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Ultimo Indizio

di Stefania Coco Scalisi

Illustrazione di Anastasia Coppola

Quelle parole le risuonavano in testa mentre si rigirava nel letto, sperando di convincere il sonno a usarle la gentilezza di degnarla di un po’ d’attenzione.

Cosa poteva significare?
Era da quando aveva lasciato quel ragazzo delle consegne sotto l’albero un paio d’ore prima che ci pensava.
Castelli in quella città non ce ne erano, o meglio, c’era una specie di fortezza normanna, di quel solido color grigio pietra che a tutto faceva pensare fuorché al verde.

No, non poteva essere quello il castello verde dell’indizio: quella fortezza evocava saccheggi e catene, l’unica cosa verde a cui poteva associarlo era quello delle muffe delle sue celle sotterranee. Doveva concentrarsi su altro. Forse era il verde la chiave di volta dell’enigma? Forse erano i colori il grimaldello per scoprire la verità?
Fu a quella conclusione che giunse mentre finalmente le si chiusero gli occhi e il suo corpo iniziò a scivolare lentamente nel sonno dei giusti.

Quando la mattina si risvegliò, ci mise un attimo prima di capire dove fosse.
Aveva la bocca impastata e la fronte imperlata di sudore, complice il caldo innaturale e la massa di capelli che aveva dimenticato di raccogliere dietro la nuca. Un vero schifo.
Fu solo il bip del cellulare che riportò definitivamente la sua attenzione alla stanza e a quel letto.
Che fosse un altro indizio?
Con un fremito ingiustificato lo prese in mano e mise a fuoco il testo sullo schermo:

“Non dimenticate il vostro appuntamento per il vaccino. Ore 10.20, Unità Vaccinale Mobile, Piazza Federico di Svevia”.

Il vaccino! Come aveva fatto a dimenticarlo? Aveva preso quell’appuntamento settimane prima e ora, presa da quella smania, l’aveva totalmente rimosso. Forse era il segnale definitivo che quella storia le stava sfuggendo di mano, che doveva smettere di cercare quel bar segreto, che stava diventando pazza in nome di un cocktail.

Guardò l’orologio.
Erano le 9.30.
Si lavò rapidamente e nel giro di mezz’ora era già sulla sua vespa diretta verso il luogo dell’appuntamento.
La strada era piuttosto trafficata ma conosceva la città come le sue tasche e si muoveva sul motorino come uno scippatore in fuga con una borsetta.
Sarebbe arrivata in tempo.

E infatti, alle 10.10, era già davanti alla tendostruttura bianca e leggera, che spiccava nel suo candore in quella piazza sovrastata dall’enorme castello dietro di lei. Castello.
Quello era il castello normanno della città. Che fosse…?
Parcheggiò il motorino davanti l’entrata dell’unità vaccinale, in un angolino che sembrava aspettare solo lei, all’angolo con la macelleria Verde Pascolo. Castello, verde.

Ebbe un giramento di testa. E se..? No, non doveva farsi illusioni, non era così.
Non poteva essere così.
E se non fosse stato così, il suo povero cuore non avrebbe retto.
Scacciò quel pensiero dalla mente. Erano comunque le 10 del mattino e certamente un bar segreto non poteva aprire a quell’ora. Si mise in fila. C’era parecchia gente, ma tutti rispettavano il proprio turno ordinatamente.
Si entrava pochi per volta, ognuno secondo il numerino che aveva ricevuto al momento della prenotazione.

Alle 10.20 in punto, la chiamarono.
Compilò dei moduli piuttosto lunghi e dettagliati e dopo qualche minuto fu invitata a entrare per la sua dose.
Il medico che la accolse era un ragazzo piuttosto giovane, forse appena laureato, che tentò subito di metterla a suo agio parlandole un po’ del più e del meno.

«Allora, pronta per il vaccino?»

«Si, grazie. A dire il vero l’avevo proprio dimenticato. Se non avessi ricevuto un messaggio sul cellulare non mi sarei presentata».

«Ma davvero? Eppure non si parla di altro in questi giorni!»

«Sì, ma sono stata presa da altro. Una scemenza a dire il vero. Guardi se ci penso mi viene da ridere».

«Sono indiscreto se le chiedo di cosa si trattava?»

Lo guardò.
Era un modo di metterla a suo agio o era semplicemente un ficcanaso?
Rispose con un misto di riluttanza ed imbarazzo.

«Ma guardi, difficile da spiegare. Una specie di caccia al tesoro a indizi. L’ultimo era castello verde.
Ma davvero, non mi faccia dire di più che mi sento una stupida!»

«Come ha detto scusi?»

«Che mi sentirei una stupida»

«No prima. Ha parlato di una caccia al tesoro e un indizio, castello… »

«Castello Verde. Una cosa senza senso. È più di una settimana che perdo la testa dietro questi indizi. Sarà la solita scemenza tipo catena di Sant’Antonio e ci sono finita dentro».

Il medico si fece improvvisamente silenzioso.
Le fece la puntura in tutta fretta e le mise un cerotto.

«Mi segua».

«Prego?»

«Mi segua da questa parte. Deve compilare un ultimo modulo».

«Ok».

Fece per seguirlo.
Lo vide imboccare un piccolo corridoio e scostare una grossa tenda bianca.
Quel posto era molto più grande di quanto potesse sospettare.
Scostò anche lei la tende e all’improvviso le sue ginocchia cedettero.

«Alla fine ci ha trovati! Brava!».

Davanti a lei un piccolo bancone bar, pieno di bottiglie e bicchieri. E dietro al bancone, il medico di prima.

«Non era facile vero? Gli indizi cambiavano sempre perché ci spostiamo in continuazione. E poi non aveva senso farli troppo facili, sennò dove sta il divertimento?»

Lei fece di si con la testa, totalmente incapace di parlare.

«L’idea c’è venuta così, una mattina. Tutto è partito dal fatto che abbiamo un frigo in più che restava sempre vuoto. Poi come vedi- posso darti del tu?- di spazio ce ne è e di tempi morti pure. Di solito serviamo i drink quando gli appuntamenti finiscono. Ma se vuoi possiamo fare un’eccezione. Che ti servo?».

Continuava a fissarlo come un’ebete. Non capiva se per lo stupore o per la gioia.

«Un oldfashioned si può avere? Cioè a me piace quello col succo di mirtilli, però non so…»

«No mi dispiace. Noi possiamo solo servire cose classiche, sai, è pur sempre un centro vaccinale!»

«Certo, scusa. Va bene un oldfashioned classico allora?».

«Un po’ fortino a quest’ora ma ok. Però promettimi che non ti muovi di qui per almeno mezz’ora, in caso ti girasse la testa».

Annuì.
Lui le porse il cocktail.

«Fanno 8 euro, grazie!».

Pagò.
Lui le diede il resto.

«Ora devo andare. Tu resta quanto vuoi! E goditi il tuo drink. Te lo sei meritato».

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Colazioni Salate View More

di Stefano Tarquini

Illustrazione di Diaz


Il parcheggio buio sembra una fetta di groviera andata a male, con tutti i suoi buchi e crateri nell’asfalto.
Miriam li schiva con disinvoltura e guida via veloce, scomparendo nella notte assorta di provincia.

Nino se la guarda dallo specchietto retrovisore e la scia degli stop rossi rimane solo un ricordo, disegnato nell’aria pesante di un giorno nascosto nel silenzio soffuso di semafori dal giallo intermittente.

Ogni lunedì, Miriam è di riposo e la mattina fa tapis roulant.
Dopo aver fatto la doccia improvvisa una goffa messa in piega che le dura dieci minuti, ma che a lei piace lo stesso, e si trucca gli occhi mentre asciuga lo specchio dal vapore che ha riempito il bagno, con lo stesso panno in cui aveva avvolto i capelli in un turbante.
Mangia un boccone con Elvira, la sua coinquilina di buona famiglia, che potrebbe avere una casa tutta per sé ma preferisce così, un po’ per andare contro i suoi, un po’ perché ancora crede di essere veramente indipendente, pur essendo ricca.
Poi si fa mezza Roma in macchina per fare l’amore con Nino, che il lunedì fa solo pranzi ed ha la sera libera.

Lui si fa la doccia al Mulino, una vecchia pizzeria col forno a legna dove lavora da quando è ragazzino, in un piccolo bagno/spogliatoio improvvisato che non ha finestre, in cui Mario, detto Don Chisciotte, il vecchio proprietario dal cuore grande e dal baffo arrotolato ai bordi della bocca, scrisse, con un bianchissimo Uniposca su un piccolo specchio venti per venti: vietato cacare.

In realtà avrebbe dovuto scrivere vietato pippare, ma era stato un fottutissimo cocainomane, e quel bagnetto angusto aveva ospitato, nei vent’anni precedenti, la crema dei drogati e delinquenti della zona. Poi però aveva cercato di trasformare il Mulino in una pizzeria per famiglie, e in parte c’era riuscito, ma aveva lasciato tutte le cose com’ erano. Diceva che gli servivano per ricordare.

Lo specchio e la scritta erano ancora lì e tutti quelli che avevano lavorato al Mulino ci si erano fatti una foto: camerieri, aiuto cuochi, pizzaioli e cocainomani.

Le foto sono quasi tutte attaccate con una puntina alla parete dietro la cassa, ma nessuno dei clienti ci fa caso mentre paga o è in fila. Non sanno che posto sia quello, loro possono usufruire del bagno apposito al piano di sotto, dove si può aspettare il proprio turno in un ambiente confortevole, con un divano comodo, due candele profumate e la filodiffusione.

Oggi Nino le ha portato una busta di supplì fatti da lui.
Mangiare era un ottimo diversivo per tutti e due.
Miriam adorava parlare di cibo e di ricette, e si esprimeva quasi solo con modi di dire che poi diventavano una specie di loro linguaggio privato.
Appena conosciuti ad esempio, rispondeva ai messaggi porno di Nino con un secco: faccio finta di non aver letto, o, in caso di messaggi vocali, di non aver sentito.
Adesso lo usa rispondendo a messaggi di altro tipo, come parte di un codice tutto loro.

Oggi, per esempio, se n’ è uscita con una delle sue massime sulla prima colazione, il «pasto più importante della giornata».

«Uno dei periodi più belli della mia vita è stato quando il dietologo mi aveva prescritto la colazione salata: una fetta di pane bruscato col prosciutto crudo i giorni pari, col salmone i dispari, accompagnato da una spremuta di arance rosse senza zucchero. Che bei tempi, quelli!»

Secondo Nino, invece, il fritto una volta a settimana è come un elisir di lunga vita: riattiva il suo povero fegato ingrossato, torturato da una vita di eccessi. Le loro dritte approssimative sull’alimentazione corretta li facevano ridere così fragorosamente e con gioia, da non volere più smettere di farlo.
E a volte non lo facevano, se ne stavano lì a ridere e ridere, fino a non poterne più.

Miriam ha un Opel Corsa nera, con un vecchio adesivo attaccato sopra la targa, che non si ricorda neanche più dove l’ha preso: mortacci tua!
Lui arriva sempre prima di lei all’appuntamento e dà una pulita veloce ai sedili, sbattendoli alla buona e aprendo i finestrini per far cambiare l’aria.

Poi arriva lei con i suoi occhi luminosi.
A volte neanche si salutano, in pochi minuti si ritrovano mezzi nudi sul sedile posteriore, tanto hanno voglia di fare l’amore, e una volta venuti entrambi, si guardano negli occhi: «Ciao, sei proprio tu?».

Quasi sempre lo rifanno un’altra volta, ma solo dopo essersi cullati l’uno negli abbracci dell’altra e raccontati gli alti e bassi della settimana.

«Hai portato i supplì? Sìì!» E mentre infila la mano fino ai polsi nella carta unta che ancora fuma, Miriam gli racconta che la sera prima ha provato a fare pasta e fagioli per la prima volta.
Le era venuta disastrosamente buona, orgogliosamente fitta, ma sciapissima e con la cipolla tagliata troppo grossa. Elvira era di bocca buona e l’aveva divorata, dice, ma le aveva anche fatto notare quei particolari, e questo l’aveva un po’ divertita e un po’ offesa.

Nino stappa la bottiglia di acqua minerale con l’accendino, facendo rimbalzare il tappo oltre il tettuccio apribile da cui sta entrando la notte, scende e lo raccoglie subito per non lasciare tracce del loro passaggio.
Lasciare pulito ovunque è una cosa che si porta dietro da sempre, da quando era cresciuto con una nonna e due cani, e aveva dovuto imparare velocemente sia le buone maniere che a fare la lavatrice.

Da due settimane beve solo acqua perché la prossima deve fare le analisi per rinnovare la patente.
Esattamente sette anni prima, proprio quello stesso giorno, aveva avuto un brutto incidente e i carabinieri che erano intervenuti lo avevano sottoposto ad un alcol test molto positivo, facendolo entrare in un percorso amministrativo estenuante.

Lo racconta spesso: «Quando vado a fare gli esami al Pertini, in mezzo a tutti gli altri colleghi di sbornia, sono l’unico che ammette di aver bevuto davvero. Tutti gli altri inventano scuse con sé stessi, tipo: io stavo lucidissimo, io solo mezzo bicchiere, l’alcol test è fasullo, eccetera eccetera».
Lui non se ne vergognava, però se quella maledetta sera non avesse bevuto, sarebbe stato decisamente meglio.

Miriam è al terzo supplì e parla con la bocca piena.
Nino di solito la ascolta senza interrompere.
La loro storia è tutta qui: tanti bei ricordi e un odore di fritto che riempie la macchina.

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di Luca Cassarini

illustrazione di Anastasia Coppola

“Per quanto il mondo possa sembrarti assurdo, non dimenticare mai che offri un bel contributo a questa assurdità                                con il tuo agire o con il tuo astenerti.”

(Arthur Schnitzler, “Libro dei motti e degli aforismi”)

«Biglietto, prego».

Il controllore Antonio Prevosti era sempre lo stesso, da anni.
Decano dell’azienda municipale di trasporti in quella piccola cittadina di frontiera, assieme a cappellino e divisa d’ordinanza indossava sempre un leggero profumo a buon prezzo.
In quel momento attendeva che uno dei pochi passeggeri della corsa delle 10 e 23 esibisse il proprio titolo di viaggio. Teneva chino lo sguardo sotto una montatura di occhiali alla moda, dando ogni tanto leggeri colpi di tosse.
Abile nel suo mestiere, riconosceva a prima vista biglietti scaduti o tarocchi, ed aveva fiuto per quelli usati più del dovuto.
Non sembrava questo il caso, fortunatamente.

«Ecco a lei», annunciò il passeggero dopo una ricerca parsa infinita.
«…Grazie».
«A lei».
«Buon proseguimento di viaggio».
«Hmm-hmm».

Il viaggiatore, uomo sulla cinquantina, barba rada a coprirgli il viso, tornò a sprofondare nel seggiolino della corriera. Sapeva che il viaggio non sarebbe stato troppo breve, ma erano passati anni, se non decenni, dall’ultima volta che si era prestato ad un’esperienza del genere. Solitamente andava in macchina, tuttavia per un malaugurato incastro del destino la vettura era dal meccanico e lui aveva un appuntamento inevitabile, sicché aveva scrutato con rassegnazione l’orario dei mezzi pubblici che collegavano le sua città con la destinazione voluta.
Bestemmiando leggermente, aveva visto che ne passava uno ogni ora e mezza, per cui si era ulteriormente rassegnato a prendere il primo disponibile per poi aspettare, una volta giunto nella città di K., il tempo dovuto.
Un bar o una panchina della piazza non avrebbero fatto troppa differenza.
In fondo, era un tipo paziente.
Lo dicevano tutti quanti, ed era vero.
Con la sua stoica pazienza si sistemò dunque sul sedile, ed iniziò presto a sonnecchiare.

«Biglietto, prego».

Il controllore, che di nome faceva sempre Antonio Prevosti, lo destò dal suo torpore.
Erano già arrivati? L’uomo sulla cinquantina, ma potevano essere anche poco più di quarantacinque, in quelle fasce d’età indefinite dove sfumano le differenze nette, guardò dapprima fuori, quindi verso il proprietario di quella voce. Per un attimo pensò di aver cambiato linea alla fermata immaginaria dei suoi sogni. Notò con sospetto che era lo stesso di prima, e si chiese come mai tornasse a chiedergli la medesima cosa. Forse se n’era dimenticato, oppure era la prassi dell’azienda. Per certi aspetti avrebbe voluto protestare, ma la richiesta era tutto sommato legittima e garbata, e contro la legge sempre meglio non avere grane.
Mai, e di nessun tipo.
Sbuffando leggermente, tirò fuori il suo biglietto.

«Ecco a lei».
«…Grazie».
«A lei».
«Buon proseguimento di viaggio».
«Hmm-hmm».

Cercò di cogliere punti di riferimento per capire quanto potesse mancare  all’arrivo, ma la strada era abbastanza omogenea nel suo imperterrito scorrere, i cartelli sfrecciavano troppo in fretta perché potesse leggerli bene, forse si sarebbero fermati da qualche parte e avrebbe potuto fare mente locale.
Era certo che sarebbero arrivati a breve, questioni di decine di minuti, al più.
Iniziò a guardare fuori dal finestrino cercando di cogliere qualcosa di interessante al suo sguardo, e che lo aiutasse a passare il tempo.
Tanto valeva arrangiarsi con quel che offriva il convento.
Ovvero, un paesaggio che scorreva sempre uguale a se stesso.
Rimase presto ipnotizzato dal viaggio.

«Biglietto, prego».

Il controllore, che si chiamava ancora Antonio Prevosti, d’altronde c’era solo lui a compiere quella noiosa incombenza sulla tratta, stavolta lo prese veramente alla sprovvista. In effetti, si era incantato nel loop del viaggio.
Il rollio delle ruote sull’asfalto era sottofondo costante e, per certi aspetti, soporifero.
L’uomo, che poteva anche avere un’età quasi prossima alla pensione, stemperò la tensione in corpo con una dose d’ironia, canticchiandosi in testa: “Ancora tu, ma non dovevamo vederci più…?”.
Quanto tempo era trascorso? Mezz’ora, un’ora? A breve sarebbero pur dovuti giungere a destinazione, no?

Si azzardò a dire: «Scusi, ma…».
«Biglietto. Prego», ripetè il controllore, con la pazienza di chi ne aveva viste tante. Abbastanza nervoso, l’uomo glielo porse mezzo sgualcito e spiegazzato.
«A lei».
Il controllore impiegò un tempo infinito nello scrutarlo adeguatamente, su ambo i lati, onde evitare brutte sorprese. I cosiddetti portoghesi erano una costante nel tempo e nello spazio, leggende tramandate da generazioni di controllori.
«Grazie», disse infine allo stralunato passeggero, con un reiterato cenno professionale.
«…»
«Buon proseguimento di viaggio».
«…»

Non ci stava capendo più nulla.
Presto sarebbero arrivati a destinazione, ne era certo.
Gli pareva che il sole fosse stabile lassù in cielo, ma le giornate sembravano avere una durata immensa, d’estate.
E la strada somigliava ad una striscia di asfalto senza fine, dilatata dallo spazio e dal tempo.
Ad un certo punto sentì distintamente uno strambo rumore.
Si guardò veloce attorno, sulla corriera era rimasto solo lui.
Ignorava dove potessero esser scesi tutti gli altri, era sicuro non fosse stato l’unico passeggero a salire su quel mezzo, chissà quanto tempo prima, chissà dove.
Stava perdendo ogni riferimento spazio-temporale, in quell’andirivieni costante ed assurdo.

Antonio Prevosti, il medesimo controllore di poc’anzi, e prima, e prima ancora, sgusciò tutt’un tratto in mezzo al corridoio dell’autobus.
La sua faccia era ermetica come quelle dei tutori dell’ordine.

«Biglietto, prego» chiese puntiglioso, scandendo bene le parole.
Il passeggero, di un’età indefinita e abbastanza stravolto, per poco non si mise a piangere, o gridare.

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di Diana Colombre

Illustrazione di Stefania Brandini


Il cielo, livido per le percosse di invisibili giganti, sanguinava un’acquerugiola fine.
C’era un’atmosfera d’immota attesa nella campagna desolata.
Guardai il mio orologio da polso: le quattro meno un quarto del pomeriggio.
Si sapeva tutti che di lì a poco sarebbe successo qualcosa, eppure si aveva l’impressione che la Natura stesse ritrattando, indecisa, come chi si propone di intervenire a un discorso ma poi desiste, rimanendo a bocca aperta senza emettere alcun suono.
La notizia era stata divulgata dal telegiornale della sera prima: quest’oggi alle cinque sarebbe finito il mondo.

Io non avevo ancora deciso se crederci o meno e poi, comunque, se la Terra si fosse disintegrata proprio alle diciassette in punto, che altro si poteva fare se non tirare avanti fino a quel momento?
L’Espresso iniziò a rallentare innalzando un lamento lugubre di mastodonte ferito a morte.
Raccolsi la mia roba – l’impermeabile, il cappello e una ventiquattrore – dal sedile affianco al mio e uscii dallo scomparto accendendomi distrattamente una sigaretta.
La carrozza era vuota fatta eccezione per una coppia di anziani coniugi che si trascinavano appresso un paio di borsoni blu deformati dal loro stesso contenuto.
La donna mi sorrise. Non so perché.

Gettai nuovamente lo sguardo all’orologio mentre scendevo dal predellino: le quattro e cinque minuti.
Scrollai la testa, quel treno era puntualmente in ritardo.
M’incamminai verso casa, avevo una gran voglia di rivedere mia moglie e i miei due figli, Christian e Davide, di sette e undici anni.

Di autobus, naturalmente, nemmeno l’ombra.
Un sentito ringraziamento alle solitamente tanto bistrattate Ferrovie che almeno avevano garantito alcuni treni a lunga percorrenza (sebbene ciò si dovesse più che altro alla solitaria ostinazione di qualche macchinista).
Spensi ciò che restava della mia sigaretta in uno di quei posacenere da esterno che l’amministrazione comunale aveva sparso per il concentrico in cerca di consensi.
La città pareva semi-deserta salvo il passaggio occasionale di qualche auto stracarica di persone e oggetti.
Chissà dove credevano di potersene scappare.
Molta gente si era barricata in casa, ma dei disordini e degli atti vandalici della notte precedente rimanevano ormai solo vetri rotti, parchimetri divelti e carcasse d’auto incendiate.
Evidentemente l’annuncio diffuso dal tg aveva fatto presa su molti.

Sembrava che la città fosse già morta, fottendosene alla grande del tempo che le era stato ancora concesso.
Un ultimo, rabbioso smacco inflitto alla bomba a orologeria che ticchettava e ticchettava e che avrebbe smesso solo alle cinque di oggi.
E se, invece, si erano inventati tutto, che so, tipo per testare la nostra reazione?
Anche perché, siamo sinceri: come si può prevedere l’ora esatta dell’Apocalisse?

Non ci era stato detto nulla sul modo in cui ci saremmo estinti e ciò aveva prodotto dei godibili dibattiti televisivi a cui avevo dato una fuggevole occhiata mentre ero al lavoro. C’era chi metteva in ballo i quattro elementi, chi la religione (qualunque essa fosse), chi il nucleare, chi le comete, chi tutti questi assieme… sia come sia, per me tutte balle.

Una veneranda 126 verde muschio con un tavolo rettangolare capovolto sopra il tettuccio mi tagliò la strada rischiando di travolgermi: «Eh, diamine! Quanta fretta!» sbraitai balzando indietro.
Scrutai stizzito l’orologio: le quattro e ventitré.

Erano quasi le quattro e mezza e io me ne stavo ancora in giro.
Era davvero incredibile come scorresse velocemente il tempo.
Non che dessi peso a quelle fandonie, eh, però volevo essere a casa prima delle cinque, avevo un sacco di lavoretti da portare a termine.
Aveva fortunatamente smesso di piovere, ma le falde del mio cappello si erano ormai inclinate gocciolanti verso le spalle quasi a voler fare la caricatura di un clown triste.

Il sole incominciò a far capolino fra le nubi ed io mi sbottonai rasserenato l’impermeabile.
Uomini e donne, di diversa età e ceto, presero a uscire timidamente sui balconi e c’era chi sorrideva e chi lanciava saluti alla nostra stella come se la vedessero per la prima volta o come se fossero consapevoli che sarebbe stata l’ultima.

«Be’, ma allora» captai il discorso di un uomo obeso con le pieghe del collo sudaticce «se è uscito il sole è tutto a posto! Cosa diavolo volete che succeda con il sole?».
Mi fermai un istante davanti allo schermo a cristalli liquidi di un negozio: “diciannove gradi, sedici e quarantasei”.

Ripresi a camminare turbato.
Non mi ero mai accorto che casa mia fosse così lontana dalla stazione.
Estrassi un’altra sigaretta dal pacchetto che tenevo nel taschino ma non trovando l’accendino, per qualche motivo a me ignoto, m’accontentai di tenerla a ciondolare fra le labbra, spenta.
Potevo chiedere d’accendere a qualche passante.
Se solo ne avessi incrociato uno.

Un merlo sparuto cominciò a cantare dal ramo di uno dei platani che crescono lungo il viale, proprio mentre ci passavo sotto.
È strano: si sta tanto ad osannare l’usignolo, eppure – parola mia –  anche il merlo emette pregevoli gorgheggi.
Dopo diverse svolte mi immisi in un budello lastricato con cubetti di porfido, verso il centro storico, alla disperata ricerca di una scorciatoia.

Una bambina, una povera zingarella la si sarebbe detta, mi venne incontro.
I capelli, che si intuivano biondi, erano sporchi e scarmigliati sebbene ci fosse stato un maldestro tentativo di imbrigliarli in una coda di cavallo. Le guance, rosee, sarebbero state ben più colorite se degnamente lavate.
I vestiti, troppo grandi per il suo corpicino, le erano stati sistemati addosso con una serie di lacci improvvisati, ma l’ampio gonnellone continuava a strisciare a terra e il suo orlo era ormai inzaccherato di fango.
Frugai nelle tasche cercando qualche spicciolo, convinto che mi porgesse la manina. Ma non lo fece.

«Signore» disse invece «mi saprebbe dire che ore sono?»
«Ma certo, piccola, sono le cin…».

Simona Settembre Una foto un peso View More

di Denise Ciampi

Illustrazione di Simona Settembre

L’odore di mais riempie la camera della posada, perfino il cuscino e gli asciugamani puliti ne restituiscono la fragranza.

Ho l’impressione di lasciare sulla biancheria un’impronta estranea, una traccia discordante con questi luoghi. Asciugandomi il viso, insieme all’acqua, cerco di depositare sul cotone anche il sogno di stanotte: l’immagine ancora nitida di un uomo che cammina su una strada polverosa barcollando verso di me e che, quando mi raggiunge, focalizza lo sguardo rivolgendomi una sola parola: «Gringa», dice.

L’uomo del sogno non aveva l’aspetto di un indigeno: il sole superava la protezione del cappello a falde larghe colpendo i suoi occhi azzurri, innervati di sangue dall’eccesso di alcol e di polvere. Incrociando il suo sguardo ho avuto l’impressione di trovarmi davanti a uno specchio, uno shock violento mi ha scossa dal sonno.

Scendo nel patio, trovo Luis immerso nella lettura di un quotidiano.
Senza avvisarlo della mia presenza, vado a sedermi anch’io sul divanetto che sta occupando.
Lo vedo recuperare rapidamente il suo ruolo di guida.
Ci siamo conosciuti a Firenze un anno fa, a un convegno organizzato dall’ONG per la quale lavora. Forse, quando mi ha proposto di collaborare a una ricerca sullo sfruttamento delle risorse idriche, neanche lui si aspettava che sarei venuta fin qui.

Abbiamo programmato interviste ad esponenti locali per raccogliere informazioni sulla rete idrica e sulla penuria d’acqua. Oggi però non si lavora, Luis dice che c’è un posto che devo assolutamente vedere.
Ripiega il giornale e mi trascina al mercato della frutta.
Compriamo frutta fresca da consumare in strada, l’uomo dal quale la acquistiamo riempie i bicchieri direttamente da un contenitore pieno di frutti già tagliati. Prima della partenza mi hanno avvertita di non mangiare cose di questo genere se voglio evitare la dissenteria, ma quando Luis mi offre il bicchiere mi trovo ad accettarlo con piacere. 

Cerchiamo un colectivo, ne rimediamo uno in pochi minuti.
In questi giorni ho visto girare per il centro di San Cristóbal dei furgoncini piuttosto moderni, questo è un modello più vecchio e la cosa non mi dispiace affatto. Aspettiamo all’interno del veicolo che il mezzo sia al completo.
Osservo i viaggiatori, mentre, finalmente, Luis mi svela dove siamo diretti.
San Juan Chamula: cerco il pueblo, così si chiamano i centri abitati indigeni, sulla Routard.
Colpisce la mia attenzione la foto di una chiesa bianca con la facciata profilata di verde.
“Riti pre-ispanici e sincretismo religioso”: scorro le informazioni sommariamente, mentre il mio interesse si concentra sulle persone intorno a me.
La festa dei colori, gli odori, le voci e, tra le altre, quella ormai familiare di Luis che mi parla di una montagna. Adesso il suo indice mi mostra il Monte Huitepec cercando di darmi dei punti di riferimento: «La chiamano “la montagna d’acqua”, è un monte sacro ai Maya. Ai piedi del Monte Huitepec c’è lo stabilimento della Coca-Cola, proprio sopra una falda che è la principale risorsa d’acqua della città. Lo stabilimento consuma tantissime risorse idriche e gli abitanti hanno acqua un giorno sì e uno no, per di più non potabile. La multinazionale paga pochi centesimi per ogni metro cubo e la gente rimane a secco».

Il colectivo comincia la sua corsa, gli ammortizzatori scassati fanno oscillare i cappelli degli uomini e le grandi sporte delle donne.
Una passeggera si piega a raccogliere un mango che le è caduto dalla borsa, il movimento mette in risalto il ricamo vivace della sua camicetta.

Lungo la strada scendono passeggeri e ne salgono altri.
Dal finestrino vedo una donna con lunghe trecce nere legate insieme da un nastro.
Quando sale sul mezzo mi accorgo che, nonostante il furgoncino in quel momento sia fermo, la borsa di tela che tiene tra le mani si muove.

Prende posto abbastanza vicino a me, ho modo di continuare a osservarla.
Mi attraggono i suoi lineamenti indigeni, che comunicano una quieta fierezza.
La sue mani sono segnate dal lavoro della terra.
Sento un richiamo provenire dalla borsa, la donna vi infila una mano svelando la presenza di una piccola gallina insofferente della sua prigionia.
Insieme al collo della gallina, il gesto della donna ha scoperto anche quello di una bottiglia di Coca-Cola.
L’etichetta della bottiglia di plastica mi ricorda il racconto di Luis, mi viene in mente che lungo la strada mi è capitato più volte di vedere piccoli spacci che espongono lo stesso marchio.

Anche Luis è stato attratto dal verso dell’animale: «La gallina viene con noi a San Juan Chamula», afferma. Resto in silenzio, aspettando che prosegua. «Nella chiesa che visiteremo si compiono sacrifici di piccoli animali. Si tratta di riti indigeni molto antichi, utilizzati per liberare dal male gli ammalati. Hai visto la bottiglia della Coca-Cola?».

«Sì, ma cosa c’entra adesso la Coca-Cola?».
«Anche quella è utilizzata per espellere il maligno. Una volta gli indigeni usavano una specie di grappa, adesso è stata sostituita dalla Coca-Cola: il gas fuoriesce dalla bocca e la persona si purifica. Ma adesso siamo quasi arrivati, ti renderai conto con i tuoi occhi. Un’unica raccomandazione: non fotografare le persone, secondo le credenze indigene quando si fotografa qualcuno gli si ruba l’anima».

Entrando nel pueblo noto un uomo di passaggio: indossa un cappello a falde larghe simile a quello del sogno.
Non riesco a incrociare il suo sguardo, devo limitarmi a seguire da dietro il finestrino la sua figura che si allontana nella strada polverosa.

Scendiamo dal colectivo che già siamo circondati da un gruppo di bambini.
Mi individuano facilmente come “gringa”: «Una foto un peso, una foto un peso…», una ragazzina mi offre una cintura colorata, mentre un bimbo ripete la sua triste cantilena.

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di Rachele Fattore

Illustrazione di Anastasia Coppola

Sono a Trieste per lavoro. Hai tempo per una cavalcata? Ho appena avuto una promozione, ti pago bene. 

Sarebbe stata l’ultima notte.
Quante volte lo aveva giurato a sé stessa. Poi arrivavano le suppliche di un incontro ancora, le banconote e la bicicletta che desiderava tanto per sua figlia.
Così la speranza si allontanava, a braccetto con quella convinzione così labile da finire in un incontro ancora. 

Kadijah guardava il grembiule puntinato di schizzi di patina nera, preoccupata che non sarebbe riuscita a farlo venire pulito. Aveva passato l’intera giornata a lucidare scarpe, a passare la cera in tutte le stanze a cambiare armadi non suoi e ora desiderava solo stendere le gambe accanto alla sua bambina, dopo un bagno pieno di schiuma.
Stava finendo di riporre i detersivi nell’armadietto della lavanderia quando vibrò il cellulare.
Lo ignorò, gettandolo nella borsa. 

«Signora io vado»
«Ricordati di comprare gli stracci».

Kadijah lasciò cadere le parole dietro di sé sulla tromba delle scale, controbilanciando il peso dei  sacchi neri gonfi e maleodoranti. Affrettò il passo verso casa di Serena, una volontaria che ogni tanto le dava una mano con la piccola.
Il cellulare vibrò ancora una volta e quando guardò i messaggi si pentì subito di averlo fatto.  

Hanno trovato Irina in una pozza di sangue sulla Aurelia, l’hanno picchiata. Era incinta nessuna di noi lo sapeva. 

Lo stomaco di Kadijah si contorse in una smorfia gastrica di nausea e dispiacere.
I tempi dei fuochi del mercato della carne, delle cassette bruciate per scaldarsi, delle arterie di periferia erano lontani. La capitale era lontana, ma il marchio di quel lavoro non spariva mai e quel messaggio aveva un tempismo orribile.
Imboccata la strada di casa, una vocinala richiamò dai ricordi:
«Mamma… mamma ciaooo!».
Alzò lo sguardo e vide la piccola Zohra che la seguiva oltre le sbarre dal poggiolo.
«Mamma coiiii».
E lei corse, corse per strizzarla, corse perché era in ritardo.  

Serena sapeva.
I suoi occhi pieni di disappunto si piantarono nella notte di quelli di Kadijah e vi lessero un’inquietudine.
«Tutto bene?» le chiese
«Tutto come sempre. Doccia e poi scappo altrimenti perdo il tram».
«Non mangi con noi?»
«No».
«Mamma racconti tu ‘toria?» le chiese la piccola tirandola per la camicetta. 
«Mamma fa presto, olufẹmi» rispose, sapendo che si sarebbe addormentata sulle gambe di Serena.

Sarebbe stato bello, pensò di nuovo, chiudere quella sera. 
Uscì di casa alla svelta, in lontananza il cigolio del tram che scendeva.
Era una serata ferma ed inquieta, e l’afa toglieva il respiro.

***

Sveva stava rincasando.
La testa pulsava e il tram sembrava non arrivare mai.
L’ennesima seduta dallo psicologo e non era ancora giunta a capire se fosse incapace di trovare persone che non fossero tossiche o se fosse lei ad esserlo per sé stessa. 

«Lei cosa vorrebbe fare?».

Ogni volta quella domanda, come se lei dovesse conoscerne la risposta.
Continuava a rimbombarle nella mente come in una caverna senza via d’uscita.
Ecco. Forse era quello di cui aveva bisogno.
Scappare. Scappare, certo.
Cambiare città, cambiare lavoro, cambiare compagno.

Il tram arrivò puntuale.
Quando salì la vettura era quasi vuota: due adolescenti che scendevano per il venerdì nei locali, il solito vecchio Stella di ritorno dalla pedalata sul Carso e una ragazza africana che aveva l’impressione di aver incrociato altre volte. Profumava di buono ma questo ora le dava solo una grande nausea. 

Sveva continuava a carezzarsi il grembo, come se qualcuno potesse portarle via qualcosa di prezioso.
Lo sguardo, puntato oltre al finestrino, si condensò nel ricordo della sera prima, quando si era chiusa a riccio per proteggersi.
«Ti ho vista mentre uscivi con quelli, puttana…» nemmeno il tempo di rientrare e già la accusava.
«Uscire dall’ufficio per tornare a casa non è un appuntamento Cosimo» disse cercando di stare calma.
«Taci!».

Poi quella furia che ogni tanto gli scattava, le percosse, gli antidolorifici e il trucco per il giorno dopo.
Portò la mano alla guancia come fosse appena successo senza allontanare l’altro braccio.
Il figlio che portava in grembo era suo, non aveva dubbi.
Lui ancora non sapeva nulla ed era certa che lui avrebbe accettato di essere messo da parte.
Gliel’avrebbe portato via. 
Vedeva i suoi occhi ovunque, telecamere costantemente puntate sulla sua libertà.

Il tram iniziò a scollinare, avvinghiato alle vecchie rotaie.
Sveva alzò lo sguardo oltre alla cabina; l’unica consolazione dopo una giornata come quella era il bello di quel ritorno, era l’impressione di tuffarsi nel mare.
La sensazione che prima o poi il tram avrebbe perso aderenza e sarebbe planato oltre al molo anziché darle i brividi la faceva sentire libera. 

Ma anche quella sera il tram venne inghiottito dai palazzi della città, e il senso di oppressione si fece sempre più forte.

***

Kadijah e Sveva.
Discesa al capolinea: nessuna fantasia di strade alternative. 
Sveva aveva sperato fino all’ultimo che quel volo cominciasse, invano.
Kadijah aveva cercato dentro di sé il coraggio di rinunciare al guadagno facile di quella sera, per raccontare a sé stessa la storia della buona notte, invano.
La porta di legno si aprì, cigolando come se avesse le ossa rotte, spalancandosi in un moto improvviso privo di grazia. Laggiù l’aria era ancora più stagnante.
Il mare quieto sembrava covare qualche malanno.
Le due donne si scambiarono uno sguardo, dalle parti opposte del tram, arricciando il naso: c’era puzza di alghe marce.

Kadijah affrettò il passo; prima di ricevere lo squillo doveva darsi una sistemata, passare la crema sul viso e domare i ricci nell’acconciatura che piaceva al suo amante. 
Sveva tuffò il capo dentro alla borsa alla ricerca delle chiavi di casa, quelle che non trovava mai come fosse un messaggio inascoltato. Camminava a testa bassa, con le vene che pulsavano nelle tempie e una nausea sempre più forte.
Camminava, mettendo insieme a fatica i passi, su tacchi troppo alti per la sua stanchezza.
Fu questione di un istante.
Il tram riprese la sua salita faticosa in collina e lei, uscita dalla sua scia, inciampò sulle rotaie.
Poi furono due coincidenze uguali e contrarie: il tacco incastrato e la fretta di una consegna.
Il rider distratto dalla musica e intento a bruciare le tappe nella sua mappa mentale delle consegne, prese velocità appena prima del rosso. Guardava oltre, guardava lontano così che il tempo di reazione si annullò nello scontro.  
Le grida di Sveva frantumarono l’immobilità della sera torbida e malata.
Kadijah, non ancora lontana, si girò e vedendo quel fagotto incastrato sotto alla bici, riconobbe la donna del tram e corse indietro per aiutarla.

Non tutti gli appuntamenti sono destinati ad un incontro“, pensò. 

Sveva urlava di dolore ma non il dolore.
Temeva che Cosimo avrebbe scoperto il suo segreto.
Il rider alzatosi senza grandi fatiche chiamò subito, in un italiano stentato, un’ambulanza.
Sveva invece continuava a stringersi il ventre.
Cercava di sentire i suoi due cuori, li cercava con le mani, tentando di proteggere quella vita che poco prima, sulla poltrona dello psicologo, si sforzava di accettare.
Malediceva Cosimo e sé stessa e mentre malediceva aumentavano le pulsazioni ovunque, come se da un momento all’altro potesse esplodere in infiniti brandelli di infelicità. 

«Il bambino, il mio bambino» sussurrò all’orecchio di Kadijah, accolta dai suoi seni morbidi, mentre tra le gambe avvertiva un liquido caldo.
«Non andartene».
Quando arrivò l’ambulanza i lampioni della città finalmente si accesero e dal mare cominciò ad alzarsi il vento.
Kadijah rifiutò la chiamata in arrivo, poi compose il numero di Serena:
«Non so se rientro per tempo. Per favore, pensa tu a Zohra»

***

Nei mesi seguenti, e quelli dopo ancora non ci furono chiamate di amanti pieni di pretese o occhi immaginari dai quali trovare rifugio.
Non tutti gli incontri sono frutto di un appuntamento e alcuni, inattesi e improvvisi, hanno la forza del vento che porta nuovi semi e nuove consapevolezze.

Kadijah e Sveva non si incontrarono più anche se alle volte a tutte e due scappava un sorriso pensando alla forza di quell’ingranaggio rotto che quel giorno aveva cambiato le loro vite. 

Il tram continua ad inerpicarsi dal mare all’aspra collina che lo domina.
Prima o poi prenderà il volo sopra il mare.  

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di Giulio Iovine

Illustrazione di P.Black

Si conobbero sulla Stellidaura, la linea della metropolitana che va da un capo all’altro dell’Universo.
Si partiva da Livonia, un pianeta colonizzato di fresco nella galassia MACS0647-JD, e si percorreva l’asse maggiore della grande ellisse fino alla stazione di ricerca Panuozzo sul pianeta Torre Annunziata nella galassia GN-z11, per un totale di una settantina di miliardi di anni luce.
Siccome era un diretto faceva solo quattro fermate (Amphiparnaso, Y, Wren e Curculione), grosso modo in un’ora di tempo, il che era perfetto per Irma, che abitava nell’unica città di Livonia (gli appartamenti in periferia costano meno) ma lavorava da qualche mese come amministrativa nell’ufficio centrale della stazione Panuozzo.

Irma fu teletrasportata a bordo della metro ancora imbacuccata nel suo cappotto con sciarpa a quadretti e guanti, perché in quell’emisfero di Livonia era inverno; era sola.
Si sedette, la testa appoggiata al cuscino del sedile, cercando di sdormicchiare per almeno una mezz’oretta.
Fece appena in tempo, prima di chiudere gli occhi, a vedere dal finestrino le stelle che si allungavano e si fondevano mentre il treno entrava in curvatura, e la sua galassia che rimpiccioliva rapidamente alle loro spalle.

Fu svegliata ad Amphiparnaso dal rumore del teletrasporto.
Altri dieci o quindici passeggeri.
Uno, un ragazzo più o meno della sua età, si sedette davanti a lei e senza volerlo si scambiarono uno sguardo.

Prossima fermata: Y.

Irma provò a leggere sul suo tablet.
Anche il ragazzo sconosciuto provò a fissare le stelle fuori dal finestrino che, ipnotiche, tornavano ad allungarsi.
Ma bastarono pochi minuti per tornare a guardarsi avidamente.
Volevano copulare.

Provarono a resistere cinque minuti.
Ma si sa che più l’umanità procede nei secoli, più si libera delle sue pastoie morali, e più è disinibita.
Scattarono in piedi, si avvinghiarono l’uno all’altra, si dissero i reciproci nomi (Irma, Clemente) e cominciarono a spogliarsi e strusciarsi.
Gli altri passeggeri, sospirando un po’ per invidia un po’ per tenerezza, si misero chi le cuffie e chi il visore per vedersi un telefilm; ci fu chi provò ad attaccare bottone per parlare dell’ultima crisi di governo.
L’argomento riuscì ad assorbire i partecipanti alla conversazione a tal punto da non sentire, ripartiti alla volta di Wren, le urla d’amore e i sospiri sudati di questi due.

La carrozza cominciò leggermente a oscillare, poi a sbandare proprio.
Gli abiti di Irma e Clemente, buttati in giro per il pavimento, scivolarono da un capo all’altro.
Si sentì la voce del conducente all’altoparlante:

Attenzione. Il motore a curvatura in servizio su questo treno è parzialmente empatico.
I passeggeri Irma Michelini e Clemente Ricci sono pregati di interrompere o moderare l’attività sessuale in corso, in modo da non causare disagio ai meccanismi di propulsione.

(Per raggiungere velocità come quelle che ti servono per andare da un capo all’altro dell’Universo in tempo utile, devi fare certi pasticci con lo spazio-tempo. Nulla di pericoloso, ma c’è il problema che il motore sente il livello di ormoni nei paraggi, dopamina ossitocina endorfine eccetera, quello che altri scrittori hanno chiamato l’orgone, quando scopiamo tutti all’ammucchiata e per un secondo ci scordiamo dell’assenza di significato del Tutto.
Se lo fai in una carrozza di pochi metri quadrati questo può incidere sulla tenuta di strada.)

A Wren alcuni scesero, altri salirono.
Clemente cambiò posizione, montando da dietro Irma, la quale si teneva ad uno dei piloni di sicurezza mordendosi l’avambraccio per non gridare “chiamami puttana”. Lui, non cogliendo, badava a dire – con mozziconi di frasi – che era tanto che non praticava e che lei era fantastica eccetera.
La carrozza ripartì da Wren, le stelle si allungarono nuovamente, e il livello di ormoni cominciò a fare cose con la realtà.
Quando si fermarono a Curculione, Clemente si ritrovava un membro di un metro, percorso da nervi e canali; Irma una vagina larga come la bocca di una megattera, e due seni e due chiappe gonfi di amore come due melograni immersi nell’olio. Liquori e sudori schizzavano un po’ ovunque sul pavimento. I due corpi cominciarono a diventare incandescenti e a fondere il metallo intorno, sparando scariche elettriche a caso nel vagone.
Arrivarono a Torre Annunziata che la carrozza non rispondeva più ai comandi.
Dalla stazione teletrasportarono via tutti i viaggiatori e il conducente, ma non Clemente e Irma, parzialmente fusi con la struttura atomica della carrozza che schizzò in avanti, si incendiò, penetrò nei cieli di Torre Annunziata.

Era estate in quell’emisfero, una mattinata fresca.
Clemente stava per concludere, ma siccome Irma ancora no, si trattenne.
Il treno senza guida, i suoi atomi percorsi dal fremito di quell’amore in corso, sbandò, puntò dritto su un’isola verde in mezzo ad un mare azzurro chiaro, sorvolò la sua foresta.
Irma ordinò a Clemente di venire anche lui (“ORA, TE LO ORDINO” “SIIII”).
La carrozza andò a sbattere contro una montagna, e se Dio vuole i due vennero.

Il treno si aprì in due.
Tutt’intorno al luogo dell’impatto la materia coagulò, si fece energia e tornò materia;
fu il terremoto, il maremoto, la luce accecante, e dalla cima della montagna si aprì un buco e ne uscirono mischiati come un fiotto di acque vulcaniche metallo, carne, capelli, sperma e sangue.

Poco dopo si ritrovarono tra i rottami del treno, nudi e illesi sul fianco della montagna, mano nella mano, rincoglioniti dalla sazietà. La foresta intorno a loro fioriva.
Nascevano foglie sui tronchi, gli alberi morti tornavano in vita, gli animali ringiovanivano, le piume e il pelo ricrescevano, le acque stagnanti si agitavano e tornavano a scorrere.
Sui loro corpi traslucidi e trasparenti correva un reticolo di arterie, vene e nervi – si vedeva ogni globulo, ogni enzima, ogni ovulo, ogni spermatozoo.

«Buon controllo dei tempi», mormorò lei.
«Mi ha insegnato la mia prima ragazza», rispose lui: «Ha insistito molto».
«Ha fatto bene», approvò lei.

Fiammeggiava sul mare sotto di loro e su tutto il bosco intorno un sole generoso.
Si addormentarono abbracciati.

Serena Saia - Piramide Blu Notte View More

Secondo Indizio

di Stefania Coco Scalisi

Illustrazione di Serena Saia

“Piramide. Blu notte

Quale mente perversa si celava dietro questi indizi?
Ma poi, che indizi erano?
Un indizio ti dovrebbe aiutare a capire qualcosa, imbeccarti un’epifania, non crearti confusione ed ansia!

Era questo quello a cui pensava mentre percorreva senza sosta con la sua vespa le strade della città.
Vuote, vuotissime, come se tutti avessero deciso di lasciarla sola nella sua disperata ricerca dell’El Dorado alcolico mentre lei continuava  ad arrovellarsi su quelle tre parole: piramide, blu notte.
Che fosse un night club?
Una cosa tipo Dea della Notte o Sexy Disco.
Sì, aveva senso, sentiva essere una buona pista.

Cercò su Google i night club che facessero un qualche riferimento alle piramidi ma l’unica cosa che si avvicinava era un locale, in una zona recondita della città, che si chiamava Kleopatra, con la K, non con la C.
Così, priva di altre intuizioni, seguì quella traccia.
In fondo Cleopatra, quella con la C, era o non era stata la regina d’Egitto, il cui indiscusso simbolo erano le piramidi? Beh, sì, doveva per forza avere ragione.
Si rimise in sella, e partì.

I palazzi le sfilavano accanto, rapidi, e lei per un attimo si sentì la padrona assoluta della città.
Sola, col vento in faccia, unica impavida cercatrice di un tesoro.
Fu mentre raggiungeva questa nuova consapevolezza che lo vide: un puntino che avanzava e che diventava a mano a mano più grande. Quando erano praticamente accanto, fu accecata dal rosso della sua maglia, un bagliore durato un attimo e seguito da un rumore sordo.
Si voltò, e vide che si trattava di una persona, su una bici, a terra.
Oh Dio, e se fosse stata lei a buttarlo giù?
Frenò subito e corse indietro, per vedere cosa si era fatto.

«Ehi, stai bene?» disse scuotendolo per il braccio
Quello non si muoveva.
Non è che forse…No, non voleva neanche pensarci.
«Ehiiii» urlò ancora più forte.
Poi finalmente si rasserenò. Lo vide muoversi, o meglio, muovere le spalle, in su e in giù, in su e in giù, ancora ed ancora. Accanto a lui, l’abbaglio in rosso: un’enorme zaino di consegne, e, sparpagliate a terra, dei cartoni della pizza.

«Ti sei fatto male? Come stai?».
«Niente, niente».
«Sei sicuro?».
«Si, si, sto bene».
«Ma come sei caduto?».
«Il ramo. È colpa del ramo» disse indicando un punto a terra.

Rasserenata, sorrise.
Non era colpa sua, poteva riprendere la sua caccia al tesoro in tutta tranquillità.
Ma quando fece per andarsene, qualcosa la trattenne. Uno strano lamento, una specie di guaito dolente.
Stava piangendo. Il ragazzo piangeva. Tornò indietro, maledette scuole cattoliche.

«Ohi, perché piangi? Ti fa male qualcosa?».
«Perdo il lavoro, perdo il lavoro» continuava a ripetere dondolandosi su e giù.
«Ma no dai, vedrai che non è un problema. Cioè hai pure avuto un incidente, vedrai che capiranno».
«Perdo la casa, perdo la casa» continuava imperterrito.
«Senti hai avuto un incidente, non è colpa tua!».
«È colpa mia!! Io sono caduto! Se non consegno queste pizze mi licenziano! Vuoi capire?» le urlò contro.

Fu combattuta tra la voglia di mandarlo a fanculo e la pena per quel pianto che non sembrava riuscire a fermarsi.
«Ho avuto un’idea!»
Lui si sollevò a guardarla, asciugandosi il naso col dorso della mano.
«Ti accompagno io col motorino. Lascia la bici qui, legata all’albero, e poi torni a prenderla! Vedrai che con la vespa facciamo in un attimo!».
«Davvero? Davvero lo fai?».
Davvero lo avrebbe fatto.
E se quello stronzo del karma non la ripagava, erano problemi suoi.

Così, partirono.
Lei guidava il più velocemente possibile, lui scendeva al volo a consegnare le pizze.
In nemmeno un quarto d’ora avevano terminato.
Lo riaccompagnò alla bici e senza scendere dalla vespa gli chiese:
«Senti ma non è che per caso te sei egiziano?».
«Si, perché?».
«No perché dovrei cercare una piramide è proprio non saprei…».
Prima di terminare la frase, sentì il solito trillo in tasca.

“Per oggi terminiamo qui. Ci rivediamo tra due giorni. Parola d’ordine: Castello. Verde scuro.

Avvilita, si accasciò sul manubrio.
«Ehi, non piangere! Perché cerchi una piramide, qui?».
«No guarda, lasciamo perdere. È una lunga storia…».
«Ti aiuto! Come tu hai aiutato me!».
«No davvero. Non c’è più nulla da fare. Cioè mi serviva prima, ma adesso non mi serve più. Ora devo cercare un castello!»
Lui la guardò intensamente negli occhi.

«Amica mia, sicura di stare bene?» chiese con un tono vagamente preoccupato.
«Ma si certo! Sto benissimo. Non capiresti, davvero!».
Ed in effetti, sentita dal di fuori, la sua richiesta era quantomeno strana.
Ma come faceva a spiegargli di più se lei stessa non ci stava capendo nulla di tutta quella storia?
Così tacque ed il ragazzo, di fronte al suo afflitto silenzio, capì di non poter essere di alcun aiuto.
Senza aggiungere altro, prese la bici ed andò via.

Mentre lo guardava allontanarsi, credette di sentirlo urlare:
«Addio ragazza pazza! Vedrai che alla fine quello che cerchi lo trovi! Inshallah».

Torna al primo indizio

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di Heiko H. Caimi

Illustrazione di Anastasia Coppola

Berlino.
Postdamerstrasse.
Fermata dell’autobus.

Persone salgono, persone scendono.
L’autista, impaziente, le fissa attraverso lo schermo. Le telecamere gli rimandano immagini dall’alto di gente comune che si affretta a salire.
Teste calve, teste appena uscite dal parrucchiere, teste unte, teste tonde, teste quadre.
Le detesta, le detesta tutte.

Attende con impazienza che una vecchietta riesca a fare l’ultimo passo per entrare. Con il desiderio di partire sgommando e di farla cadere.
Improvviso gli ritorna in mente il sogno dell’altra notte: lui alla guida dell’autobus che corre su una strada di campagna a tutto gas, al massimo della velocità consentita dal mezzo. E poi inchioda, all’improvviso. Tutti morti.
Quanti? Quaranta, cinquanta.
Cinquanta teste, cinquanta anonime mediocrità che sono salite sul suo autobus.
Gli piacerebbe, eccome se gli piacerebbe!
Gli piacerebbe che non fosse solo un sogno.

Riesce finalmente a richiudere le porte.
Parte piano, mentre la vecchietta si siede. Quella si lamenta che lui non abbia aspettato: «Così poteva anche farmi cadere!».
Vorrebbe inchiodare, uscire dal posto di guida, prendere la vecchia per le spalle e scaraventarla giù dal finestrino.
Ma non può, deve guidare.
Anche lentamente, perché il traffico procede a passo d’uomo.

Guarda nello specchietto retrovisore.
Cinquanta teste, sedute o in piedi, proprio come nel sogno.
Cinquanta teste in attesa che lui arrivi a destinazione.
No, non gliela darà questa soddisfazione.

Ferma di colpo e tra qualche scossone, tante urla e qualche urto ben assestato, il bus fa fischiare le gomme sull’asfalto per poi bloccarsi, di traverso, in mezzo alle corsie grigie ora strisciate di nero.
Quindi, schiaccia il pulsante che fa aprire le porte anteriori e, quasi fischiettando, esce e scende.
Si incammina in mezzo alla strada immaginando le facce dei passeggeri: il loro smarrimento, la loro paura di non arrivare in tempo, il disorientamento e l’odio.

Poi ci pensa su un attimo.
Torna indietro, quasi con l’aria di chi ha capito l’errore commesso: ma è in errore chi pensa questo.
Infatti, sempre con fare normale, ignorando le espressioni interdette dei passeggeri e le loro iniziali, timide richieste di spiegazioni, aziona dall’esterno i comandi manuali. Le due porte si chiudono contemporaneamente in un sonoro sbuffo d’aria, e le blocca da fuori con il chiavistello che, per sicurezza, porta sempre in tasca, creando una sorta di acquario, mobile ma immobile, fermo di traverso in mezzo al grande viale.
Sorride mentre attraversa la strada col rosso e senza voltare le spalle, senza ascoltare neanche i clacson delle automobili costrette a fermarsi per non prenderlo in pieno.

Di fronte alla fiancata del mezzo, si siede al tavolino di un bar che ha il vantaggio di avere una vista spettacolare: le vetrate del bus.
Popolato adesso da cinquanta teste e cinquanta mezzibusti che si agitano sbattendo i pugni contro gli spessi vetri di quell’acquario fatto d’aria.

«Un caffè americano macchiato, grazie e sì…anche uno di quei croissant al miele: adoro il contrasto del miele con il sapore burroso dell’impasto, sa?», ordina al cameriere che, fermo accanto a lui, non lo ascolta ma, inebetito, guarda impalato verso quel mondo sottovuoto che una volta era un autobus.

Continuando a sorridere, l’autista – ex autista in realtà, ora solamente spettatore interessato, se non artista di un quadro di esistenze sofferenti e iraconde – si gode lo spettacolo: il suo sogno che, bene o male, prende vita.
Beh sì sa, la realtà è sempre diversa da quello che uno immagina, ma anche così questa giornata ha assunto tutto un altro senso.

Sì, questa è proprio la più bella giornata della sua vita.

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di Lorenzo Tuci

Illustrazione di Francesco Pioli

Una volta in salvo sul brigantino della Serenissima, cambiatisi gli stracci sozzi e sudati con abiti da cristiani, e ben rifocillati, i cinque naufraghi furono convocati dal capitan Dandolo presso la sua sontuosa cabina, che occupava la maggior parte del cassero a poppa, lasciando due soli corridoi laterali sia ad ospitare le cabine del resto dell’equipaggio sia a schermire l’alloggio del capo dal sole infuocato o dai ceffoni degli alti marosi.

«Allora, signori,» esordì sonoramente Dandolo, stando in piedi dal retro della sua scrivania, non appena i cinque vennero introdotti, «mi è stato detto che vi siete or ora azzuffati. Dico io, proprio ora, a poche ore dall’aver scampato la morte, vi sembra opportuno tra voi venire alle mani? Mi meraviglio di voi Scarpin, che, come me, siete suddito di sua maestà il doge Silvestro Valiero! È forse questo il modo di comportarsi di un veneziano?»

Il padron giurato, addetto all’ordine della nave, che aveva accompagnato i superstiti del naufragio, intervenne: «Chiedo scusa capitano, ma il povero Gianni Scarpin non ha alzato mano, ché anzi lo abbiamo trovato sul ponte, attaccato per il bavero all’albero di trinchetto, mentre il tabarchinolo immobilizzava e il greco giùa menarlo.»

«Oh, questo poi è grave,» disse il capitano, «due forestieri, oltretutto, che attentano alla vita di un veneziano che ha appena scampato la morte, e su una nave veneziana per giunta!»

Scarpin, che ancora ansimava, era soltanto un po’ paonazzo, scomposto e gualcito sul collo del camice, ma non livido né sanguinante.
Quasi non riuscisse per l’affanno a replicare, durante e dopo le parole del padron giurato, si limitava ad annuire, con un ghigno e sfuggevoli occhiate, dirette ai colpevoli, che ne invocavano il castigo.

Dimitri il greco, detto Cleffino, pareva il più indomito.
Era l’unico a non aver voluto cambiarsi gli abiti. Aveva infatti lavato in fretta i vecchi e poi li aveva indossati ancora umidi.
Il respiro gli restava palpitante sotto la fascia rossa di fustagno che affiorava dal corpetto di pelle. Le grosse mani, che si protendevano dalle larghe maniche della camicia, strizzavano rabbiose l’aria e i lunghi baffi erano una metafora di zanne pronte a mordere.
«Gàidaros1 inveì contro Scarpin; poi, rivolto al capitano: «Escusi comandante, non parlo bene la vostra lingua, ma quel Gianni lì è un còiros 2! Voleva noi tutti morti di non bere.»

«In nome di nostro Signore Gesù Cristo,» intervenne il gesuita, che dal naufragio, oltre alla fede, aveva salvato anche la berretta di seta nera a tricorno che gli stava in capo, «siamo salvi! La Divina Provvidenza ci fece la grazia: permarremmo quaggiù qualche ora in più; e lor signori cosa fanno? Danno piglio alla violenza invece di rendere grazie al Cielo!».
«Insomma,» intervenne il capitano, «qui è andato a picco l’Ermagòra, un brigantino della nostra serenissima Repubblica; ci sono decine di cristiani morti e voi, come dice giustamente padre…padre?».
«Don Zenobio» suggerì il gesuita.
«Padre don Zenobio, appunto. Voi, dicevo, voi due signori, signor greco e signor tabarchino, vi accanite contro un cittadino della Serenissima, anziché gioire d’esser scampati alla morte, e mi raccontate poi di non esser riusciti a bere? Come avreste potuto bere in mare, a cavallo tutti quanti di una polena? Perché accusate costui di avervi assetati, anziché accusare il mare o l’implacabile sole d’agosto?».

«Lo spiego mi» intervenne il tabarchino «a voiotra Signoria illustre», e avanzò tenendosi nella mancina il polso destro, da cui affiorava una mano gonfia e paonazza, in contrasto col colore olivigno smorto della pelle e del capo pelato.
«Innanzitutto qual è il vostro nome?» chiese Dandolo perentorio.
«Mi chiamo Gianni, come quello là, onta della stirpe veneziana, che turco dovea nascere anziché veneziano. Gianni Canepa e son tabarchino, genovese d’Africa. Amico di Clettino, gran cuore greco, a cui detti ospitalità nella mia isola di Tabarca e che con me e gli altri qui presenti s’era imbarcato da Taranto sull’Ermagòra. Noi per altri affari, questi per raggiungere Creta e ripartir poi, dalla fortezza di Spinalonga, per guerreggiar contro il demonio turco, oppressoredi terre cristiane e predone del mare Nostru. Ma u Scarpin vostru ci volea far a tutti noitri le scarpe appunto! Ci fe’ patir ‘a sài 3! Niotri saiemu tutti morti de sài!».

«Di che?» chiese capitan Dandolo protendendo il viso verso l’ometto e corrucciando la fronte.
«Di sài, saite, insomma come si dice per farvela intendere?».
«Di sete» intervenne il giovane dalla chioma leonina, che sinora se n’era rimasto in disparte ad ascoltare attento.
«Voi sareste?» lo interrogò il capitano.
«Sono Jacopo Serrati, mercante di lane e stoffe, suddito del gran duca di terra Toscana, sua eccellenza Cosimo de’ Medici. E, se vostra signoria, data la mia spigliata favella natia e la mia pazienza nell’aver ascoltato tutto questo discorrere inconcludente, me lo concederà, vorrò raccontare per filo e per segno cos’è successo a noi sventurati nei tre giorni che passammo in mare, a cavallo di quel rudere di legno. Che sia benedetto quel bastone, scheggia del nobile brigantino Ermagòra, che cavalcammo sulle acque per tre giorni e per tre notti senza affogare».
«Ebbene ve lo concedo» gli rispose Dandolo, e poi ammonì: «E voialtri signori statevi zitti e lasciate parlare sor Jacopo».

«Io non so se il mar Ionio abbia mai visto una procella come quella, fatto sta che a poche ore dall’aver mollato gli ormeggi, sopraggiunta la notte, un vento titano e onde che si confondevano con montagne rovesciarono l’Ermagòra, che per cause oscure aveva iniziato a imbarcare acqua dalla chiglia.
Noi cinque, visto l’inabissarsi della nave, per non fare la fine dei topi in trappola, ci eravamo portati fuori, sul ponte, ma, per non essere sbalzati in mare, ci tenevamo abbarbicati agli alberi – chi a quello di mezzana, chi a quello di maestra e io a quello di trinchetto. La pioggia non solo cadeva su di noi, ci frustava, mentre le folgori scandivano i secondi che accompagnavano lo sprofondare di quel legno negli abissi. A un certo punto io vidi un lampo abbattersi sulla prua, a poca distanza da me. Poco dopo il brigantino iniziò a imbarcare acqua anche da là, sul davanti, dove la saetta gli aveva tagliato il muso. Prima che la nave venisse sommersa, mollai il mio palo e, per un tempo che mi parve interminabile, venni sciabordato come un burattino da quelle acque infernali, cercando soltanto di riprendere fiato non appena io potessi cacciare la testa fuori dall’onda. Quando il mare si acquietò, alla flebile luce delle stelle che tornarono a far capolino, vidi a poche bracciate da me sor Canepa tabarchino e il greco Cleffino avvinghiati al solo legno che dell’Ermagòra fosse rimasto a galla. Li raggiunsi, senza che inizialmente se ne accorgessero. Quando mi issai a cavalcioni su quel legno, lo fecero anche loro, e di lì a poco recuperammo a pelo d’acqua anche i corpi di don Zenobio e di messer Scarpin, che poi scoprimmo essere ancora vivi.

Arrivò l’aurora e, dal conoscerci solo di vista, passammo a raccontarci chi fossimo, mentre tutti e cinque ci trovavamo a cavallo di quella che era stata la polena del brigantino: un solido tronco conico la cui cima, un imponente leone alato di san Marco, era passato dal fendere il vento, indicando la rotta, a dare ospizio a cinque morituri,portandoseli a dorso. Prossimo al podice della belva argentata, sedeva messer Scarpin, dietro a lui don Zenobio gesuita, dietro a questi stavo io e, dietro a me, sor Canepa e infine il greco guerrigliero. Data la precarietà della nostra scialuppa, era difficile cambiare postura. Le gambe poi, dal ginocchio in giù, dovevamo lasciarle quasi tutto il tempo in ammollo, così come il leone veneto immergeva zampe e Vangelo, mentre sulle nostre teste, anche se coperte con stracci o cappelli, martellava, nelle ore pomeridiane, la rivalsa del sole sulla passata tempesta.

Il primo giorno e la prima notte, su quella bizzarra cavalcatura, passarono per noi sì con fastidio, ma non ancora con tormento. Il secondo giorno però, le cose cambiarono. Già dal mattino, avendo dormito pochissimo, per la paura che quell’abisso là sotto potesse essere il nostro anonimo sarcofago, ci sentivamo stanchi e ormai indolenti, anche a discorrere tra di noi. L’unica voce inarrestabile era quella di don Zenobio, che continuava a salmodiare e a sfogliare le paginette fradice e increspate del suo breviario.

Ben presto iniziammo a lamentarci per la fame e poi per la sete. La fame, dopo averci fatto mugolare i visceri, con la fierezza del Re di Franciaa cui si diserti un abboccamento, se n’andò sdegnata; ma la sete… quella no! con la tenacia d’un usuraio giudìo, presentava irriducibile il conto. Allora io dissi agli altri che, benché ciò potesse solo prolungare la nostra agonia prima della fine, a tracolla avevo una bisaccia piena del vin leggero delle mie vigne, che ero aduso a portare sempre meco viaggiando. Ne avrei lasciato sorseggiare a ciascuno giusto la quantità contenuta dal palmo concavo della sua mano.
E così tutti ne avemmo un sorso, che poco poco ci ristorò.

Giunse la notte e, vinti dalla stanchezza, riuscimmo un po’ a dormire, ciascuno caduto prono sul dorso di chi gli stava davanti e sor Scarpin sulla schiena del leone. Quando fu giorno, sempre con davanti quel deserto d’acqua e cielo, fame e sete tornarono ad affliggerci. Prima che qualcuno me lo chiedesse, sul volgere del mezzogiorno, offrii di nuovo, ai naufraghi compagni,il vino nel palmo, come la sera prima. E dopo che lo avemmo trincato, don Zenobio si rivolse a sor Scarpin in un modo che lasciò tutti perplessi.
Gli disse infatti: “Perché non vi conducete anche voi come messer Jacopo e dividete con gli altri ciò che avete?”
“E cosa g’ho mi più de voaltri? Furse la fam o la sete?” rispose il veneziano.
“Vi ho visto, sapete!?” replicò lesto il sacerdote, “Quando ancora non era giorno, voi stavate mangiando. Esurivi enim, et dedisti mihi manducare…” 4Sitivi et dedisti mihi bibere 5, com’ho fatto io con tutti voi” completai io la citazione evangelica.
“Appunto,” proseguì don Zenobio, che si era brevemente voltato con approvazione verso di me, felice di avere in simili circostanze un compagno di favella latina, “fate come recita il Vangelo di Matteo,” riprese in direzione di Scarpin,“dividete con tutti da buon cristiano e Dio ve ne renderà grazia, ché forse presto sarete al Suo cospetto”.

A queste parole, avvertii i due dietro di me agitarsi e presto passare a rivolgere contumelie contro costui che nascondeva il desinare. Dopo aver per un po’ sgomitato nel tentativo di allontanare le mani del tabarchino e del greco, che cercavano di strattonarlo passando sopra le spalle mie e di don Zenobio, mentre noi, dal canto nostro, cercavamo di riportarli a più miti consigli, sor Scarpin gridò: “Xiti! Fermi! Scolte’!” 6 e, acquietando gli animi con questo annuncio di un discorso incipiente, si distese poggiando il fianco sinistro sul dorso del leone per vedere tutti meglio con quella postura. Poi riprese: “G’ho co mi dea carne salada, ma no vea darò miga in cambio degnente. Mi so’ un mercante e so che el mondo pende da un piato de stadera. Tanto qua morimo tuti, e mi vojo morir mbriago, par patir de manco” 7 e rivolgendosi a me disse: “Se ti, toscan, te me dà el vin avansà, mi te do ‘a carne salada” 8.
Al che, io non sapevo davvero cosa rispondere.
I miei due compagni a tergo mi dicevano di non barattare; don Zenobio spostava lo sguardo da me a Scarpine riprese a salmodiare: “Domine Deus, amo Te super omnia et proximum meum propter Te…” 9

Dopo molto indugio, non fui io a decidermi, ma il veneziano a farmi una nuova proposta: “Ti, se te gheun fiorin de oro, ‘a monea toscana, ‘a metemo qua drento” e mostrò un piccolo fagotto di pelle chiudibile con una cordicella, “e ghe metemo anca na bea lira venexiana. Dopo te tiri su e…la moneda chea vien su la xe el voler de Gesù: si te tiri fora el fiorin te dago ‘a carne, coa lira teme de’ el vin.”10

Io, che di cibo non ne avevo quasi punto, ma di fiorini un po’ di più, accettai, e porsi a sor Scarpin la mia bella moneta d’oro, che risaltava accanto alla lira argentata, ma spenta dall’ossido, ch’egli mostrava tra le dita,voltatosi verso di noi. Preso ch’ebbe il mio fiorino, tornò a darci le spalle e appoggiò la bisaccia sul dorso del leone. Poi fece vista di aprirla e di mettervi le due diverse monete. Nel frattempo, don Zenobio si era sporto di sottecchi sopra le spalle del nostro amante della sorte e, riabbassatosi subito, si era messo a recitare ad alta voce, voltato a guardarmi, un salmo latino che giammai avevo sentito, né in Santa Maria del Fiore né in Santo Spirito oltrarno, né scritto sui Vangeli né in bocca di predicatore: “Fuscos tantum nummos in culleo posuit!”, ossia nel sacco ci ha messo solo monete scure.

E io, compreso dal messaggio in codiceavere lo Scarpin riposto solo ducati nella bisaccia, risposi,pur’io nell’antica favella, salmodiando: “Ora pro nobis ac ne hoc impedìeris!”11.
Così, quando Scarpin mi porse la sacca da cui estrarre la moneta, sotto lo sguardo sbigottito del nostro curato, io, facendo finta di niente, v’infilai la mano ed estrassi; ma, prima che si potesse vedere cosa avessi tirato su, mi feci cadere il metallo di mano lasciando che si perdesse negli abissi.

“La ghera ‘na lira, la g’ho vista!” 12 disse subito Scarpin, ma io lo contradii subito: “No, era un fiorino, era d’oro!”.
Sennonché, lesto come un fulmine, don Zenobio gli strappo la bisaccia dalla mano e disse: “Non è difficile sapere cosa ha estratto sor Serrati, basterà guardare cosa c’è rimasto qui dentro”. E così, signor Capitano, chi ci voleva far passare da bischeri, mettendo due lire in saccoccia e il mio fiorino nelle mutande, bischero fu».

Gli sguardi dei salvati e dei marinai presenti puntavano tutti dritti come sciabole sguainate verso il volto del mercante, che, in cerca di qualcosa da dire, dissentiva oscillando il capo.
«Siete un’onta per la Città che vi diede i natali!» affermò Dandolo, «avete comunque salvata la vita, ma non fate ch’io vi incontri di nuovo, né per mare né per terra».
E poi, sottovoce, «Slandron da ciapar a peae intel dadrìo!»13


[1] Lett. “asino”

[2] Lett. “maiale”

[3] Lett. “sete”

[4] Vangelo secondo Matteo 25.35: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare”

[5] Ibidem: “Avevo sete e mi avete dato da bere”

[6] “Zitti, fermi, ascoltate!”

[7] “Ho con me della carne secca, ma non ve la darò certo in cambio di niente. Sono un mercante e so che il mondo pende da un piatto di stadera (antica bilancia portatile usata dai mercanti N.d.A.) Tanto qua moriremo tutti, e io voglio morire ubriaco, per patir meno”

[8] “Se tu, o toscano, mi dai il vino rimanente, io ti do la carne secca”

[9] Dalla preghiera cattolica Atto di carità: “O Signore, ti amo sopra ogni cosa e il mio prossimo accanto a te”

[10] “Se hai un fiorino d’oro, la moneta toscana, la mettiamo qua dentro, e ci mettiamo anche una bella lira veneziana. Dopo tu estrai e… la moneta che ne esce è il volere di Gesù. Se tiri fuori il fiorino ti darò la carne, con la lira tu mi dai il vino”

[11] “Prega per noi e non fermarlo”

[12] “Era una lira, l’ho vista!”

[13] “Lazzarone da prendere a calci nel deretano!”

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Primo indizio

di Stefania Coco Scalisi

Illustrazione di Serena Saia

Parola in codice: rosso di sera.

Chissà perché avevano scelto quelle parole, ma a quel punto non si poneva più molte domande.
Forse era stato il fatto che da mesi i colori erano diventati la chiave di volta per capire il tuo grado di libertà: giallo, tutti a fare i brunch; arancio, inizia a sfogliare il catalogo Netflix; rosso, riprendi in mano quel lavoro all’uncinetto che avevi iniziato l’anno prima.

Poi però, era venuta a sapere di quella forma di ritrovo clandestina, una cosa molto esclusiva, dei bar mobili, stile speakeasy, che agli eletti in grado di trovarli e pronunciare la parola segreta, schiudeva le porte di un aperitivo sorseggiato con calma, con musica di sottofondo e barista pronto a fare il pieno a un tuo cenno della testa. Galvanizzata dalla sensazione di essere una newyorchese pronta a sfidare le rigide regole del proibizionismo, prese il suo vecchio motorino e si mise alla ricerca di quel santuario del piacere.
Ma non aveva molti dettagli,  le era stato solo detto che il luogo si trovava accanto a un obelisco e che la parola in codice era “rosso di sera”.

Con un misto di perplessità ed eccitazione per quell’inutile vaghezza nelle indicazioni, iniziò a peregrinare per le strade della città vuota.
La vespa, ormai sempre parcheggiata, iniziò a borbottare infastidita da tutta quell’attività che di colpo le era richiesto di fare.
Ma non le importava, voleva un Manhattan e avrebbe attraversato i chilometri a piedi, se necessario, per averne uno.
L’unico problema era però che non aveva idea di dove si potesse trovare un obelisco. Lei in tanti anni non ne aveva mai visto uno. Ma se avevano parlato di un obelisco doveva per forza significare qualcosa. Cercò su Google, ma di obelischi neanche l’ombra.
Rilesse attentamente il messaggio che aveva ricevuto quella mattina, ma niente, c’era solo scritto: “Obelisco. Rosso di sera”.

Perse una decina di minuti per raggiungere un posto dove era quasi sicura di aver visto una cosa che ricordava un obelisco, ma con sommo disappunto si accorse essere invece una pagoda all’ingresso di un ristorante cinese, maledetta memoria che si inventa le cose per farti felice. Senza più idee, si rivolse a un passante. 
Quello vedendola, fece un balzo all’indietro.
Ed in effetti, tra casco, occhiali da sole e mascherina, poteva sembrare una tipa poco raccomandabile.
Realizzato il malinteso, il signore si offrì di aiutarla.

«Obelisco, dice? Mhmm, non so se si può aiutarla, ma mi pare di ricordare un obelisco vicino lo Stadio, dall’altra parte della città».
Ma si certo, come aveva fatto a non pensarci prima?
L’obelisco vicino allo stadio!

Senza perdere altro tempo, mise il turbo alla vespa e partì.
Le strade erano vuote e l’unico rumore che sentiva era quello del motore a scoppio e del vento sulla faccia.
Passò i semafori, tutti verdi, felici come lei per quella piccola gioia che stava per ricevere.
Vide da lontano una volante della Polizia, rallentò per evitare problemi.
Ma quelli erano distratti e non si accorsero neanche del suo passaggio.
Accelerò di nuovo. Nel giro di pochi minuti, vide lo stadio.
Parcheggiò.

Cercò con gli occhi l’obelisco, ma l’unica cosa che vide fu una mezza colonna rotta.
Ricontrollò sul cellulare la foto di un obelisco.
Non è che ci assomigliasse molto, ma magari era solo rotto. Magari se ci fosse stata la punta, allora si che poteva essere un obelisco.
C’era solo una casa, accanto il quasi obelisco.
Suonò.

Rispose una voce maschile, vagamente impastata, magari proprio dall’alcol:
«Chi è?»
«Rosso di sera»
«Chi è?»
«Rosso di sera!» urlò più forte.
«Bel tempo si spera. Arrivederci!»
«Aspetti, non è questo il bar…».

Terminò la frase per se stessa.
L’altro le aveva chiaramente chiuso il citofono in faccia.
Sconsolata andò verso la vespa. Mentre agganciava il casco, sentì una leggera vibrazione del cellulare. Lo prese, vide un messaggio: “Piramide. Blu notte”.

Sorrise.
La caccia ricominciava.

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La vita degli altri View More

di Siliva Penso

Illustrazione di Liliana Brucato

Dal posto in cui mi siedo posso vedere le persone in faccia.
Di solito è per terra, con le gambe lunghe dritte, la schiena contro la porta automatica che resta chiusa.
È il modo migliore per osservare la gente che sfila entrando: triste, arrabbiata, agghindata, che non ha tempo, che perde tempo, che non si rassegna al passare del tempo.

A volte mi metto sulla poltroncina di plastica arancione, lì mi godo meglio il dondolio del vagone e sonnecchio.
Lo faccio quando ce l’ho col mondo, o dopo che qualcuno mi ha trattato male.
Così mi diverto a scrutare le espressioni schifate degli altri, gli sguardi imbarazzati che si incrociano tra loro, trovando, risarciti, approvazione quando di solito le identità di ognuno sono chiuse, sigillate, proiettate verso il proprio telefonino. C’è una certa soddisfazione beffarda a vedere il tramestio dei pensieri preoccupati dietro le fronti, che macinano idee e si impongono di non sedersi più sui sedili se ci si mette la gente come me.
Già, ma com’è la gente come me?

Umana direi.
Ma anche senza tetto, senza casa, barbone, clochard, barbaro, sporco, puzzolente.
Come volete voi: io sono tutte queste cose.

Certo, sono anche altro.
Ma è nascosto bene sotto la sporcizia, il disagio, gli occhi cerchiati di borse nere.
Perciò nessuno lo vede.
Invece, da quando io sono questo qua, a loro li guardo sempre, prima no.
Prima era tutto un vortice di impegni e sacrifici e cose da fare.
Ma c’erano anche i momenti belli, mi pare.
Ora il tempo è una linea piatta ininterrotta e va per conto suo.
Io lo srotolo osservando il viavai dei corpi che si spostano, oscillano, perdono l’equilibrio, appisolano il mento sul palmo della mano, raccontano urlando al telefono delle coliche del marito, sbraitano contro le ingiustizie ricevute al lavoro, dai fidanzati, dalla compagnia telefonica.

L’altra notte c’era una coppia che si baciava sui sedili.
Tanto erano presi che la metro era diventata la loro stanza.
«Sono giovani», ha detto una signora all’amica, come per scusarli. Loro erano vestite tutte eleganti, chissà qual era la meta. È bello fantasticare, immaginare dove potrebbero andare, chi incontreranno, amici, amanti? Cosa troveranno quando lasceranno il vagone, cosa li aspetta nella vita vera, fuori dal dondolio rumoroso delle gallerie?

Il sabato sera è il più bello, la metro è un pullulare di allegria e aspettative, è un’altra vita nella vita sotto la città, che viaggia veloce verso feste e incontri e teatri e cinema e luci nella notte che brillano sui marciapiedi. Gli amici, in circolo intorno al palo centrale dello scomparto, si battono pacche sulle spalle dei giacchetti jeans, hanno gli occhi lucidi di riso, sono innamorati del mondo e nei gruppetti c’è sempre un ragazzetto che si accosta a una ragazzetta e fa il simpatico, lei a volte ricambia la simpatia, a volte no, è scorbutica sapendolo, lo fa apposta, il ragazzetto talvolta si scoraggia torna al sicuro nel branco dei maschi, altre volte dribbla, la prende alla larga, cerca prima di far colpo sulle amiche.

Il lunedì mattina nell’aria c’è una tristezza lugubre, l’aspettativa lascia il posto alla rassegnazione, alla rabbia di alcuni che vogliono litigare per forza, a quelli che entrano come furie travolgendo tutti, che rubano il posto a sedere con scatti ferini e occhi da predatori. C’è anche la categoria con l’ansia, tipi che si mettono davanti alle porte molte fermate prima della loro e chiedono a tutti «Che scende alla prossima?».

Il venerdì pomeriggio si sentono più sospiri che parole, c’è uno strano mesto silenzio, le persone sono stanche, i libri rimangono aperti e gli occhi persi in chissà quali orizzonti ciechi, le dita scorrono sugli schermi senza vedere niente.

Ogni giorno in certe ore stabilite, che chiamano di punta, la metro diventa un container e dentro ognuno stipa il proprio corpo come può, come una merce ci si addossa gli uni agli altri. Io sto tranquillo, intorno a me c’è sempre spazio. A volte quelli più vicino parlano di me, sono le solite frasi con le stesse intonazioni, una sinfonia metallica e monotona sulla quale si può quasi tenere il tempo, come se fosse una logora canzone trita e ritrita che, con versi stonati e gracchianti, rimbomba dai vecchi altoparlanti della stazione: «Che vergogna», «Ci vorrebbe più controllo…», «Basta con questo degrado, non si può più neanche prendere una metro!», «Andrebbero arrestati questi qui e buttata la chiave! », «Insopportabile questa puzza, già ci tocca andare a lavorare…».
Lavorare.

Anche io lavoravo, o almeno così ricordo, come fosse un sogno ormai. Sembrano mille invece era solo un anno fa.
Avevo un lavoro, sì, ora ho solo uno scatolone e sono un niente perché niente possiedo: così, almeno, impone questa società, questa esistenza attuale. L’esistenza è fluida, non c’è, scivola via.
Vivo di elemosina.
Elemosino spiccioli e sguardi…e guardo.

Guardo la vita che non ho: la vita degli altri.

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di Jolanda

Illustrazione di Anastasia Coppola

«E sbrigate! Alle sei dobbiamo cerca’ de sta lì dai!»
«Ma perché il concerto inizia alle sei? Ma poi, sono le quattro! Boh, io non ti capisco».
«Non è che inizia, però, metti mezz’ora per arrivare con la macchina ad Anagnina, piglia la metro, cambia, poi arriva a Pietralata, fatti il pezzo a piedi fino all’Arci, metti pure che sbajo col navigatore, se so fatte le sette e mezza e lo vediamo col binocolo, anzi, col cazzo lo vediamo Giancane».
«Eeeh ma che te vuoi fa sudà addosso da Giancane?».
«SI, STAVOLTA DEVO STA’ SOTTO AL PALCO, ME DEVONO ARRIVA’ LE GOCCE SUE. SBRIGATE, Costà!».

Da quell’ultimo sincero, sentito, imperiosissimo “sbrigate” ci avevo ricavato solamente una mezz’ora di ritardo.
Ero soddisfatta.
Alle 16.30 eravamo in macchina, pronte, ed io ero già lì ad immaginarmi in prima fila – no, dai, seconda – a fare una delle più belle sudate da concerto mai viste prima.
Mentre pogavamo dovevamo scivolare l’uno sull’altro.

Macchina parcheggiata, metro presa, cambio a Termini, metro B direzione Pietralata – quasi vuota – e…
«Ah, aspetta!»
«Eh vabbè Costà so’ trent’anni che te conosco, fammela na volta sta sorpresa de arriva’ in orario da qualche parte prima de ave’ circumnavigato Roma. Che è successo, che te sei dimenticata?»
«Parti col pregiudizio: perché devo essermi dimenticata qualcosa?».
Respiro profondamente per evitare scenate e con un tono di voce estremamente calmo, rispondo: «E allora cosa?»
«No niente, c’hai ragione, mi sono dimenticata la bandana gialla. Dobbiamo andarla a prendere».

Costanza ed io siamo amiche, a conti fatti, da circa trent’anni ed un suo tremendo difetto è l’ingenuità con cui fa qualsiasi cosa, qualsiasi azione. Per lei è tutto reversibile, nulla con delle conseguenze, nulla a cui non si possa rimediare.
Costanza è perfettamente l’opposto del mio cinismo, che poi “cinismo” è il nome che la gente dà al realismo quando non è capace di sopportare la realtà per quella che è.
Tralascio tutto il calendario che avrei voluto urlarle e rimango in silenzio.
Mi limito a rovistare impazientemente nella sacca che porto a spalla io, prendo i biglietti della metro e gliene porgo uno.
Alla fine del concerto – dopo almeno tre birre a testa ed un tamburo martellante nelle orecchie – Costanza mi avrebbe detto ridendo: «C’avevi na faccia prima, stavi incazzata nera, ma facevi ride».
Facevo “ride”.
Mi stava partendo l’embolo, ma facevo “ride”.
Non batto ciglio perché so che di questa bandana giallo limone non se ne può proprio fare a meno.

Avevamo quindici anni quando, in una giornata estiva, mentre mangiavamo un gelato, immerse nella nostra spensierata noia del momento, Costanza mi raccontò un episodio accadutole quando era molto piccola, non specificandomi età o altro.
Il padre era un interprete italiano, laureato in lingue orientali, molto richiesto dalle più grandi aziende petrolifere italiane e questo lo portava a viaggiare moltissimo, soprattutto in Libia ed in Marocco. In uno dei suoi viaggi portò Costanza con sé e, mentre camminavano l’uno accanto all’altra in uno dei grandi ed affollati mercati, Costanza sparì.
Il suo racconto non aveva particolari dettagli, se non il fatto che il padre, prima di uscire, le avesse fatto indossare una bandana gialla.
Fu proprio quella che premise al padre di ritrovare Costanza in una bancarella di spezie, accanto alla curcuma.
Costanza diceva di non avere paura della folla, quanto, piuttosto, di aver paura di  perdersi in posti affollati e quella dannatissima bandana giallo limone era il lasciapassare per addentrarsi nella fiumana; la mia unica, sola, gialla ed imperdibile possibilità di andare a vedere sto cazzo di Giancane.

Da due settimane ripenso continuamente a quel concerto: il meno sudato e con la peggiore visuale di sempre – ultima fila, facevamo praticamente servizio d’ordine – ma il più bello ed il più spensierato, prima che tutto finisse, prima di non poterti più dire «ci vediamo domani».

Adesso non so dove sei e non so dove cercarti, quindi ho messo io la tua bandana giallo limone così magari riuscirai a trovarmi tu.

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Storie e intrecci di vita sul tram 3, vettura num. 1503

di Marcello Manzoni

Illustrazione di Anastasia Coppola

La notizia l’ho appena letta sul gazzettino della mia città, nella terz’ultima pagina, con il rischio che il fatto passi inosservato: vogliono mandare in pensione il tram numero 3, serie 1500, vettura 1503.
Chi sta leggendo magari ha appena fatto spallucce, non considerando come questo evento sia tremendo nella mia vita.

Il tram numero 3 è un eroe vestito dalla tradizionale livrea verde bitonale, con due lunghe panche longitudinali e il decoro del tempo che fu.
Classe 1928, è sopravvissuto ai bombardamenti alleati forse grazie al suo mimetismo di fabbrica.
Nei decenni seguenti, ormai sicuri che non ci sarebbero stati ulteriori bombardamenti, il colore della serie 1500 fu modificato in uno spavaldo arancione ministeriale, ma quello della vettura 1503 rimase inalterato.

Per me il 1503 non è solo un mezzo di trasporto, ma lo considero un amico fidato, ritardatario, ma fidato.
Da bambino lo aspettavo in compagnia di mamma per andare a scuola.
Dodici fermate, e nel frattempo rileggevo i compiti svolti a casa. Con il passare degli anni prendere il tram da solo divenne un simbolo di indipendenza di cui andavo molto fiero.
Alle superiori, le dodici fermate mi occorrevano per fare i compiti dimenticati.
Quando iniziai l’università, servivano solo cinque fermate per giungere alla metro e avere a disposizione così poco tempo, mi permise di porre maggiore attenzione alle persone che vivevano quotidianamente il 1503.

La signora elegante fu certamente la principale habitué.
Al tempo, quando la notai, avrà avuto circa ottant’anni e ogni giorno era vestita con estremo garbo.
Non penso che la signora dovesse effettivamente andare da qualche parte: amava girare per la città e mettersi in mostra per chi saliva, magari inducendo qualche avventore a chiedersi dove una signora di tale eleganza si stesse dirigendo.
Al mio secondo anno di magistrale, di punto in bianco, la signora smise di frequentare il suo salotto motorizzato.
Chiesi tempo dopo a Giuseppe, lo storico manovratore del 1503, se sapesse qualcosa della signora elegante.
Rispose di no e giurò di non ricordare un periodo così lungo senza la sua presenza.
Non la vidi più.

Uno sgradevole personaggio che iniziò a frequentare il 1503 fu un tipo in impermeabile, che soprannominai in seguito “il Toccaculi”.
L’uomo prediligeva gli orari di punta, con i pendolari ammassati e iniziava la sua attività molesta per poi darsi alla macchia.
Divenne noto sulla linea del numero 3 e tenuto perentoriamente d’occhio da Giuseppe, finché toccò le natiche sbagliate e si prese un tacco dodici dritto in mezzo alle gambe.
Giuseppe bloccò il tram e lo lanciò di peso sulla pensilina. Lo vidi altre volte sul 1503, ma restava in disparte, ormai famigerato.

In quegli anni le panche longitudinali furono un invito per rubare sguardi alle ragazze.
Il tipo di seduta faceva il mio gioco e le “maledette” si sforzavano a guardare in ogni direzione, ma mai la mia o a leggere qualsiasi cosa avessero sottomano.
Ricordo quella volta in cui incrociai lo sguardo con una bellissima ragazza mora e lei non distolse lo sguardo.
Il mio cuore iniziò a battere all’impazzata. Mi guardò ancora e fece un gentile sorriso: rimasi così estasiato che persi la fermata e in fondo chissenefrega, dovevo solo seguire una lezione di Archivistica, quindi assolutamente sacrificabile per un ennesimo sorriso.
La ragazza scese poche fermate dopo e io rimasi imbambolato sul tram.
Mi diedi dell’idiota per le successive tre fermate.
Poi scesi e mi diressi alla morbosa lezione, dove non feci altro che rimuginare sul mancato approccio.
Le settimane successive sperai di incrociarla nuovamente e mi capitò persino di scendere alla sua fermata, auspicando in un casuale incontro.
Ma non successe.
Infine, dopo alcuni mesi la vidi salire sul 1503: era più bella di come la ricordassi.
Inizialmente ponderai la possibilità di lasciare che fosse lei a lanciare il primo sguardo, ma già nei due secondi successivi iniziai a fissarla avidamente e con un sorriso ebete.
La ragazza si accorse della mia presenza e ricambiò il mio sorriso con uno dei suoi, meraviglioso.

Ero a un bivio: se l’avessi lasciata andare senza rivolgerle la parola lo avrei rimpianto per tutta la vita.
Appena il posto a fianco al suo si liberò, mi alzai e mi sedetti a fianco a lei.
Le rivolsi la parola:
«Ciao, non so se ti ricordi di me, ma ci siamo visti proprio qui sul tram alcuni mesi fa. Avrei voluto conoscerti già allora e questa volta non potevo farmi scappare l’occasione».
La ragazza mi sorrise ancora più splendidamente e mi rispose:
«Che pensiero carino! Se hai trovato il coraggio significa che Dio ti ha infuso la forza».
«Dio…cosa?» Chiesi istintivamente.
«Sì, Dio muove ogni nostra azione, capisci?».
Attese che annuissi e poi riprese a parlare: « Noi del Sacro Amore di Dio pensiamo che le cose belle che ci succedono tutti i giorni siano frutto dell’amore del Signore».
«E le cose brutte?», domandai, mordendomi la lingua subito dopo.
«Le cose brutte no, ovviamente». Lo disse con un tono piuttosto sdegnato.
Quindi fece una magistrale pausa, degna del miglior Vittorio Gassman e come ricordandosi che Dio la volesse vedere sorridere aggiunse: «Se vuoi puoi venire a un nostro incontro di preghiera».
Non avevo niente contro i ferventi cattolici, ma quella volta rimasi spiazzato, soprattutto perché nei mesi mi ero creato diversi scenari, ma mai niente del genere.
«Guarda ci penso un po’ su…» vile menzognero che non sono altro.
«Ora devo scendere, non posso proprio perdere la lezione di Archivistica, ciao!».
Sì, mi avevano bocciato al precedente appello.
Non l’ho più vista e chissà come si chiamava.
Tempo dopo in televisione guardai uno speciale sulle Bestie di Satana e mi sembrò di riconoscerla, ma non poteva certo essere lei.

Vi sto scrivendo dal tram 1503, con il quaderno aperto sulle gambe, il gazzettino ripiegato e dopo quarant’anni di frequentazione giornaliera sto come nel mio salotto.
Ahimè ancora per poco.

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di Denise Ciampi

Illustrazione di Serena Saia

Ti lascio andare: solo l’ombra si attarda nel campo visivo, prima di scomparire.

Rimango sotto la pensilina della biglietteria, nella quiete assolata del porto. Cominciano ad arrivare macchine e furgoni. Famiglie, uomini soli.
Sui portapacchi piccoli mobili, elettrodomestici e altri oggetti, legati con cinghie e teli colorati.
Forse tornando a casa ti sarai fermato a bere un caffè al bar della piazza, dove ieri sera abbiamo chiacchierato a lungo, trascurando rigorosamente le cose che contano.

Inizia l’imbarco dei mezzi, il mio camper è tra i primi.
I gesti bruschi del personale mi orientano verso la zona di sosta.
Al momento di lasciare il porto mi affaccio alla balaustra, come facevo da bambina, quando insieme ai miei genitori andavo in Sicilia per trascorrere le vacanze con i nonni.

Una ragazzina dai colori magrebini e dal capo scoperto si diverte a guardare il porto che si allontana e ride assottigliando ancora di più il taglio dei suoi occhi.
Vicino a lei c’è un bambino più piccolo che gioca, sorvegliato a distanza da una giovane donna.
Il vestito fucsia della bambina si gonfia come un piccolo paracadute.

Anche il mio abito raccoglie il vento e, mentre raggiungiamo il mare aperto, aderisce al corpo e si solleva in forme allungate che seguono lo stesso andamento dei miei capelli sciolti, divisi in ciocche dall’aria salmastra.
Ho la sensazione di perdere la mia forma.
Anche la pelle cambia: si ispessisce, per una scorza invisibile e fresca, impastata dal vento con acqua e sale.

Indossa una gonna bianca, ben stirata; una camicetta, anche quella bianca e ordinata. La ragazza dell’equipaggio ha occhi chiari e grandi, che una volta devono averle dato un’aria ingenua.
Adesso no: sono gli occhi di un marinaio che scruta l’orizzonte, mentre fuma.
La sigaretta stretta tra il pollice e l’indice, rivolta verso l’alto, ad ogni boccata una smorfia, quasi di dolore. In quelle espressioni la pelle bruciacchiata dal sole si arriccia e si distende, con un ritmo lento che fa pensare al movimento di un mammifero marino.
Guardiamo entrambe la scia lasciata dalla nave: una traccia lunga e stranamente persistente di schiuma bianca, intensamente azzurra al centro. Eppure scomparirà, mi viene da pensare, e per un attimo vorrei che la nave fosse in grado di lasciare un segno indelebile, lungo quella rotta che da Civitavecchia ci porterà a Palermo, da dove – senza di me – proseguirà per Tunisi.

Ti lascio andare, e ancora una volta mi illudo che sia qualcosa di definitivo.

La ragazzina è ancora sul ponte: corre e gioca con il bambino di prima.
La giovane donna viene ad appoggiarsi alla balaustra, vicino a me e non molto distante dalla ragazza dell’equipaggio.
Distoglie la mia attenzione dalla scia.
Le dico qualcosa sui bambini: si somigliano, le chiedo se sono fratelli.
Ha lo stesso sorriso della bambina, avrà appena vent’anni.
Dice di sì; capisce l’italiano e lo parla, con qualche difficoltà.
Il velo chiaro che le copre la testa si muove, sollecitato dal vento e dai movimenti vagamente ritrosi del capo.
Le dico che viaggio con il camper, sorride e mi fa capire che, con tutto quello che hanno imbarcato, un camper avrebbe fatto comodo anche a loro.

Mi ricordo delle macchine e dei furgoni stracarichi di roba, mi spingo a chiederle che ne faranno di tutte quelle cose.
Sono regali, per i parenti e per gli amici.
Hanno comprato una televisione usata per un fratello di suo marito e un mobiletto per la casa dei suoceri.
Portano qualcosa a chi li ha aiutati a partire, si usa così.

Il bambino si sposta, corre su per le scalette e la madre lo segue.
Solo adesso mi accorgo che anche la ragazza dell’equipaggio se ne è andata. Mi è venuta fame.
Buffo avere una cucina e non poter cucinare.

Finisco al bar esterno, i panini sono come quelli dell’autogrill: mi sembra che l’unica differenza sia che costano di più.

Dopo aver mangiato mi dirigo verso il bagno.
In piedi, vicino ad una porta a vetri, ci sono la giovane donna e i due bambini. Noto che adesso il vestito fucsia della bimba è sgualcito dal viaggio, ho nostalgia del piccolo paracadute.
Mi viene spontaneo sorridere ai bimbi e fermarmi un attimo vicino a loro. Tu non hai figli? No, non ne ho. Sei sola? Sì, viaggio sola.
Intanto, oltre la porta, un uomo nordafricano fuma e guarda nella mia direzione.
Spiego alla madre che sono nata in Sicilia ma non ci torno da tanti anni, che voglio conoscere il posto da dove vengo.
Allora sei straniera anche tu…
Forse, non ci ho mai pensato.

Raggiungo davvero il bagno. Mi preparo per la notte, soprattutto ho bisogno di sciacquarmi la faccia. Tornando nella sala mi guardo intorno: i passeggeri sono sistemati ai tavolini o sui divanetti, quasi nessuno sta consumando; la sala è piena di voci che si intrecciano in lingue diverse, con misteriosi punti di contatto. Cerco con lo sguardo la donna e i bambini, ma di loro non c’è più traccia.

Si è infilata un cardigan sopra la divisa, forse non è in servizio.
È appoggiata alla balaustra: sembra attratta da qualcosa, nell’acqua. Traffico un po’ intorno al camper e continuo ad osservarla cercando di non dare nell’occhio.
Buonanotte, mi dice.
Ha un tono gentile, che oggi pomeriggio avrei faticato a immaginare. Rispondo e, per pudore, mi infilo subito nel veicolo.
Sarà la stanchezza, ma penso che non mi stupirebbe se, domani, qualcuno raccontasse di averla vista tuffarsi e scomparire a nuoto nella notte.

Continuo a rivolgerti questa cronaca silenziosa del mio viaggio, anche adesso, che con gli occhi fissi al soffitto dell’abitacolo, cerco di prendere sonno.
Quante parole ancora dovrò pensare, prima di trovare un linguaggio capace di riempire il silenzio? Qui, in mezzo al mare, tra lingue e dialetti nati per comunicare, l’incomunicabilità mi affligge anche di più.

Nel dormiveglia il mio sguardo si confonde con quello della ragazza dell’equipaggio.
Sento in sottofondo una musica araba.
La ragazza mi guida tra le ombre profonde del mare.