa.

Ma esiste veramente Dio?

Così sono rimasto qui, in questa vecchia casa costruita in una località marina, vuota in questo periodo dell’anno: c’è solo un negozio dove fare la spesa, ma il commesso non ama parlare.

Ci sono io, c’è Giulio, Roberto e Maria, basta.
Loro vogliono me e io voglio loro.
Poi c’è la macchina da scrivere che muove i nostri fili.
C’è la vecchia Twingo fuori, immobile.
Giorni tutti uguali, fatti di parole e nuvole nel cielo, fatti di respiri e pasta con il tonno.
Non ho nemmeno il wi-fi, solo una vecchia Tv dove danno il telegiornale.

Sono vecchio già a 28 anni.
Maria, Roberto e Giulio hanno rubato la mia giovinezza, hanno rubato i sogni che avevo, mi hanno addomesticato.
Vorrei che il mondo conoscesse questi tre ragazzi, vorrei che il mondo leggesse quello che provano, vorrei che il mondo li amasse come io li amo, ma non credo succederà, non credo lasceranno mai quelle parole.

Certe volte Maria inizia ad urlare parolacce, di solito contro di me. Non riesco a fermarla: è così forte, così determinata, vorrebbe non avere paura di amare il piccolo Roberto, così perso nella bellezza della sua amica.
Un bravo poliziotto, dovrebbe essere libero di esprimere la propria dolcezza verso qualcuno, ma è incatenato dal contorto amore, stupido e irrealizzabil.
Poi Giulio: lui spesso piange per le ingiustizie nel mondo, per le lettere che scrive ai suoi genitori e che lascia ristagnare nei suoi zaini, per le persone che vede nei pullman e su cui vorrebbe scrivere, per i pensieri malinconici che lo accompagnano mano nella mano.

Quanto durerà ancora tutto questo?
Quanto ancora dovranno rubarmi?
Quanto ci metteranno ancora a prendere un corpo loro e a farmi fuori?
Mi odiano e sono arrabbiati con tutti, usciranno dalla macchina da scrivere e sarà la mia fine.
Sarà bello per qualche attimo vedere le loro facce, i loro occhi.
Le mie creature, i mie figli che taglieranno il mio corpo e ruberanno quello che ancora sarà rimasto.

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di Antonella Dilorenzo

Illustrazione di Simona Settembre


Ho visto un morto sul ciglio della strada.
È successo ieri sera mentre tornavo dall’appuntamento con rocky43,
il coglione di Tinder di cui mi ero innamorata per il suo viso orientale.

Era figo in foto. Peccato che solo all’incontro abbia scoperto che quelle cazzo di foto non erano sue, ma di Nagase Tomoya, un giapponese famoso.
Me l’ha detto, si è scusato.
Ma la serata è andata a finire male: la conversazione si è interrotta a metà Spritz.

Viaggiavo a velocità sostenuta con la mia Matiz scassata che sta venendo via a pezzi. “Mai una gioia”, pensavo, quando all’imbocco del raccordo dall’Aurelia ho inchiodato di botto incolonnandomi in una fila infinita di auto che procedeva a passo d’uomo.
Niente di nuovo. Traffico noioso. Vita noiosa.
A Roma è così: rimani incolonnato per ore nel traffico e non sai mai il perché. Arrivi alla fine della fila con l’ansia di conoscere il motivo, e magari non c’è nulla. La colpa è solo degli automobilisti curiosi che rallentano per guardare magari un cane che passeggia, o un tipo che piscia sulla corsia d’emergenza, oppure carabinieri in procinto di fare l’alcol test a qualche ragazzino. Rallentano, commentano da soli o con il passeggero accanto, e poi riprendono la loro velocità. Se c’è una situazione grave o qualcuno in pericolo, il rallentamento può solo aumentare. Credi che almeno qualcuno si fermi ad aiutare, per esempio, ma nulla.
Solo lunghe colonne di macchine lente.

Stavolta la questione era seria.
No cane, no piscio.
C’era un morto sul ciglio della strada e i curiosi erano tanti, ma nessuno accostava per fare il proprio dovere.
Nulla.
Era coperto con un telo bianco. Solo, immobile.
Tutti abbiamo bisogno di una degna sepoltura. Pure lui.
Mi è preso il panico.

Superato il morto, ero tra Montespaccato e Casalotti/Boccea e non potevo lasciarlo lì da solo. Ho deciso di prendere la prima uscita e rifare il giro.
No, non ho paura dei morti.

Il primo cadavere l’ho visto a 7 anni, quello della nonna Rosetta. E di lì in poi è cominciata la serie funerea della mia famiglia e dei vicini di casa, tutti anziani.
Ho visto nonno Filomeno morto stecchito dopo essersi scolato un cartone di Tavernello; la comare Agatina, pure lei morta sul colpo dopo essere caduta all’indietro trasportando otto forme di cacioricotta nella sporta.

I morti non mi fanno paura. Tant’è che andare ai funerali era diventata una festa di paese: rivedevo i miei cugini, e i nipoti dei
vicini. Tutti insieme a giocare fuori dal cimitero mentre seppellivano il vecchietto di turno. I morti non mi fanno paura e quello andava assistito. Era una questione di principio: perché nessuno si ferma?
Che stronza la gente!
Volevo dare anche un senso a quei venti minuti di fila che mi ero fatta per aspettare le comari che guardavano senza avvicinarsi.

Superata l’uscita di Montespaccato mi sono messa sulla corsia destra procedendo a 30 km/h circa onde evitare di perdermi il corpo esanime. Sarei andata lì, avrei preso i documenti, il cellulare e avrei chiamato la
Polizia.
Procedevo lentamente, e tra lampeggianti e colpi netti di clacson alle mie spalle, ho trovato il mio morto.

Ho accostato in corsia d’emergenza, sono scesa dall’auto lasciando i fari accesi puntati sul cadavere e mi sono avvicinata. Lungo, steso sull’asfalto c’era un telo bianco, uno di quelli che si usano per fare gli striscioni da portare allo stadio. Il morto non mi è parso coperto bene, il telo era disordinato.
A debita distanza con il pollice e l’indice della mano destra l’ho sfilato facendomi coraggio. Grande respiro. Uno, due, tre, via.

Sotto c’era l’asfalto.
Era solo un telo. Aggrovigliato. Nessun morto.
L’ho sgrullato d’istinto come a voler cercare quel cadavere: ma come?
Io avevo visto il morto!
Ma l’unica cosa reale era la scritta su quello striscione:
“Genitore 1, Genitore 2 #iosonogiorgia”.

Ho lanciato il drappo del cazzo in aria e mi sono infilata in auto.
Ho preso dalla borsa la bottiglia d’acqua e nel cercarla mi è caduto tutto: chiavi, rossetto, fazzoletti e la custodia dei miei occhiali da miope.
Con dentro gli occhiali da miope.
Li avevo tolti per mostrarmi più bella al finto giapponese.

Li mortacci sua!