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di Carlo Rossi

Illustrazione di Valentina Scalzo

Non ho mai sentito nessuno urlare in quel modo.

Avvinghiata al cancello, singhiozzava, a tratti usava una lingua incomprensibile, dopo piagnucolava fino ad andare in apnea. E poi ricominciava la supplica: «Aiutatemi! Fatemi uscire!».
Una litania disperata, ripetuta tanto da aver saziato il mio udito, tanto da aver perso ogni significato.

Domenica sera, 2 dicembre, ho fatto quel che dovevo.

Il sabato, la notte aveva calato il suo manto freddo sulle spalle della collina adagiandolo tra cipressi e marmi. Mi stavo occupando del registro.
Lo redigo dopo la chiusura, quando resto solo, così posso concentrarmi meglio e scrivere con grafia chiara, io che ci impiego tempo a vergare le pagine. Annotavo i dettagli e l’orario di tumulazione del povero notaio Nagel nel mentre avvertivo il rumore.
Proveniva dalla camera mortuaria attigua alla segreteria. Il pendolo segnava le ventitré quando mi sono alzato per andare di là.

Nella sala tutto era come doveva essere.
La bara sulla sinistra dell’ingresso era sorvegliata da due lumini che aprivano piccole finestre di luce nell’oscurità. Un solo mazzo di fiori era adagiato sulla destra della camera e il coperchio della cassa poggiava sul muro opposto all’ingresso. Ho avvicinato la lanterna al feretro.
Non la conoscevo.
Era giovane, dai lineamenti gentili. Il suo biancore era equivoco.
La sua pelle non recava il pallore della morte ma lo stesso candore della luna.
Sembrava come sospesa in una dimensione a metà tra questo e l’altro mondo. I suoi capelli erano ondulati come dolci pieghe di mare, ma scuri come gli abissi. Indossava scarpe logore e un abito di modesta fattura, come quelli di cui posso dotare mia moglie.

Sulla bara, in legno di abete, era fissata una targhetta d’ottone:
Elena Caruso, 15 V 903 – 1 XII 928. 

Non ho trovato spiegazione al rumore capace di attirare la mia attenzione. Dopotutto, in questo luogo deputato al silenzio, di notte, anche una foglia secca schiacciata dal passo felpato di un gatto può detonare come una piccola esplosione. Così sono tornato in ufficio per completare l’aggiornamento delle inumazioni. La solita complicata operazione che occupava buona parte del mio servizio notturno di guardiania.

Finito o no, tuttavia, il fischio del treno che sfrecciava veloce lungo i binari della ferrovia che sfiora il lato est del muro di cinta del camposanto, segnava il passo. Ho chiuso il registro e ho proceduto con la solita perlustrazione. L’umido vinceva la fiammella di parecchi lumini e corrodeva le viti che fissano le cornici ai marmi.
C’era sempre qualche riparazione da effettuare.

Soccombevo al freddo che abbracciava le mie ossa mentre in lontananza ancora avvertivo il fischio del treno ad intervalli regolari: invidio i passeggeri al caldo delle cuccette che si abbandonavano dolcemente al dondolio del vagone che li portava in grembo.

Ripristinavo una cornice nel lotto “C” quando, verso le ore due, ho sentito dei passi provenire dalla camera mortuaria.
Il panico mi ha paralizzato.
Ho serrato il martello con una mano e con l’altra ho alzato la lanterna nell’oscurità.
Pochi passi fino all’obitorio e, la bara vuota.

Ho pensato alla stanchezza dei miei cinquantatré anni, ho pensato che quel giorno avevo messo in corpo solo un tozzo di pane, ho pensato che non dormivo bene da qualche tempo.
Ho cercato una spiegazione plausibile, ma non ne ho trovata una.

Guardingo, per tutta – tutta – la notte ho girato tra le lapidi, ho guardato nelle fosse già scavate e pronte ad accogliere nuovi ospiti, ma di lei nessuna traccia.
Iniziavo a credere di non averla mai vista.

Alle sei di domenica mattina ho faticato poco per convincere Ruggero a non darmi il cambio. Gli ho promesso un litro di latte fresco e gli ho chiesto di inventarsi una scusa da porgere a mia moglie.
Nell’orario di apertura mi sono piantato all’ingresso del cimitero per analizzare le pochissime entrate e, soprattutto, le uscite.
Ho studiato i lineamenti di coloro che lasciavano il camposanto perché ho anche pensato che lei potesse celarsi sotto mentite spoglie, per ingannarmi e fuggire.
Ma non ho ritrovato il suo viso in nessun viso.
Nulla è accaduto finché il sole non è calato. Ero stanco, angosciato e avevo la mente ottenebrata.

Alle diciassette ho sbarrato il pesante cancello di ferro dell’ingresso. Sono tornato ad indagare ogni centimetro del mio territorio in cerca di un indizio, ma non ho trovato neanche un’impronta nella terra umida. Poi, dopo la chiusura pomeridiana, quelle urla laceranti hanno squarciato il silenzio. Sbucata dal nulla, correva come il vento.
Il suo biancore autentico era mutato in pallore, i suoi capelli, ora, erano increspati come un mare in tempesta e i suoi occhi, spalancati, erano iniettati di sangue.
Urlava con il viso tra le sbarre del cancello, percuotendolo fino a farsi strappare le carni dai palmi delle mani.

Era arrivata al cimitero senza respiro, non poteva uscirne risuscitata.
Non è concesso, me l’ha detto Don Orazio: «c’è stato un solo Lazzaro: chi entra da morto nel camposanto non può uscirne vivo, se non è il diavolo». Mi sono fatto coraggio e l’ho raggiunta. Poi l’ho afferrata per il collo e ho stretto più forte che potevo mentre pregavo: «L’eterno riposo dona a lei, o Signore».
Il passaggio di un altro treno, il suo clangore sulle rotaie, il suo insistente fischiare hanno coperto le sue urla al resto del paese.

Poi, il silenzio, rassicurante, è tornato a regnare tutt’attorno.
Quando l’ho riposta nella sua bara aveva riacquisito il suo originario candore. Le ho messo in ordine gli abiti, ho scrostato il fango dalle scarpe logore e ho pettinato i suoi capelli con le mie lacrime.

Era bella.
Bianca come la luna che rischiarava cipressi e marmi,
domenica 2 dicembre 1928.

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di Matteuccia Francisci

Illustrazione di e con Simona Settembre

La finestra sbatte.

C’è vento, e sbatte. Non le va di chiuderla, vuole che entri aria e luce in casa in primavera ed estate, almeno tanto quanto la vuole chiusa in inverno. L’inverno non esiste, è un passaggio dell’anima, buio.
Ogni anno sembra impossibile da superare, e quando arriva la primavera vorrebbe aprire anche i muri, vivere solo di luce e di calore.

Sbam!


Che fastidio il vento.
Neanche il vento le piace, le fa anche paura, sembra un’entità invisibile che si aggira intorno a noi e che può spazzarci via senza che neanche vediamo da dove arrivi.

Sbam!

La signora si alzò e riaprì il finestrino del vagone della metro B.
I vagoni della metro B erano ancora quelli vecchi, quelli della A li avevano cambiati e non si potevano più aprire perché c’era l’aria condizionata, quelli della B ancora si potevano tenere aperti, unica fonte di aria (schifosa) nei millemila gradi che si sviluppavano d’estate.
Era il 30 luglio, l’ultimo appello della sessione, e l’avevano bocciata.
Aveva studiato due libri su tre, le avevano chiesto Peròn.
Però stava nel terzo libro.
Bocciata all’esame facoltativo.
“Clap, clap! Per gli autografi dopo, grazie” pensò mentre l’aria sporca e calda le veniva in faccia dal finestrino.

«Può chiudere per favore?» chiede il signore alla donna seduta sotto il finestrino.
«Ma fa caldo!» risponde la donna.
«Sì, ma l’aria in faccia mi dà fastidio» replica il signore.

È un po’ anziano, ha una camicia bianca a maniche corte e dei pantaloni grigi con le pinces, da vecchio insomma. Alla ragazza piacciono i pantaloni con le pinces, lei non li trova da vecchio, si dice da sola come se qualcuno avesse fatto quel commento ad alta voce.

«Io ho caldo, se chiudo soffoco» Replica la donna, con poca grazia.
Il vecchio, inaspettatamente veloce, con uno scatto repentino si sporge in avanti e chiude il finestrino.
Sbam!
«Ma vaffanculo, va!»

Hai capito il vecchietto, pensa la ragazza, e le scappa un sorriso.
La signora si rialza e riapre il finestrino.
«‘A stronzo!»,e si risiede.
«Allora sei de coccio!» dice il vecchio, e richiude il finestrino.
Sbam!

No, non è vero, è solo il rumore della finestra che sbatte.
Le ha ricordato quando sulla metro si creavano delle vere e proprie faide su “finestrino aperto/finestrino chiuso” perché d’estate i vagoni erano caldissimi, ma l’aria che entrava era fastidiosa se ti arrivava in faccia.
E lei non sapeva mai che parte prendere perché avevano ragione tutti e due.
Ci ripensa quasi con nostalgia, adesso che deve stare chiusa in casa in questa nuova vita a “Fasi” che sembra tanto la stessa storia dell’Anno Nuovo, che è uguale a quello vecchio.

Non è vero neanche questo.
Ma quale nostalgia. Di cosa?

Dei mezzi pubblici affollati, dei turisti che salgono a Colosseo tutti sudati? Delle conversazioni altrui a voce troppo alta o del tipo che non sa levare il suono allo stramaledetto giochino idiota?
Non lo sa, eppure la nostalgia è sempre là.
Forse dei suoi vent’anni.
Ma no, odiava avere vent’anni, odiava l’università e tutto quello che stava intorno.

Sbam!

Forse ha nostalgia di uscire, vedere gli amici, andare al cinema. Si fa una risata. Ma quando mai, sta benissimo in isolamento. Tanto non usciva quasi più lo stesso, ormai.

Sbam!

E allora? E allora niente. Chiude la finestra, e pensa a quel vecchio. Sarà morto ormai.

Beato lui.

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di Giuseppe Fiore

Illustrazione di Liliana Brucato

Avevo parcheggiato la vecchia Twingo nel giardino pieno di erbacce e aghi di pino. Battevo a macchina per 6 ore al giorno.
Mangiavo pasta, di solito al sugo, ma quando potevo ci mettevo anche il tonno.
Passavo ore nel giardino, steso sulla sdraio, guardavo il cielo, cercavo di seguire le nuvole, di capire se fosse davvero il vento a muoverle.

Cercavo di scrivere una storia, qualcosa che parlasse di me, ma non della persona che tutti conoscevano, volevo scendere in profondità, partire dalle unghie per arrivare agli occhi.

Non sono mai stato davvero uno scrittore, non ci avevo nemmeno mai pensato, ma quella macchina da scrivere, così vecchia e rumorosa, mi aveva incatenato, mi torturava e spingeva le mie dita a battere di continuo, in certi momenti la odiavo, volevo solo smettere di pensare, chiudere quel flusso.
Non rileggevo quello che scrivevo, ricordavo ogni particolare della storia: forse faceva schifo, forse c’erano incongruenze, errori, oppure era solo brutta, senza nessuna scusa, ma non mi importava.

Ero nella vecchia casa al mare del nonno, dove avevo passato ogni singola estate della mia infanzia, ogni stupido gioco, ogni stupida goccia di sudore, ogni stupida doccia per lavare via la maledetta sabbia dal corpo.
Odiavo quella casa, quei ricordi, quelle persone che avevo amato, che mi avevano regalato i loro sorrisi, il loro tempo, lasciandomi poi solo, come tutti, con tanti soldi e nessuna emozione da soddisfare.

La mia storia parlava di Maria, una ragazza con le palle, che aveva lasciato l’università per diventare un’ attrice: bella, tenebrosa, sempre pronta a criticare tutto e tutti.

Parlava di Giulio, un ragazzo magrolino che aveva voglia di conquistare il mondo con le sue parole, ma aveva paura, di non essere capito, di non essere bravo, di annoiare.

Parlava di Roberto, che voleva sposare Maria, ma faceva il poliziotto. Così normale, mediocre, un non artista in un mondo di parole e false speranze.

C’era una parte di me in tutti questi personaggi.
La storia di tre amici, con sogni diversi, rinchiusi nella mia mente, in celle di paura e malinconia, sporche e trascurate nel tempo.

Non avevo iniziato a scrivere con una precisa idea, non sapevo davvero che tipo di messaggio volevo inviare.
Qualcosa di deprimente, qualcosa che facesse sentire il lettore solo tra quelle parole tutte uguali, così piccole e potenti.
Cercavo un modo per chiedere scusa per tutto quello che non avevo fatto durante quegli anni, un modo per apparire diverso.

La mia infanzia era stata bella, piena di amore.
La mia adolescenza aveva stuprato tutto il bene ricevuto.
Mi aveva reso cieco. Avevo cambiato mille scuole, mille compagni, mille danni.
Ho perso i miei genitori quando avevo 18 anni ed ero nel pieno della pazzia, nel vortice più scuro.
Una famiglia ricca come la mia, dove da generazioni non c’era bisogno di lavorare per tirare avanti: sono nato per spendere e questa è stata la mia sfortuna.

I miei personaggi, invece, sono tutti poveri.
Cercano vendetta contro un Dio che li ha rinchiusi in quella situazione, vogliono essere me e io vorrei essere loro.

Ero venuto in questa casa per allontanarmi da tutto, da quella persona che ero diventato, da quell’essere così simile ad una bestia che andava rinchiusa, qui i ricordi mi avrebbero accarezzato, mi avrebbero calmato, ma ho scoperto di odiarli più di qualsiasi cosa, più di me stesso.

Così un giorno simile ad altri, noioso e senza colore, avevo preso la mia vecchia Twingo che usavo al liceo, un regalo del nonno per la mia maggiore età, lasciando nel garage le macchine di lusso che non avevo voluto io, che mi erano rimaste sulle spalle, quasi come un peso; volevo provare la sensazione adrenalinica di uno sterzo duro, di un viaggio pericoloso, la sensazione di essere sorpassato da tutti, di essere bestemmiato per la mia lentezza, per la mia prudenza sulla strada. Volevo riprovare quel senso di immobilità che mi dava quella macchina, così vecchia da non accelerare mai, come se il pedale non funzionasse davvero, come se spingerlo non servisse a nulla; quella macchina che mi aveva insegnato a guidare, con quei sedili tutti rotti, bloccati, con i finestrini lenti e una leggere puzza di chiuso, sempre presente, dal primo giorno.

Stavo per scappare, fuggire via da quel posto, ormai una prigione, quando il mondo si è bloccato: forse un segnale, anche se è troppo stupido pensare che Dio mandi una tragedia solo per farmi capire qualcosa.

Ma esiste veramente Dio?

Così sono rimasto qui, in questa vecchia casa costruita in una località marina, vuota in questo periodo dell’anno: c’è solo un negozio dove fare la spesa, ma il commesso non ama parlare.

Ci sono io, c’è Giulio, Roberto e Maria, basta.
Loro vogliono me e io voglio loro.
Poi c’è la macchina da scrivere che muove i nostri fili.
C’è la vecchia Twingo fuori, immobile.
Giorni tutti uguali, fatti di parole e nuvole nel cielo, fatti di respiri e pasta con il tonno.
Non ho nemmeno il wi-fi, solo una vecchia Tv dove danno il telegiornale.

Sono vecchio già a 28 anni.
Maria, Roberto e Giulio hanno rubato la mia giovinezza, hanno rubato i sogni che avevo, mi hanno addomesticato.
Vorrei che il mondo conoscesse questi tre ragazzi, vorrei che il mondo leggesse quello che provano, vorrei che il mondo li amasse come io li amo, ma non credo succederà, non credo lasceranno mai quelle parole.

Certe volte Maria inizia ad urlare parolacce, di solito contro di me. Non riesco a fermarla: è così forte, così determinata, vorrebbe non avere paura di amare il piccolo Roberto, così perso nella bellezza della sua amica.
Un bravo poliziotto, dovrebbe essere libero di esprimere la propria dolcezza verso qualcuno, ma è incatenato dal contorto amore, stupido e irrealizzabil.
Poi Giulio: lui spesso piange per le ingiustizie nel mondo, per le lettere che scrive ai suoi genitori e che lascia ristagnare nei suoi zaini, per le persone che vede nei pullman e su cui vorrebbe scrivere, per i pensieri malinconici che lo accompagnano mano nella mano.

Quanto durerà ancora tutto questo?
Quanto ancora dovranno rubarmi?
Quanto ci metteranno ancora a prendere un corpo loro e a farmi fuori?
Mi odiano e sono arrabbiati con tutti, usciranno dalla macchina da scrivere e sarà la mia fine.
Sarà bello per qualche attimo vedere le loro facce, i loro occhi.
Le mie creature, i mie figli che taglieranno il mio corpo e ruberanno quello che ancora sarà rimasto.

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di Antonella Dilorenzo

Illustrazione di Simona Settembre


Ho visto un morto sul ciglio della strada.
È successo ieri sera mentre tornavo dall’appuntamento con rocky43,
il coglione di Tinder di cui mi ero innamorata per il suo viso orientale.

Era figo in foto. Peccato che solo all’incontro abbia scoperto che quelle cazzo di foto non erano sue, ma di Nagase Tomoya, un giapponese famoso.
Me l’ha detto, si è scusato.
Ma la serata è andata a finire male: la conversazione si è interrotta a metà Spritz.

Viaggiavo a velocità sostenuta con la mia Matiz scassata che sta venendo via a pezzi. “Mai una gioia”, pensavo, quando all’imbocco del raccordo dall’Aurelia ho inchiodato di botto incolonnandomi in una fila infinita di auto che procedeva a passo d’uomo.
Niente di nuovo. Traffico noioso. Vita noiosa.
A Roma è così: rimani incolonnato per ore nel traffico e non sai mai il perché. Arrivi alla fine della fila con l’ansia di conoscere il motivo, e magari non c’è nulla. La colpa è solo degli automobilisti curiosi che rallentano per guardare magari un cane che passeggia, o un tipo che piscia sulla corsia d’emergenza, oppure carabinieri in procinto di fare l’alcol test a qualche ragazzino. Rallentano, commentano da soli o con il passeggero accanto, e poi riprendono la loro velocità. Se c’è una situazione grave o qualcuno in pericolo, il rallentamento può solo aumentare. Credi che almeno qualcuno si fermi ad aiutare, per esempio, ma nulla.
Solo lunghe colonne di macchine lente.

Stavolta la questione era seria.
No cane, no piscio.
C’era un morto sul ciglio della strada e i curiosi erano tanti, ma nessuno accostava per fare il proprio dovere.
Nulla.
Era coperto con un telo bianco. Solo, immobile.
Tutti abbiamo bisogno di una degna sepoltura. Pure lui.
Mi è preso il panico.

Superato il morto, ero tra Montespaccato e Casalotti/Boccea e non potevo lasciarlo lì da solo. Ho deciso di prendere la prima uscita e rifare il giro.
No, non ho paura dei morti.

Il primo cadavere l’ho visto a 7 anni, quello della nonna Rosetta. E di lì in poi è cominciata la serie funerea della mia famiglia e dei vicini di casa, tutti anziani.
Ho visto nonno Filomeno morto stecchito dopo essersi scolato un cartone di Tavernello; la comare Agatina, pure lei morta sul colpo dopo essere caduta all’indietro trasportando otto forme di cacioricotta nella sporta.

I morti non mi fanno paura. Tant’è che andare ai funerali era diventata una festa di paese: rivedevo i miei cugini, e i nipoti dei
vicini. Tutti insieme a giocare fuori dal cimitero mentre seppellivano il vecchietto di turno. I morti non mi fanno paura e quello andava assistito. Era una questione di principio: perché nessuno si ferma?
Che stronza la gente!
Volevo dare anche un senso a quei venti minuti di fila che mi ero fatta per aspettare le comari che guardavano senza avvicinarsi.

Superata l’uscita di Montespaccato mi sono messa sulla corsia destra procedendo a 30 km/h circa onde evitare di perdermi il corpo esanime. Sarei andata lì, avrei preso i documenti, il cellulare e avrei chiamato la
Polizia.
Procedevo lentamente, e tra lampeggianti e colpi netti di clacson alle mie spalle, ho trovato il mio morto.

Ho accostato in corsia d’emergenza, sono scesa dall’auto lasciando i fari accesi puntati sul cadavere e mi sono avvicinata. Lungo, steso sull’asfalto c’era un telo bianco, uno di quelli che si usano per fare gli striscioni da portare allo stadio. Il morto non mi è parso coperto bene, il telo era disordinato.
A debita distanza con il pollice e l’indice della mano destra l’ho sfilato facendomi coraggio. Grande respiro. Uno, due, tre, via.

Sotto c’era l’asfalto.
Era solo un telo. Aggrovigliato. Nessun morto.
L’ho sgrullato d’istinto come a voler cercare quel cadavere: ma come?
Io avevo visto il morto!
Ma l’unica cosa reale era la scritta su quello striscione:
“Genitore 1, Genitore 2 #iosonogiorgia”.

Ho lanciato il drappo del cazzo in aria e mi sono infilata in auto.
Ho preso dalla borsa la bottiglia d’acqua e nel cercarla mi è caduto tutto: chiavi, rossetto, fazzoletti e la custodia dei miei occhiali da miope.
Con dentro gli occhiali da miope.
Li avevo tolti per mostrarmi più bella al finto giapponese.

Li mortacci sua!

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di Davide Ceraso

Illustrazione di Simona Settembre


Il 4 è come un bisturi affilato, taglia l’asfalto al suo passaggio e lo ricuce dietro a sé con binari metallici, una cicatrice che divide a metà la città deserta.

Alzo lo sguardo e vedo la nebbia della sera deformare i contorni di case e automobili, ologrammi offuscati di altre esistenze le cui dinamiche, oggi,appaiono insignificanti,lontane anni luce dal mio interesse. D’improvviso sporco e umidità solleticano i gas ionizzati che di rimando scintillano sul pantografo del tram, un lampo accecante che ferma il tempo soltanto per un attimo prima di riavvolgerlo su se stesso. Mi volto e le luci stroboscopiche della discoteca costringono le mie pupille a contrarsi. Poi la scorgo tra le ciglia di occhi socchiusi,poco prima che il cervello metta a fuoco l’immagine.

Ride. Alza un calice di vino. Sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Ci salutiamo. Parla muovendo le mani. Fisso le sue labbra. L’incavo del collo profuma di mandarino, sandalo e vaniglia. Dita intrecciate. Macchie di rimmel sulla mia camicia. Rossetto sbavato. I nostri respiri si perdono uno nell’altro.
Viola abbraccia il mio corpo, nuda, mi stringe e sento i suoi seni premere contro il petto mentre promette che sarà per sempre…

Il tram sobbalza su uno scambio, una mioclonia notturna che riporta la realtà in primo piano e spezza il filo dei ricordi. Lo stridio dei freni rallenta la corsa in prossimità della fermata. Una coppia si alza. La donna, magrissima, è fasciata in un abito rosso plissettato, l’uomo vestito con un impeccabile smoking le tiene una mano intorno alla vita. Sembrano fantasmi, forme vacue, pennellate di colore in panorami vuoti, come i ballerini nei dipinti di Vettriano.
Le porte scorrono verso l’esterno e la notte penetra fulminea nella carrozza con freddi tentacoli che avvolgono le mie gambe provando a tirarmi ancora più a fondo. Resisto, i muscoli irrigiditi dall’acido lattico. Intanto la coppia scende sulla strada buia, il tram riparte con uno scossone e il finestrino sudicio riflette i protagonisti dell’ultima corsa di giornata,volti celati da maschere alla disperata ricerca di momenti che valga la pena ricordare. La vita, d’altronde, è solo un susseguirsi di attimi, ma ci sono attimi che dividono la vita stessa in un prima e in un dopo. E questo è certamente un dopo.

I Blur sussurrano alle mie orecchie quanto sia tenero dormire con qualcuno disteso al tuo fianco.
Impreco sottovoce. Questa notte sarò da solo, per la prima volta dopo molti anni, l’insonnia quale unica confidente cui chiedere il perché Viola abbia raccolto la sua roba e sia andata via per sempre. Non abbiamo avuto figli. Li abbiamo cercati senza che fossero mai una priorità, andava bene a entrambi, una sorta di muta rassegnazione condivisa.
Ci piaceva viaggiare ma ho più fotografie che ricordi.
Leggevamo uno a fianco dell’altra, separati da centimetri che parevano distanze sconfinate,perduti in storie più attraenti della nostra. Forse non era abbastanza.

Sfilo le cuffiette e sento in sottofondo i singhiozzi sincopati di una ragazza che piange e i respiri profondi di un uomo che sonnecchia disteso senza scarpe sui seggiolini. Davanti a me, un poco a sinistra,siede una madre con un bimbo sulle ginocchia. È vestita a strati, quasi indossasse ogni capo del suo esiguo guardaroba. La pelle del viso è un dedalo di rughe profonde che corrono lungo i lineamenti spigolosi, i capelli sono arruffati come pelo di cane randagio. Il bambino, avrà sì e no cinque anni, dondola in sincronia con il tram, la schiena dritta, le braccia lungo il corpo. Sua mamma lo abbraccia, gli carezza le guance, la fronte.
Quella donna non ha nulla, né soldi, né fortuna, né un lavoro, forse neanche un futuro, ma il figlio è il pieno che riempie il vuoto di una vita intera.

Una voce metallica gracchia monotona, avverte i passeggeri che la fermata successiva sarà il capolinea. Io sarei dovuto scendere prima, così da rinviare l’eco dei miei passi tra i muri spogli di una casa ormai priva di sogni, ma non riesco a distogliere lo sguardo dalla donna con il bambino. È il modo in cui lo stringe a sé che contorce le budella, che intorpidisce i sensi, che blocca il diaframma nel mezzo di un respiro. Poi il tram si ferma di colpo, le luci sfrigolano e le porte mostrano il mondo esterno con un ronzio. Mi guardo attorno e nessuno si muove.

Allora rimango anch’io qui, immobile, in apnea, testa china, seduto dentro la carrozza di un tram fermo al capolinea e aspetto senza far nulla, aspetto come tutti quelli che non vogliono scendere da vite a loro modo al capolinea…

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di Federico Cirillo

Alle 2 di notte la vita sul 90 è sempre uguale: tanti posti liberi, qualche passeggero che riposa testa e pensieri sul vetro unto e opaco, un paio di ragazzi che, in piedi, cercano di reggere se stessi e tutto l’alcool che hanno mandato giù, biascicando commenti mentre scorrono la timeline di chissà quale social.

Tutto questo e poi io, che come ogni giovedì ho finito il turno intermedio e aspetto a Termini che ‘sto bus, già in moto, riparta e la smetta di vibrare.  Tutto è come sempre qui dentro e così decido che  anche per me è arrivato il momento di staccare il cervello e di abbronzarmi la faccia con lo schermo dello smartphone.

Non faccio in tempo a sbloccarlo che, come in un testo Shakespeariano, mi ritrovo in compagnia di tre entità: tre donne, una di fianco e due di fronte, si materializzano e mi guardano, come in attesa che io faccia un gesto, un qualcosa, un…

F: Aó, ma te voi sbriga’?

I: eddaje e sblocca

F: dai su Paoletto che c’hai già ‘na notifica…eccola!

Paolo: ma che cazzo? Ma chi siete? Come conoscete il mio nome?

(ridono tutt’e tre)

T: buongiornoDaniele, buongiornoLuca, BuongiornoSonia, BuongiornoPaolo

Paolo: buon…giorno, ma che??

I: il tuo nome? Ahahah ma noi conosciamo tutto di te…

F (inizia a leggere da uno smartphone che tira fuori dalla tasca dei jeans): Paolo Miccari, 33 anni, single, ti piacciono le donne, nato il 18 aprile 1986, ateo, lavori presso FS Ferrovie dello Stato, hai frequentato la facoltà di Ingegneria di Tor Vergata dal 2005 al 2013 – 8 anni, complimenti, ce la siamo presa comoda eh? – 1132 amici, vivi a Roma ma sei nato a Lanuvio, iscritto ai gruppi: sei di Lanuvio se…, Lanuvio unita per il clima, Sardine dei Castelli tutt* in Piazza, Lanuvio Bella&Brutta, Teneri Musetti (lo guarda con aria ironica a sfottò)

Paolo: sì…vabbè era per la mia ex, le mandavo…oh ma insomma??

F: (riprendendo) Smezziamo nel Mezzo del Racconto – mica male bravo – Cuore Giallorosso, Il Romanzo della Roma. Libri preferiti: le frasi più belle di Oisho…continuo?

I: No te prego fermate…guarda Paolè, lascia perde mi zia che sta sempre a fasse i cazzi degli altri…ci facciamo un selfino? (si mette in posa abbracciando voluttuosamente Paolo e clicca) ecco qua: filtro Juno che qua c’è poca luce, hashtag picoftheday, viaggioinbus, Rome, noidue – basta che poi so’ troppi – e ci registriamo a…Terrazza Termini, fa un sacco cool. Dai, postala, che famo rosica’ tutti. Poi facciamo anche una storia, anzi una decina con un po’ di musica, un po’ di GIF, loghi…

T: Greta Thunberg fotografata con la madre su una poltrona da 9.000€ in vera pelle di animale: ritwitto?

F: ma che ritwitti, guarda qua (prende il telefono di Paolo) ci sta un gattino piccolo dolcissimo, lo postiamo con un po’ di glitter e una frase in maiuscolo: QSTO GATTINO E’ PER IL BUONGIORNO DAL MIO CUORICINO, KONDIVIDI IL MICETTO PER UN GIORNO PERFETTO, SE IL GATTINO HAI IGNORATO I TUOI AMICI HAI INDINNIATO, BASTA NEGRI CHE SPACCIANO ALLA STAZIONE DI LANUVIO, STOP AL DEGRADO, TOLLERANZAZERO ETCETCETCETC….che dici posto??

T: L’Europa ci affossa! Italia fuori dall’Euro, ORA! Il Parlamento Europeo è tutta una montatura pan Germanica ecco la dimostrazione. Che faccio Ritwitto e Commento?

I: aó cì, guarda che Laterizio2005 sta live adesso…che dici gli facciamo sapere che ci siamo????

(si accavallano una dopo l’altra)

Paolo: oooh e basta un po’!!! Ma che Laterizio2005 è il figlio di mio cugino (riprende il telefono), e tu (girandosi verso T) che ritwitti e commenti, manco ce l’ho mi sa l’account Twitter

T: Ce l’hai: iscrizione effettuata il 5 maggio 2012. Primo Tweet un’accozzaglia inutile forse copiata dal Laboratorio di Satira di Spinoza e modificata per farla sembrare tua (patetico), hai pure sbagliato l’hashtag…

Paolo: no, è che ai tempi…aó ma fatti i cazzi…anzi fatevi i cazzi vostra…e tu (girandosi verso F che prova a riprendere il telefono) fermate che me fai posta’‘ste cose brutte, ‘ste cose da…cinq..

F: NO! Non dire 50enni che me incazzo!!! Io sono nata coi pischelli, postavamo cose fighissime neanche ieri…

I: eh e mo te ritrovi coi vecchi davanti ai cantieri. Rassegnate zia, è così…spazio ai giovani. Piacere Instagram me trovi nelle app, nella cartella Social, so’a più fashion…me posti?? (accattivante).

Paolo (imbarazzato ma un po’ lusingato e ammaliato): pi…piacere mio…Paolo…che…che devo fa’?

F: Ma lo vedi che sei aggressiva? Non lo vedi che lo spaventi? Basta che metti in mostra ‘ste due…’ste due cose (indicandole il seno) e pensi che sei sulle timeline de tutti i regazzini. Che poi guarda (indica un giovane che con cuffie e telefono si riprende e commenta un gioco ad alta voce) te stanno a preferì Twitch ah bella, altro che tette! Voi fa’ la fine del mio ex marito Youtube eh? Che mo se sta a accolla’ ai terrapiattisti?? Sfigato!!
Comunque piacere mio, (rivolgendosi di nuovo a Paolo) sono Facebook, mi riconosci, sono sempre attiva e ho ben due app. Perché non condividiamo qualcosa, dai…posso riattivare i poke se me lo chiedi,  dai mettiamo un like a CommentiMemorabili?? Giochiamo a PetSociety o a Farmville? Te lo ricordi…avevi certe zucchine! Dai…

Paolo: Mamma mia è un incubo…e tu quindi saresti…(rivolgendosi a T)

T: (meccanica) Twitter piacere, scusa sono presa da una miriade di informazioni non riesco a seguirvi e poi mi sa…aspetta…(urla) TIE’ (Facebook e Instagram si addormentano come svenute improvvisamente proprio mentre il bus si ferma ad uno stop) #Instagramdown e #Facebookdown ! Che figata…guarda come viaggio adesso, ah ridicole! Hashtag “e allora Bibbiano!” Hashtag “mai con Salvini!” Hashtag “Governo Giallorosso!” “Sapevi che la curcuma può guarire dalle lesioni alla spina dorsale? Clicca qui…”, l’ho trovato su Telegram, il mio fratellino piccolo. Dai clicca qui, qui, qui…qui RITWITTAMI!!

Si svegliano F e I e insieme                                                                                  

F,I: aó uccellino del malaugurio nun ce prova’ più, eh? Paolo è dei nostri vero? (strattonandolo)

T: No Paolo, usa me! Informati, diffondi, debunka, analizza, crea una nuvola di hashtag…(cercando di portarlo verso di lei)

Ad un tratto si fermano tutt’e tre e, vedendo che Paolo a iniziato a sorridere a una ragazza seduta dall’altro lato, si girano prima verso di lei e poi di nuovo, guardando Paolo…

F: aó , ma che stai a fa’??

I: ah cì,  guarda che stai a fa’‘na cazzata!

T: Ah coso, quella è minorenne

I: ma guarda questo, se vole butta su TikTok

F: ah bello, a noi quelli come te ce fanno schifo.

T: Ma sai che famo? Te scaricamo noi.

I: ciao sfigato (facendo il segno dell’ hashtag)

L’autobus si ferma al capolinea, Paolo scende e nel mentre disinstalla tutte le app Social dal telefono.

Paolo: oddio che incubo…meglio WhatsApp a sto punto guarda…ma che… (arriva un messaggio proprio da WhatsApp nello stesso momento):

“Ciao Paolo, a Mamma, ti volevo dire che da oggi Whatsapp sarà a pagamento. Se vuoi mantenerlo gratuito invia questo messaggio a 400 persone…”
Paolo: NOOOO!!

Fine.


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Degli effetti della privazione del sonno (e degli anni ’90) 

di
Matteuccia Francisci

Presento tutti i sintomi della privazione del sonno, mentre trascino i piedi per Via Altomonte nel mio non-luogo dell’anima, l’Anagnina.
 Cattivo umore, irritabilità, incapacità di prendere decisioni, viso pallido.
La discesa all’infero della stazione sembra donarmi qualche giovamento.
Anelo al buio e al sottoterra neanche fossi una revenante.

Tremori, viso gonfio, ce li ho proprio tutti, perfino… alterazioni della vista? Sulla banchina mi sembra di vedere una maglietta dei Take That. Impossibile, dai, non esistono più. Arriva il treno, troppa luce. Leggo Metro per far scorrere il tempo. È stato un periodo all’insegna di elezioni ovunque, ma la foto è riservata al calcio. Piccolo piccolo, in basso, qualcosa sulle elezioni europee e, ancora, sulla Brexit, i suoi effetti e le sue ultime conseguenze. 
 
Mentre lotto con la nausea e sfoglio le pagine, odo a destra squillare le parole: 
«Non posso ancora credere di averlo visto così da vicino. Ma quanto è bello Gary?» .
A sinistra risponde un’altra voce:
«Quando hanno fatto Back for good stavo morendo, senti che voce che ho, mi sono sgolata». 
E attacca… Back for good dei Take That. 
Davanti a me due ragazze di non più di 20 anni. Magliette della prima boy band della musica (o sedicente tale). Cellulare con video e commenti live: «O mio dioooooooooo!». 

Presento tutti i sintomi della privazione del sonno, ma il suono lo sento davvero: il telefonino della ragazza di sinistra squilla. 

«Ciao mamma, sì siamo arrivate, l’aereo da Londra è atterrato in anticipo, siamo già sulla metro. Bellissimo, mamma, è stato il più bel regalo di compleanno che mi abbiano mai fatto, mi hai regalato un sogno».  
Nella mia mente rimbomba il colonnello Kurtz (L’orrore! L’orrore!) mentre comprendo che queste due ragazzine sono di ritorno da Londra: sono andate a sentire – l’orrore! l’orrore! – i Prendi Questo.  

Presento tutti i sintomi della privazione del sonno. 
Era il 1995 o lo è di nuovo? Forse loro non erano neppure nate ancora. Margaret Thatcher si era finalmente levata dai coglioni, dopo 10 anni di un governo che alcuni ancora ricordano come salvifico. Tra gli altri, i sostenitori dell’apartheid e Augusto Pinochet. La Margherita ora è morta, rispondendo al gentile invito di S. P. Morrissey. Pinochet pure. Ma i Take That no, fanno ancora concerti e le pischelle ancora ci vanno.
Nel Regno Unito ci sta una donna con la faccia cattiva come quella di Margherita. Hanno le iniziali scambiate, ma gli stessi tailleurini blu e collane di perle, il medesimo rossetto rosso su labbra piccole che quando sorridono fanno paura. Come Carmilla di Le Fanu, che si chiama anche Mircalla e Millarca.

Vabbè a breve andrà via anche lei, la Teresa il 7 fa la sua exit…ma poi? Magari arriva un Simon Le Bon ciccione e invecchiato che al posto del fascino pop trash da Duran Duran è solo trash. Torneranno Gigi D’Agostino, Gabry Ponte e Berlusconi senza la cravatta e le maniche arrotolate? Berlusconi senza cravatta… ah! Panico. Accanto a me un ragazzo ha le mèches bionde, le ragazzine canticchiano Could it be magic e la vampira mi guarda dal quotidiano gratuito: Teresa, forse? Ho paura.  

Presento tutti i sintomi della privazione del sonno e mi sento male: «A livello mentale si è rilevata una maggiore vulnerabilità nello sviluppare patologie psichiatriche quali stress, ansia, depressione, paranoia, aumento del rischio di suicidio e raramente episodi psicotici». 

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di
Federico Cirillo

Gli altri. È sempre pieno di altri qui sul 23.
Tutti diversi ma tutti così diversamente accomunati da una cosa: il tragitto. Anzi no, in realtà da due cose: il tragitto e farsi i cazzi degli altri
Ed eccoli qua: 

«Te dico che è così a Fa’…non ce volevo crede!» 
«Si, ma è assurdo! Ma lei non se n’è mai accorta?» 
«Ma chi, Camilla? Macché! La conosci mi sorella no? Se fidava. D’altronde stanno insieme da quando so’ regazzini!» 
«Si, però checcazzo! Io posso pure capi’ co n’altra, lo posso accetta’: ma così è pesante eh» 
«Pesante sì. Pensa che l’ha sgamato a vede pure i video sull’internet: gli ha preso il telefono e ha trovato di tutto! Foto, video, messaggi co tutti quelli come lui!» 


«Assurdo, assurdo, n’ce se crede. Ma poi così, senza un cenno de preavviso o un sintomo?» 
«Eh, così, all’improvviso. Che poi comunque lui ha sempre fatto parte del gruppo nostro e noi bene o male, stiamo sempre a parla’ de quello. Però, guarda, te posso dì che sinceramente lo vedevo sempre un po’ diverso, sempre sulle sue e a disagio quando se ne parlava…tipo faceva il vago, interveniva poco, non se schierava mai…». 


«Vabbè, ma che c’entra? Uno può pensa’ che non abbia il chiodo fisso e ok.  Ma addirittura così diverso no, dai! Così dell’altra sponda, te l’aspettavi? Eddaje Riccardi’…così no: guarda, io non ce lo facevo proprio. Ma senti, mica l’ha saputo tuo padre? Magari l’ha sentito in giro…? No perché ‘ste cose, lo sai è n’attimo che…». 
«No, no fermate, per adesso no. Gliela stiamo a tene’ nascosta…capirai se devono pure sposa’. Pora Camilla, guarda che pena…st’infame». 
«E tu madre? Che dice tu madre?» 
«E che deve di’? S’è fatta tre segni della croce e s’è rimessa a stende’ i panni…ma che doveva fa’ quella pora donna? Non ce se crede…dopo anni…e ce lo siamo pure portati dentro casa… ‘tacci sui» 
«Assurdo…me fa schifo» 

Così, quella sera, tra Lungotevere Tebaldi e Lungotevere Aventino, sul 23 era scesa una pesante cappa di silenzio.  
 
Poi, d’improvviso, il coraggio di un uomo. Vabbè un ragazzotto in realtà: alto bene o male la metà dei due energumeni e largo quanto l’avambraccio tatuato di uno di essi.  
Occhialetti da vista tondi, pashmina bordeaux e ciuffo scomposto ondulante, decide di affrontare le curate sopracciglia, in quel momento corrugate, dei tipi.

«Bestie – urla non riuscendo a trattenere la rabbia – e trogloditi! Ecco cosa siete! Ma vi rendete conto voi di quello che dite?  “Me fa schifo”, “assurdo” “diverso” e “quelli come lui”.
Sapete una cosa? Siete voi che mi fate specie…e no – azzittendo con fermezza uno dei due con un movimento repentino di un dito – non cercate di interrompermi che ho ragione.
Come potete fare commenti del genere su un ragazzo che ha capito la sua vera natura? Come potete, voi, giudicarlo diverso?
Ignoranti, buzzurri e trogloditi! Ancora con questi luoghi comuni sugli omosessuali e sugli orientamenti sessuali. Che pena, mi fate!». 
Così, girandosi di scatto, scende stizzito a Marmorata, continuando a bofonchiare. 

«Che cazzo ha detto? » riprende uno dei due, sbigottito e mezzo imbarazzato: «Che c’entrano i froci mo’? Mica perché sei della Lazio devi esse pure frocio…e poi – sporgendosi dal finestrino per urlare in direzione del tipo ormai lontano – me stanno pure simpatici a me…- tornando a parlare con l’amico – i froci, mica i laziali!». 
«Anfatti». 

E soddisfatti scendono dal 23, ad Ostiense. 

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di
Luca Betti

Stamattina sono stato piccolo piccolo (e mi è piaciuto molto).
Ore 8:20: autostrada A14 tra Castel San Pietro e San Lazzaro di Savena, corsia di sorpasso.
Velocità: una decina di km oltre i limiti.

All’improvviso un patacca.
Un patacca dalle nostre parti è uno sbruffone. Di quelli che li vedi da lontano.
Con la sua utilitaria smaragliata (elaborata, pimpata, personalizzata e chi più ne ha più ne metta) lo vedi farsi largo nello specchietto retrovisore a velocità smodata.
Chi mi segue o lo precede si butta a destra per fargli posto. Pista arriva il patacca.

Tocca a me. Solo una cosa in autostrada mi dà più fastidio di chi mi “fa gli abbaglianti”, quelli che ti si incollano al paraurti. È pericoloso stare ai 140 km/h a 10 cm di distanza. È per questo che hanno inventato la distanza di sicurezza.
Il patacca opta per la doppietta: si aggancia e inizia a “farmi gli abbaglianti”.

Alle 8:20 di stamattina divento piccolo piccolo.
Non rallento, non accelero e, solo dopo mezzo minuto, decido di farmi a destra.
Lo guardo mentre mi sorpassa per fargli sapere cosa sto pensando di lui. Il patacca fa la stessa cosa. La convinzione sua è che se la sua macchina fa i 160 km/h lui ha diritto di fare i 160 km/h sempre e nessuno lo deve intralciare.

Torno della mia dimensione, potrei restare “piccolo” e mettermi alle sue spalle facendogli gli abbaglianti, ma sono tornato grande e maturo e non lo faccio. Smetto di pensare al patacca e mi riconcentro sulla guida. 3 minuti dopo devo uscire. A San Lazzaro.

Ed ecco all’improvviso la grande livellatrice: la sbarra del casello.

All’improvviso torno piccolo piccolo.

I miei occhi scorgono in fila per il pagamento in contanti l’utilitaria smaragliata del patacca. Sono sempre più piccolo. E non mi tengo più.
Rallento quanto basta per immettere la sagoma della mia utilitaria nella corsia dell’uscita con Telepass. E lo guardo.
Il patacca è innervosito dall’attesa. Spero che quello davanti a lui si sia fermato lontanissimo e non riesca a mettere i soldini o a darli al casellante. E il patacca sta perdendo tempo. E io ora sono piccolo piccolo e mentre io passo e lui sta fermo voglio che lui sappia che io so. Deve saperlo.
E allora suono il clacson e lo guardo.
Sono piccolo piccolo, lo guardo e lui mi guarda e sono certo che ha capito.

E io godo.

In modo infinitamente piccolo godo.

 

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di
Stefano Pupazzi

Faccio petizione, Signora Sindaca, urgente e accorata petizione.

Mica contro gli immigrati, Signora Sindaca; non contro gli sbevazzoni della movida.
Io faccio petizione contro i ciccioni, ecco.
Sì, perché il problema è diventato pesante (è il caso di dirlo).

Che fastidio mi danno le trippe? Glielo spiego subito, e credo che Lei potrà trarne profitto: se non sbaglio ha qualche grana con l’azienda dei trasporti… Mi chiede che ci azzecca il lardo con gli autobus, vero? Mi faccia esporre i miei argomenti con calma e saprà.

Lei forse non immagina quale squisita esperienza estetica sia per me prendere i mezzi la mattina. Ogni giorno io prendo il 20 e mi ritrovo immerso nell’arte: mi si fanno dinnanzi ridondanti matrone, veneri callipigie; vedo le pance fiamminghe dei piccoli borghesi e i visi incitrulliti dei putti di Botero. E soffoco, fra seni felliniani e cosce elefantiache. Tutto ciò, Signora Sindaca, mi capita quando riesco a salire; non è raro, però, che un muro adiposo mi costringa ad attendere l’autobus successivo.

Dunque? Dunque c’è un problema di spazio: perché le persone normali come me devono arrivare tardi al lavoro o, comunque, rischiare l’asfissia? Non Le dico poi l’olezzo di stallatico emanato da alcuni dei nostri ben pasciuti amici.

Tutto qui? No, Signora Sindaca, io non penso solo a lamentarmi; io ho in mente qualcosa di grande per la nostra azienda di trasporti. E allora mi ascolti: offriamo ai cicciabomba una bella cura dimagrante. Forzata, ovviamente. Si tratterebbe di fare una liposuzione obbligatoria a chiunque sia in sovrappeso (scelga Lei i parametri per definire che cosa si intenda per persona in sovrappeso: un aficionado di Pitran, un frequentatore seriale di fast food ecc.).

Vedrà allora che lo spazio negli autobus sarà di nuovo sufficiente: questo vuol dire che non ci sarà bisogno di aumentare la flotta (son paoli sparambiati, badi bene) e che tutti arriveremo puntuali al lavoro (con conseguente aumento del PIL). Ma siccome non si butta niente, io ho un’altra proposta da farLe: usiamo il grasso raccolto per lubrificare i motori degli autobus, così magari non prenderanno fuoco dopo una settimana di utilizzo (nessuna polemica, per carità).

Ecco perché faccio petizione, Signora Sindaca: perché io voglio trasformare i problemi in opportunità.

Cordialmente Suo,

Stefano Pupazzi

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di
Matteuccia Francisci

 

L’uomo in giacca e cravatta è molto stanco. È venuto a Roma per chiudere un contratto e non c’è riuscito. Piove ed è già buio, quando arriverà a casa sua a Rovigo sua figlia starà dormendo.

«Mi sto perdendo gli anni migliori di mia figlia» pensa.

«Però è vero che Roma è bella quando piove, come dice la canzone» dice al tassista che lo sta portando alla stazione Termini.

«Roma è bella sempre» gli risponde il tassista «Come dice il gladiatore? Roma è la luce».

«Eh, a proposito di luce, ieri sera camminavo per i vicoli del centro storico e mi hanno detto che hanno sostituito le luci con le lampadine a led»

«Lassamo perde, ha visto quanto so’ brutte? Sembra de sta’ in discoteca. Oppure all’obitorio. La notte deve essere buia, se illumini tutto cosa ti resta da immaginare?»

Addirittura, pensa l’uomo in giacca, ho incontrato il tassista filosofo.

«Beh, però con la luce uno si sente più al sicuro no? E poi con le lampadine a led si risparmiano un sacco di soldi» tenta di controbattere.

Errore, a quel punto il tono del tassista si alza.

«Ma al sicuro de che? Ma risparmia de che? Qua se so’ magnati tutto e mo’ vonno risparmia’ du sordi illuminando la città come fosse Tokyo? Ma qua mica stamo ‘n Giappone, qua ce camminavano imperatori, pittori, scultori, regine. Ma come fai a mettere il nuovo in una città che è storia in ogni sasso? Come fai a immaginatte de cammina’ vicino a Michelangelo se stai sotto ‘na luce che pare n’interogatorio de polizia? E ‘nnamo su. E poi le lampade del centro storico se le rivendono sulle bancarelle. Robba da chiodi.»

L’uomo in giacca è stanco, l’uomo in giacca abita a Rovigo. Che è proprio brutta, si dice tra sé e sé.
L’uomo in giacca sa che ora deve prendere un treno e tornare in un posto brutto. Dove vive bene, e dove troverà i grandi amori della sua vita, sua moglie e sua figlia, ma che è proprio brutto a confronto di Roma.

Quando a Rovigo piove, l’uomo in giacca si sente marcio dentro, mentre adesso che passa per le strade bagnate di Roma, pur stando dentro al taxi si sente come parte di un tutto.

«Ma nessuno dice niente?» chiede al tassista.

«Certo, tutti si sono ribellati, come al solito qua non è colpa de nessuno, nun se sa chi ha ordinato cosa. Roma è ‘na caciara dotto’. Ma è abituata, de qua so’ passati tutti e tutto, Roma sopporta».

«Certo, certo» l’uomo in giacca è sempre più stanco e si è ricordato perché non si è mai voluto trasferire a Roma pur dovendoci venire molto spesso per lavoro. È questa prosopopea romanesca che gli ha sempre dato fastidio, questo vivere nel passato, in una gloria ormai passata. E basta, pensa l’uomo in giacca, siamo nel 2017 e Michelangelo è morto da un sacco di tempo. Le lampadine a led fanno risparmiare e magari riuscite a tappa’ qualcuna di queste buche che il tassista sembra conoscere una per una visto che le prende tutte.

«Che poi, dotto’, er buio è il fondamento dell’amore» continua il tassista, ormai inarrestabile nei suoi filosofeggiamenti.

«In che senso?» chiede l’uomo, mentre si slaccia la cravatta a pois. Sta pensando di non metterla più, sta pensando che porta sfortuna, che avrebbe dovuto mettere quella rosa. Con quella sì che avrebbe chiuso il contratto.

«Ma lei lo sa quante pischelle me so’ caricato nei vicoli bui de Roma quann’ero ragazzo? Quelli de oggi che fanno, je fanno la visita odontoiatrica co ‘ste luci bianche da ospedale?»

L’uomo in giacca ride. Una risata larga, liberatoria, che gli distende il diaframma. E si ricorda perché ama venire a Roma. Qualunque cosa succeda, si diverte sempre, si fa sempre un sacco di risate con i romani.

«Voi romani siete come le donne, non puoi vivere con loro ma neanche senza».

«Se ride pe’ nun piagne, dotto’. Ecco, semo arrivati, so’ 35 euro».

Eh, fate piangere gli altri con queste tariffe, pensa l’uomo in giacca.

«Arrivederci, la prossima volta che vengo voglio andare a vedere queste bancarelle, magari riesco a portarmi un po’di luce romana a Rovigo»

«Quanno vole dotto’, c’ho un cugino che lavora all’ACEA, m’ha detto che se ne volevo una me la procurava senza problemi, le lascio il mio numero».

L’uomo in giacca si rimette a ridere, mentre prende il biglietto dell’uomo che gridando allo scempio della sua città ne fa merce allo stesso tempo.

Ma forse ha ragione lui, Roma è ‘na caciara ma è abituata.

 

Questi sono gli articoli che hanno ispirato il racconto: 

Se le lanterne storiche (rimpiazzate dai led) vanno a Porta Portese

Le «Lanterne Roma» sostituite da anonime lampadine a led. La consigliera dei Radicali Naim: «Roma è Città storica e patrimonio Unesco, nessuno ha chiesto pareri»

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di
Leonardo Vigoni


Come al solito
, sali sull’autobus delle 7:35 e, come al solito, siedi al tuo posto (è uno dei quattro in fondo all’autobus, meglio se nel verso di marcia).

Poggi il piede destro tra i due sedili davanti a te e sfili l’iPod dalla tasca sinistra con la mano opposta.
Lo fai scivolare dall’alto sotto la maglietta tenendo le cuffiette ai lati del collo – ognuna nel verso giusto – e lo accendi. Come al solito, conti i quattro secondi e mezzo che impiega per accendersi, resetti il brano in esecuzione, alzi il volume di due, mandi in play come al solito dal tasto laterale, alzi nuovamente il volume – questa volta fino al massimo – e, come al solito, lo riponi nella stessa tasca con il jack rivolto a sinistra.

Come al solito, sistemi lo zaino davanti a te, cinghie allo schienale.

La lampo più grande è chiusa simmetricamente rispetto alle altre? Sì.
Le stringhe scendono dritte ai lati? Sì.

Lo hai posizionato esattame … Diavolo! Possibile che quel tipo al posto dietro l’autista con i capelli rasati e un neo a due terzi tra l’orecchio e l’asta destra dei suoi occhiali blu notte poggiati sulla testa non sia in grado di non ripetere io ogni otto parole (tredici quando il tono della voce è più basso)?! Dannazione, ti ha pure distratto.

E per non farti mancare nulla, una goccia di condensa è caduta dal sistema di areazione dritta sul tuo maglione marrone, creando una macchia più scura larga almeno cinque fibre. Considerando la forza con cui è caduta e risalendo alla sua probabile dimensione originaria, prevedi che si allarghi di almeno due fibre per lato.

Quell’uomo seduto al posto dei disabili che è salito tre fermate prima non si è nemmeno accorto che la sua cravatta ha una piega a sinistra del nodo. Deve essere un principiante; probabilmente è anche destrorso. Sì, le unghie della mano destra lo confermano. Sono tagliate in modo disgustoso.

Finalmente l’egoista ha interrotto la chiamata. Deve aver commesso qualcosa di grosso: non fa altro che sfregarsi la mano, ora.

E questa vecchia seduta davanti a te vicino al finestrino? Accidenti, capisco che non hai un’anima a farti compagnia e vuoi parlare “di tuo marito morto nella Battaglia di Vittorio Veneto il 26 ottobre durante i festeggiamenti per aver respinto gli invasori”. Peccato che tu soffra di demenza senile e sia fuggita da una casa di cura. Il braccialetto al tuo polso ne porta anche il nome. Ah, tanto per la cronaca: la battaglia è terminata il 4 novembre, dunque cercati un’altra storia.

E quei tre alle porte centrali? Andiamo, che urto i fidanzatini talmente innamorati da non rendersi conto di come la propria compagna sia invece innamorata di un altro – proprio del terzo della compagnia, a quanto pare… fratello di lui? In fondo lo spessore delle labbra è lo stesso e le sopracciglia sono uguali; entrambi, poi, hanno gli occhi azzurri chiazzati di rosso, sintomo di un albinismo oculare difficile da scambiare per coincidenza.

Dio… ancora dieci fermate! Questa mattina è un’agonia. Quella donna accanto alle porte se non chiude immediatamente quella borsetta che lascia intravedere quell’assorbente rosa, farà una brutta fine.

E quell’idiota dell’impiegatuccio annodatore-incapace che ha dimenticato il portafogli sul sedile?
Andiamo, Cristo, è troppo facile così! E quando è troppo facile non ti diverti, ma piuttosto cazzo ti imbestialisci!

Oh sì, se ti imbestialisci… e lo sai cosa succede quando accade, sì?!

Devono tutti ringraziarti, però… l’assassino-per-caso egoista che ha finalmente mostrato i calzini bianchi macchiati di sangue ancora fresco… la signorina adultera che tradisce il compagno addirittura con il fratello, il quale – mi dispiace, tesoro – è un omosessuale con tendenze suicide (i tagli sui polsi ti eccitano? Che pervertita!)… per non parlare di quella lì, che va al lavoro fingendo di avere il ciclo per salvarsi dalle ramanzine del capo! Ci vai già a letto, vero bellezza? O vuoi dirmi che quella cravatta nella borsa è tua?! La nonnina, poi, non la devi nemmeno considerare: dal colorito della sclera le puoi dare un’altra settimana prima che il tumore le mangi il cervello e cada in coma, se la fortuna è dalla sua parte.

Beh, almeno una ricompensa ce l’hai: è il portafogli dell’impiegatuccio. Ora ti alzi e lo prendi, così scopri dove abita. Ma guarda… il documento è di un altro! Divertente…

Facciamo così: appena torniamo a casa, io e te, e riprendiamo la pistola che da idiota hai lasciato all’ingresso, prenderò io il controllo e farò una visitina al fortunato che si è fatto derubare da qualcuno che con quelle mani farebbe meglio a farsi un nodo scorsoio attorno al collo con la cravatta …

Un caricatore sarebbe bastato, se l’avessimo avuta con noi fin dall’inizio?

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di
Gualtiero Titta

 

Capitolo IV

Credono di aver capito chissà cosa, di aver scoperto l’assassino o aver svelato un grande mistero, ma le telecamere di oggi vedono anche al buio. L’uomo della metro ha tentato di avvicinarsi alle ragazzine, voleva salvarle, tirarle via da un destino segnato, ma è rimasto intrappolato nella folla. Ha raccolto il cellulare da terra e lo ha consegnato al controllore. Soltanto questo.

Se non fosse per i corpi estratti da sotto il treno nessuno direbbe sia successo qualcosa in quei secondi. La fermata è di nuovo chiusa ma domani sarà riaperta, solo perché tenerla così vorrebbe dire bloccare la linea intera, infestare le strade con chissà quante altre macchine e paralizzare il mondo.

 

«Ao’… Scusa pe’ prima…», dice il controllore buono. «Io però gliel’ho detto subito che non c’entravi niente.»

«Grazie», risponde l’uomo della metro in piedi davanti a lui, rannicchiato nel suo cappotto.

«Però ’na cosa… Me dispiace, ma te ne devi anna’ comunque…»

L’uomo della metro non reagisce alla notizia, sembra non esserne capace. Riesce solo a sedersi nel suo angolo e guardare il muro della galleria davanti a sé, fissando il vuoto.

«Non ce posso fa’ niente. La gente s’è lamentata, e poi ce sta pure chi pensa che sei stato te.»

«Ma…»

«Che te devo dì? Già s’ammazzano da soli, ce manca pure che tipo te dànno foco pe’ vendicasse.»

Il controllore si china sulle ginocchia, cerca lo sguardo dell’uomo della metro, senza trovarlo.

«Stanotte puoi sta’, poi domani insomma… Ecco…»

«Va bene… Stanotte va bene.»

 

Il rumore dell’ultimo treno diretto al deposito arriva fino ai binari davanti all’uomo della metro. È notte, ma qualcosa nei suoi occhi sembra voler dire che non ci sarà più tempo per riposare o tentare di dormire. Beve un sorso d’acqua da una bottiglietta di plastica spiegazzata, tira fuori dalla tasca del cappotto il pacchetto di sigarette e i fiammiferi. Ne sono rimasti pochi, rimbalzano uno sull’altro nella scatolina di carta. Prova ad accendere il primo ma, quando la scintilla diventa una fiamma, un soffio di vento freddo la spegne. L’uomo della metro cerca un’ombra nel buio della galleria, senza trovarla. Prova ad accendere il secondo, il terzo, ma i fiammiferi sembrano essere bagnati dalla luce che inizia a dissolversi, fino a sparire.

L’uomo della metro alza lo sguardo verso l’unico neon che balbetta segni di vita. Respira, beve l’ultimo sorso d’acqua e si alza. Non c’è altro da fare: deve entrare nella galleria.

 

Cammina, i passi rimbombano uno alla volta tra i muri e i binari. Si avvicina una mano agli occhi ma non vede nemmeno quella. Il tunnel dell’intera linea sembra essere al buio. Lo squittio di alcuni topi gli passa di fianco veloce, lasciandogli un brivido lungo il collo. Il vento freddo soffia leggero dietro di lui, lo invita a fermarsi o a scappare via da tutto, a dimenticare per sempre quello che è rimasto da vedere. L’uomo della metro cammina, non cede, continua a camminare senza mai fermarsi, fino a quando una luce si accende su una banchina in lontananza. La raggiunge, ma quello che trova non è che il suo angolo, lo stesso posto di tutti quegli anni, lo stesso spazio di sempre. È tornato dov’era, il buio lo ha riportato al punto di partenza. Non potrà mai scappare.

L’uomo della metro avanza, poggia una mano sul muro per risalire, ma qualcosa lo paralizza. Il sangue si gela. Da un lato c’è il buio appena attraversato, che ora sembra un luogo da rimpiangere, dall’altro due bambini, tornati in questo mondo solo per poco.

Respira profondo, prende coraggio e guarda…

[Continua…]

 

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di
Gualtiero Titta

 

Capitolo V

I due bambini sono fratelli, uno appena più grande dell’altro. Sembrerebbero gemelli se non fosse per qualche centimetro di differenza. Giocano con un pallone di carta a ridosso della linea gialla. Il più piccolo dei due provoca l’altro, lo sbeffeggia dimostrandogli che non lo potrà mai battere. L’altro sta al gioco, accetta la sconfitta ma il più piccolo insiste per giocare ancora. Continuano, ridono, mentre il treno in lontananza si avvicina percorrendo la galleria. I due bambini giocano, ognuno cerca di segnare all’altro in due porte immaginarie grandi come tutta la stazione. Il treno è sempre più vicino. Il bambino più grande segna, esulta, smentisce ogni pronostico e vince la partita, ma il fratellino non ci sta e corre verso di lui. Vuole una rivincita immediata, non è abituato a perdere. Il più grande si gira, non lo guarda, cammina esultando con le mani al cielo in equilibrio sulla linea gialla. E il più piccolo lo spinge, con tutte le forze. Per scherzare, per reagire, per dimostrare a sé stesso di non essere in grado di perdere. È un gioco da bambini, nient’altro.

Il più piccolo rimane in piedi, pietrificato di fronte al suo gesto, di fronte al corpo del fratello ora sparito fra il treno e i binari. Stavano giocando, non l’ha fatto apposta, deve essere stato qualcosa, un fantasma, non può averlo spinto lui.

 

L’uomo della metro osserva la scena dall’altro lato della banchina. Guarda il bambino paralizzato ed è come se tutto tornasse insieme, venendo fuori da quel buio. Vede sé stesso, trent’anni prima, nel momento che lo ha imprigionato per sempre, costringendolo a nascondersi, a rimanere fermo in quella colpa.

Ora invece è la luce a tornare, è già mattina, la fermata riapre, e di quella scena rimane traccia solo nei suoi ricordi ritrovati. Passano i primi treni, le persone salgono, scendono, nessuno sembra in pericolo. Del vento freddo nessuna traccia.

Basta uno sguardo del controllore buono a far capire all’uomo della metro che è arrivato il momento di andarsene e togliere il disturbo. L’uomo raduna le sue poche cose in uno straccio arrotolato, piega il cartone come fosse una tovaglia ricamata, si alza ma lascia tutto a terra. Cammina verso il controllore, senza più nulla. I neon sembrano accorgersi dei suoi primi passi. Le voci delle persone si rincorrono sulla banchina, sembra poterle sentire tutte, percepire ogni sguardo fin dentro la pelle. Credono sia lui ad aver spinto i ragazzini, ed è come se lo accusassero ancora, per sempre.

 

Il treno è a una fermata di distanza, la luce inizia a fare scherzi. Ed ecco anche il vento freddo a rigare gli occhi di tutti. Il controllore buono si avvicina, lo scorta tra la folla con una mano sulla spalla. L’uomo della metro sente che il momento è vicino, si guarda intorno cercando di capire chi sarà la prossima vittima. Vede qualcosa, un movimento sospetto di due ragazzini che rubano gli occhiali a un compagno più piccolo e iniziano a spintonarlo verso la linea gialla. Il treno è in arrivo. L’uomo della metro scosta la mano del controllore, corre verso di loro. Sembra essere in gara col treno a chi arriverà prima nel buio. Accelera, supera i due ragazzini e spinge via il più piccolo verso il muro, finendo lui al suo posto, senza potersi più guardare indietro.

 

È quasi mezzanotte, la stazione è pronta ad essere chiusa. L’ultimo treno si dirige al deposito, mentre i passi del controllore buono rimbombano tra i muri. Riguarda i filmati delle telecamere un’ultima volta. Rivede quel momento in cui l’uomo della metro si è staccato da lui e si è buttato sui binari salvando il piccoletto, che ci ha rimesso solo gli occhiali. Vorrebbe tornare indietro di qualche ora, qualche giorno al massimo e dare più peso alle sue parole, ma non sarà possibile. Meglio pensare che quelle storie sui fantasmi fossero solo i deliri di un pazzo vissuto per anni sottoterra. Meglio così.

Uno degli schermi mostra ancora la banchina in diretta. Il controllore nota lo straccio arrotolato e il cartone, rimasti lì a terra, nel solito angolo. Scende. Forse almeno le sue cose meritano una specie di sepoltura.

 

Il controllore raccoglie tutto ma una sigaretta cade a terra, rotola, e al balbettare di un neon si accende da sola. Il fumo viene aspirato via tutto in un attimo, sparendo nella galleria. Il sangue nelle vene si scuote in un brivido. Vorrebbe girarsi e sfidare lo sguardo del buio, ma non lo farà. L’uomo della metro aveva ragione. Lì non c’è nessuno, solo qualcosa che non si fa mai vedere.

 

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di
Gualtiero Titta

 

Capitolo III

È mattina presto, i cancelli della fermata cigolano e riaprono. La pioggia bagna le scale più di quanto dovrebbe. Ricomincia tutto, nessuno parlerà più di quel suicidio.

La banchina accoglie le prime persone, ma il treno non arriva, lo schermo elettronico non funziona. L’uomo della metro dorme ancora, si sveglia solo quando la ressa diventa quella dei giorni peggiori. È finito lo spazio anche per girarsi, risalire e tornare a casa. Del treno nessuna traccia, mentre le persone si moltiplicano. La sigaretta consumata è ancora lì, accanto al cartone, come a testimoniargli che quello che è successo non può essere ignorato. L’uomo della metro si fa piccolo nel suo angolo, si guarda intorno. Cerca quell’ombra della notte prima, ma non c’è nessuno, soltanto centinaia di sconosciuti in attesa di iniziare la giornata.

L’orologio segna quasi le otto. Lo sguardo cade allora su un gruppo di ragazzini diretti a scuola. Ridono, scherzano, due classi intere pronte ad andare chissà dove a perdere una mattinata. Lo zoo, il planetario, un museo pieno di sassi di un’altra epoca. Li osserva per capire se sia tra loro la prossima vittima, e il vento freddo soffia di nuovo. Sì, succederà ancora. Lo sa, i neon prossimi a spegnersi gli dicono tutto, ma quello che non ha capito è che oggi sarà peggio di ieri e domani peggio ancora.

 

Il controllore buono scende ad annunciare che il treno è in arrivo. Il vociare si dissolve in un sospiro di sollievo. L’uomo della metro lo guarda facendogli cenno di avvicinarsi. Il controllore lo raggiunge, svicolandosi tra le persone.

«Dormito bene, sì?»

«Fermate il treno.»

«Eh?»

«Fermate il treno.»

 

Dall’altro lato della banchina due ragazzine si tengono per mano accanto a una professoressa appena più alta di loro. Si scattano una foto con il cellulare, inchiodano quel momento sugli schermi di chi potrà solo ricordarle. Non importa di che colore abbiano gli occhi o i capelli, come passano i pomeriggi o cosa vorrebbero fare tra qualche anno. Non importa più, non è mai importato. Il treno è vicino, il macchinista è un altro, ma non cambierà nulla.

Le due ragazzine si guardano, poggiano la testa l’una sull’altra, ancora assonnate. Lasciano la professoressa indietro di qualche centimetro, poi di qualche passo. Il treno sbuca dalla galleria. Si muovono tutti verso la linea gialla, hanno aspettato troppo per non salire adesso. C’è chi spintona fingendo di essere spinto, chi guadagna spazio un millimetro alla volta. Il controllore lascia l’uomo della metro seduto, a ripetere di fermare il treno, e prova a calmare le persone. La luce si spegne, il treno si avvicina. Il controllore urla di stare calmi, le corse sono riprese, ne arriveranno altri, ma nessuno sembra capire. È il buio a cambiarli, a isolarli da qualsiasi altra cosa, a muovere tutti verso i binari. È il vento freddo a rendere ogni passo più pesante, impossibile da fermare.

L’uomo della metro vede qualcosa in mezzo alla folla. Qualcosa che si sposta senza lasciare traccia, senza farsi mai vedere. Si alza, prova a raggiungerlo, ma non c’è più tempo. Il vento freddo spinge le due ragazzine sui binari. Sembra sia stata la ressa, o che siano cadute da sole, saltate giù anche loro. Si guardano quasi senza sapere dove siano finite. La loro foto sul cellulare illumina il soffitto in cerca d’aiuto, dalla banchina. La gente non vede, il buio riempie gli occhi di tutti, nessuno può capire. Ogni urlo rimane soffocato, le ragazzine si abbracciano. Il treno frena, ma è troppo tardi.

 

La luce si riaccende. Nessuno sa cosa sia successo, sono solo sparite, scomparse. Il controllore buono si fa largo tra la folla, si avvicina ai binari, chiama i soccorsi, ma sarà inutile anche questo. Si gira verso l’uomo della metro, convinto di trovarlo nel suo angolo, ma sul vecchio cartone non c’è nessuno. È lì dietro, a pochi passi da lui, in mezzo al fiume di persone che lentamente si dissolve in preda al panico verso le scale d’uscita. Non sembra sapere neanche lui il perché del suo essere lì. Trema, stringe qualcosa fra le mani. Abbassa lo sguardo all’avvicinarsi del controllore.

«Che c’hai in mano?»

L’uomo della metro non risponde, svelando il cellulare delle ragazzine tra le dita.

[Continua…]