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di Simona Visciglia

Illustrazione di Paola Donnici

Sono un uomo metodico.
Noioso direbbe qualcun altro.
Sono sempre stato così.
Non perdo tempo, non giro per casa cercando le chiavi o mettendo in ordine le mie cose: tutto è dove dovrebbe essere.

Ho un piano preciso per vivere, basta attenersi a quello e mi avanza il tempo per rilassarmi, per il sudoku o per un buon libro. Sono un pendolare e sono un contabile, cos’altro avrei potuto fare?
E ho sempre calcolato ogni cosa, fino ad oggi.

Sono in tram, all’incirca a metà percorso tra il mio ufficio e la stazione.
Guardo fuori dal finestrino, senza mettere a fuoco: un’unica macchia indistinta per i miei occhi affaticati dopo ore al pc. Non penso a nulla in particolare, del resto so sempre cosa mi aspetta, non è necessario che mi soffermi a riflettere.

«Mi scusi…» una voce si insinua tra il mio silenzio interiore e il rumore monotono del tram che scivola liscio sulle rotaie, «Sa dirmi se ferma in piazza Libertà?».
Giro lo sguardo verso la persona che è seduta di fianco a me, una donna che sembra uscita da un romanzo di E. M. Forster, catapultata ai giorni nostri.
Indossa con disinvoltura un cappellino a cloche, color carta da zucchero; la gonna di lana dalla foggia un po’ sorpassata e il cappotto del colore delle campagne inglesi completano il quadro.
Ha uno strano accento, direi tedesco, per quel modo perentorio di scandire le parole.

Rimango un attimo interdetto, perché non so se il tram fermi in piazza Libertà: da anni il mio itinerario si snoda dalla stazione all’ufficio e viceversa, cosa ci sia prima o dopo è un mistero.
«Sa che non glielo so dire, signora – bofonchio – però, aspetti un attimo, diamo un’occhiata al percorso» e le indico il grafico con tutte le fermate, che fa bella mostra di sé appena sopra i nostri sedili.
E aggiungo, preso da un’immotivata agitazione: «Non viaggio mai su questa linea».
Mento spudoratamente, vergognandomi di questa falla nel mio sistema inoppugnabile di conoscenza del mondo.
Inforco gli occhiali e inizio a studiare il percorso.

Piazza Libertà, tre fermate dopo la stazione: «Sa che c’è, signora? Quasi quasi scendo a questa anche io». La città è sempre la stessa, eppure potrei definirmi uno straniero, ancor più della mia interlocutrice improvvisata.
«Facciamo un pezzo di strada insieme, se le fa piacere, se non le sembro inopportuno».
La donna mi sorride:
«Giovanotto, accetto volentieri e approfitto della sua gentilezza per chiederle un’altra cortesia. Le sembrerà strano, ma ho solo bisogno che mi indichi un palazzo rosso. Mi hanno dato questa informazione non sapendo che sono daltonica».

Emetto un uh come di fronte ad una rivelazione sensazionale e lei continua: «Per me le fragole sono verdi. E anche le ciliegie. Vedo tutto verde, un albero lo percepisco bene però. Con gli anni, poi, ho imparato a distinguere il verde dal viola, ma il palazzo rosso mi riesce un po’ complicato!».

Penso: invecchiando, un colore nuovo;
invecchiando, una strada nuova.
E se fosse tutto diverso, d’ora in avanti?
Nuovi colori, i viola diversi dai verdi. Fermate da scavalcare. Occasioni da prendere al volo.

«Ecco, guardi – torno in me, focalizzando lo sguardo sulla piazza e sull’unico edificio rosso-mattone – è senz’altro quello». La signora mi ringrazia con veemenza e, allontanandosi, mi fa cenno con la mano, scandendo un accorato Auf Wiedersehen!

E ora?
Continuo a pensare alla rivelazione di quel viola, che d’improvviso si è materializzato sulla retina della buffa donnina. Cammino, seguo la strada principale, ci sono negozietti di quartiere, un fornaio dalla cui porta fugge l’odore del pane caldo; un calzolaio, ne esistono ancora!
Una cartoleria che mi ricorda i tempi della scuola. Guardo tutto come se non avessi mai visto niente del genere prima d’ora, eppure nulla è cambiato e anche io, in fondo, non sono una persona diversa da quella che stamattina stava curva sul computer, nel solito ufficio grigio.

Grigio.
Che sia solo una questione di colori?

Proseguo ancora un po’: insegne luminose, voci indistinte, la sirena di un’ambulanza.
Arrivo alla fine del viale. All’improvviso mi sento uno stupido, mettermi a sragionare così.
Mi do uno scossone.  Riacquisto la vista, la gente è la solita gente. Il traffico anche è il medesimo, stesso frastuono di motori. Persino il vento non ha un suono diverso.

A quest’ora avrei dovuto essere già a casa.
Che mi sarà saltato in testa di perdere tempo con i palazzi rossi, gli alberi viola o verdi, le fragole, le ciliegie, piazza Libertà.
La fermata del tram è proprio là, dall’altra parte della strada, direzione stazione. Faccio ancora in tempo a prendere il treno delle 18.50.

Finalmente mi sento di nuovo sicuro, in pace con me stesso e con il resto del mondo.
Che poi, il resto del mondo che sarà mai?
In pochi minuti rifaccio tutto il percorso al contrario e finalmente ecco la fermata FS, quella giusta. Attraverso di corsa l’atrio principale, fin sotto il display delle partenze.
Ecco, il treno è in ritardo!

Mi siedo sulla panchina, l’unica sul binario da cui partirò.
Ancora pochi minuti e tutto sarà come è sempre stato.
Sono un uomo metodico e noioso, ma sereno in fondo.

Mentre mi ripeto queste parole come un mantra rassicurante, mi si siede accanto una persona.
Non la guardo nemmeno, sono troppo impegnato nell’osservare le lancette del mio orologio.
«Non ci posso credere!» la sento esclamare all’improvviso, che quasi sobbalzo.
Mi giro a guardarla, per accertarmi che ce l’abbia con me: una donna.

Resto interminabili attimi a fissarla.
Anche le lancette del mio orologio si fermano.
Si ferma il mio cuore, si ferma il mondo, si ferma l’universo.

Io che resto senza parole, lei che pronuncia il mio nome: «Giorgio… sei tu?»

Il mio nome sulle sue labbra. Il tempo scompare. O ritorna.
Il tempo in cui l’ho amata, il tempo in cui l’ho perduta.

Voglio girare il mondo, mi aveva detto quell’ultima volta.
E adesso l’ho ritrovata, dopo il mio viaggio, dopo i suoi viaggi.
Proprio qui, aspettando un treno che non avrei preso mai se oggi fosse stato come ieri o come sempre. 

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di Cristi Marcì

Illustrazione di Eleonora Loiodice

La mia prossima fermata è quella di Cadorna, crocevia di colori tra il rosso e il verde.
Dove una moltitudine incalcolabile di persone sgomita per arrivare ognuna al proprio appuntamento.
Che sia reale o immaginario non ha importanza, perché ciò che conta davvero è correre, fino a prosciugarsi di ogni energia.

Milano è un vampiro.
Quando esaurisce le tue energie ti abbandona agonizzante in un vicolo e ti sostituisce.

È sempre stata questa l’impressione che mi ha dato la prima volta che ho solcato il suo cemento e posato gli occhi sui suoi immensi grattacieli.

Dietro gli immensi grattacieli alberga un’anima subdola, esigente, che ti promette una vita migliore in cambio di devozione assoluta.

Esige sempre di più, ogni giorno ti strappa un pezzo, ogni giorno ti chiede uno sforzo in più e intanto ti stordisce con le sue luci, le sue offerte e i suoi locali. La sua promessa che svetta in Piazza Duomo, che riecheggia in Galleria. Ciò che farai verrà sicuramente ricompensato, sei nel posto giusto, il Paese dei Balocchi.

Da quando sono venuto ad abitare qui, con la mia indole riservata e riflessiva, ho sempre resistito al fascino di questa stronza di città vedendo grigio e nebbia là dove gli altri vedevano luci e sogni.

Vedo la mia immagine riflessa con indosso una mascherina chirurgica, rinchiuso in uno dei tanti vagoni della metropolitana.

Nel ventre del mostro tecnologico mi sento al sicuro meno esposto al pubblico e a tutta quella patetica e odiosa frenesia sempre in agguato e pronta a cospargere nella tua intimità un liquido vischioso e nauseabondo. Semplicemente per contaminare la tua diversità.

Ogni volta che prendo posto su uno dei suoi sedili colorati mi piace osservare gli altri passeggeri, percepire la loro fragilità e solitudine nel momento in cui i loro occhi diventano meno vigili e sono vulnerabili e ridicoli.
Poverini non sono più in grado di guardare in faccia chi hanno di fronte, leggo la loro paura e la loro vigliaccheria.

Vanno al loro appuntamento, sono di fretta.
Inseguono quella maledetta promessa e indossano la maschera della superbia e dell’efficienza, ma qui, nel verme intestino tecnologizzato, io li vedo per quello che sono.

Osservo le micro-espressioni e i loro gesti, mi soffermo sullo sforzo protratto in tutto il corpo di mantenere una parvenza di sicurezza, di perfezione. Li vedo districarsi tra ciò che realmente hanno e quello che inseguono e che “non-a-vrai-ma-i”.

Una volta arrivato alla stazione di Cadorna le porte del mio vagone si aprono, vomitando una fiumana di vite con gli occhi incollati al proprio smartphone.

Sono qui da sei mesi e sento che per non sbroccare dovrei riprendere il volo, ma resto qui. Dove questa schizofrenia è la norma, la sua promessa mai mantenuta.

Ti è piaciuto questo racconto? Leggi anche quelli delle altre fermate!

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di Davide Paciello

Illustrazione di Francesca Bosco


Guardo dei video sul cellulare in attesa del tram.

Si passa dal comico al drammatico.
Guardo una ragazza che mi racconta di uno stupro e mi chiedo quando ci sarebbe stata la battuta finale perché i tre video precedenti erano gag comiche. Poi faccio mente locale e mi sento a disagio.

Ripenso a quella volta in cui il presidente del consiglio, donna, madre e cristiana, dichiara pubblicamente che non solo lo Stato non poteva garantire la sicurezza alle cittadine intenzionate ad uscire, bere e divertirsi, ma non avrebbe neanche fatto alcunché per migliorare la situazione, stava a loro tenere la testa sulle spalle e gli occhi vigili.

I suoni e i colori del periodo natalizio diventano più forti, ma lo spirito del Natale si sente sempre meno. Forse perché uno ha smesso di credere prima a Babbo Natale, dispensatore di doni, poi a Gesù, dispensatore di giustizia, e infine anche al Dio Cornuto, annunciatore dell’inverno.

La verità è che da quando il respiro non condensa più a causa del caldo anomalo non ho più bisogno di riscaldarmi al suono della voce di Bublè o delle lucine intermittenti dei negozi.

Del Natale resta un ricordo legato all’infanzia, ai tempi in cui aspettavi di trovare, oltre il maglione, anche pokemon rosso sotto l’albero.

Non resta che la liturgia del pasto, il cenone del 24, quando la famiglia si riunisce a tavola per contare le sedie vuote. Qualcuno è morto anche quest’anno, un piatto in meno da preparare.

Nella mia città la vigilia è un tripudio di alcolismo diurno.
Un numero spropositato di esuli ritorna in patria per bere fino a sboccare in un clima di esuberanza e malinconia. Mi chiedo quante ragazze vorranno seguire il ritmo della festa sapendo che, se succede loro qualcosa, per gli altri, se la sono cercata.

Diamo sempre colpa alle vittime: guardiamo i film horror pensando che se avessero fatto quello o quell’altro, se non avessero fatto quella cosa o quell’altra, beh non ci sarebbe stato il massacro. Un modo per scaricare le responsabilità davanti all’impotenza e all’impreparazione che ti lascia il caos che si abbatte su di te.

Generalmente Natale è un buon momento per fare il punto sulla propria fragilità, impotenza e nudità. Magari davanti al silenzio di un posto vuoto.

Aspetto il tram, mi apro una birra ghiacciata e brindo alla crisi climatica, al precariato e al patriarcato, così bravi a lasciare posti vuoti durante le feste.

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di Davide Paciello

Illustrazione di Francesca Bosco

Alla banchina non c’è nessuno, solo io, in attesa.

Sono cresciuto con i miti greci e l’idea che l’unica cosa che conti davvero è farsi ricordare.
Se non potevo essere Achille sarei stato Omero.

Per ridimensionare il mio delirio di grandezza papà ci teneva a ricordarmi la seconda legge della termodinamica: nulla esiste per sempre e col passare dei secoli non rimarrà niente, neanche la sabbia del Colosseo; la Terra stessa scomparirà nei mutamenti dell’Universo, indifferente alle nostre pretese di grandezza.

Mio padre come Shelley in Ozymandias.

Il poeta mette alla berlina il delirio del Faraone, il Dio incarnato che vantava di aver fatto qualcosa tanto grandiosa da non poter essere eguagliata o cancellata. La parte più citata della poesia è l’ultima: “Ammirate, o potenti, la mia opera e disperate!”, vogliamo tutti dimenticare la prima dove, di questo “Re dei Re”, si dice che non si sa pressoché nulla e di lui, delle sue opere, della sua vanità, non resta che una mezza statua abbandonata al deserto.

L’entropia cresce, il tempo passa, il tram no.

Non sono in grado di razionalizzare la vastità dell’Universo e neanche il fatto che prima non esistiamo e dopo la vita smettiamo di esistere. Da giovane era causa di insonnia, attacchi di panico e urla notturne. Adesso non ho più né il tempo né la presunzione di razionalizzare certe cose e smetto di pensarci.
Nei sogni l’idea intrusiva della mia stessa scomparsa riemerge e mi pone davanti l’inevitabile condizione di essere consapevole che non esisterò più. Ammiro l’opera della natura, il meccanismo di quel che sono che rallenta e si spegne, ma non dispero, mi lascio andare ad una placida rassegnazione.

Al risveglio c’è il freddo, il lavoro e la pipì da fare.

Ogni mattina rimpiango di non essere morto nel sonno.

Aspetto il tram come si aspetta la morte: impotente, indifeso.

Qualche giorno fa mi sono svegliato e ho abbracciato la mia compagna.
Da lì a poco mi sarei riaddormentato, cadendo nell’incoscienza. Quell’abbraccio sarebbe stato inutile e privo di senso in quanto, il tempo di un battito di ciglia, avrei smesso di trarre piacere da quel gesto, del quale, lei, addormentata com’era, non aveva contezza. Ma andava bene così.
Prima non esistevo e, dopo la vita, non esisterò, quello che c’è in mezzo è una serie di azioni senza peso, senza conseguenza, senza importanza.

Negli ultimi istanti prima di tornare incosciente ho immaginato noi due diventare concime e poi alberi con radici intrecciate. E Va bene così. Meglio diventare alberi e poi niente che Omero.
Del resto, Omero non è mai esistito.

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di Silvia Cestoni

La vita

Nasce nel 1908 e fu da subito considerato un irregolare, un ribelle e un precoce come Carlo Bernari.
A 15 anni scappa di casa e a 21 approda a Solaria, rivista letteraria fondata a Firenze da Aldo Carocci nel 1926.
Il padre era ferroviere, spesso costretto a spostarsi per la lavoro: la famiglia lo seguiva e di questi spostamenti ci sono testimonianze in “Conversazioni”. Il padre pur non avendo studiato amava la letteratura, in particolare Shakespeare e Defoe, e leggeva al figlio “Sogno di una notte di mezza estate” e “Robinson Crusoe”: saranno testi che influenzeranno l’infanzia di Vittorini.
Frequenterà le scuole tecniche ma tra il 1923 e il 1924 interrompe gli studi, abbandona definitivamente casa e si trasferisce a Gorizia. Quindi si reca a Firenze dove entra in contatto con Curzio Malaparte, con il quale, in una prima fase, condividerà il pensiero politico e la fede fascista.
Malaparte lo farà entrare in varie riviste ( ad esempio “La conquista dello stato”) e in alcuni giornali: grazie a questa sua amicizia, incontra inoltre Enrico Falqui, critico affermato e dalle molte conoscenze, che lo introdurrà in riviste come “Italia letteraria”. Grazie all’amicizia con Falqui (che a differenza di Malapartenon era attivamente coinvolto all’interno del regime e delle azioni fasciste) e alla sua maturazione, Vittorini si allontana da Malaparte avvicinandosi alla rivista Solaria: questa rottura è sancita dall’articolo “Scarico di coscienza” in cui assume una posizione più moderata ma senza rinnegare il passato.  Vittorini critica però il provincialismo fascista e rivendica un panorama più ampio, di tipo europeo. Entrerà in Solaria come segretario di redazione e per guadagnare, inizialmente farà anche il correttore di bozze presso il reparto stampa, dove conoscerà un tipografo che gli insegnerà l’inglese. Si appassionerà così alla letteratura anglo- americana e ad autori come Anderson e Hemingway; sarà poi costretto a lasciare il lavoro per un avvelenamento da piombo.
Dopo l’esperienza a Solaria, troverà spazio presso le riviste “Nazione” e “Il Bargello”, dove Vittorini pubblicherà ogni settimana degli articoli, spesso violenti e molto critici: famoso è il pezzo uscito su “Il Bargello” a sua firma, dove di fatto “stronca” l’opera “Tre operai” di Bernari (nel quale riconobbe un’ impronta reazionaria).

Le polemiche e “Il garofano rosso”

Vittorini era un giovane pieno di ideali e ricco di grandi doti ma attorno a lui si scatenarono polemiche e delle rotture, a partire dal suo ingresso in Solaria. Egli causò, infatti, la prima chiusura della rivista con l’incidente de “Il Garofano Rosso”, cominciato a scrivere nel 1933. Il romanzo narra la storia di alcuni adolescenti fascisti in Sicilia, presentandola come un’avventura giovanile e un momento di crescita che si dipana attraverso l’azione politica, la quale si intreccia però con un’iniziazione sessuale presso delle prostitute in un bordello (Alessandro, il protagonista, si innamorerà di una prostituta). La censura interverrà per due motivi: 1) dal 1925 Giuseppe Bottai è il promotore del processo di regolarizzazione del Fascismo che attraverso una serie di leggi rendono il PNF un partito d’ordine; ciò imponeva un totale silenzio nei confronti di ciò che era accaduto negli anni dello squadrismo e il romanzo di Vittorini era incentrato proprio all’interno di quella fase, mettendo in luce più le azioni squadriste e offuscando il presunto valore ideale; 2) del 1929 è il concordato con la Santa Sede e il romanzo, nel quale non si parla di un amore puro che conduce ad una famiglia, ma di prostituzione e condotte considerate immorali, fu mal visto tanto che porterà al ritardo della pubblicazione (avvenuta solo nel 1948) e alla chiusura momentanea della rivista che poi chiuderà definitivamente i battenti nel 1936 a causa di un altro romanzo, “Lavorare stanca” di Pavese.

La guerra civile spagnola

La crisi ideologica di Vittorini arriverà con la guerra civile di Spagna nel 1936 per la quale si arruolarono molti nazisti tedeschi e fascisti italiani a sostegno di Franco. Vittorini entrò in una profonda crisi che lo coinvolge completamente e lo fece allontanare definitivamente dal fascismo. In questa situazione di crisi Vittorini scrive “Conversazioni in Sicilia”.

“Conversazioni in Sicilia”

“Conversazioni in Sicilia” si presenta in prima persona e si configura come un modo dell’autore di analizzare la sua crisi e di uscirne. Vi dominano dialoghi privi di senso, comprensibili solo se inseriti in una rete di allusioni. Racconta un viaggio tutto mentale, morale e psicologico che si presenta come un ritorno alle proprie origini, ovvero alla terra natale, la Sicilia. Proprio con il dialogo ci si confronta con gli altri, che si fa esperienza, anche se alla fine il protagonista non rivelerà come uscire da questa sua crisi.

Si tratta di un romanzo che risente molto dell’influenza della letteratura americana: la passione per l’America nasce proprio con Vittorini e Pavese che inaugurano il “mito dell’America” negli anni di poco antecedenti la guerra. Molti intellettuali, infatti, come Montale, Pavese, Bernari, cercheranno di emigrare in America ma non ci riusciranno. Essa viene vista come un “paese giovane”, a differenza dell’Italia appesantita dalla storia e dalle ideologie.

I dialoghi, gli spunti e le allusioni

Il romanzo si sviluppa attraverso i dialoghi; non succede nulla di particolare ma è comunque un romanzo veloce. La presenza massiccia dei dialoghi richiama la maieutica, quella tecnica che prevedeva la scoperta della verità attraverso la dialettica. L’opera è storia di incontri (l’arrotino Calogero, il venditore di panni Ezechiele, Demetrio, ecc) e di dialoghi allusivi. Un tema centrale è quello del mondo offeso: La delusione del protagonista si scioglie in un pianto mentre è circondato da tutti i personaggi che ha incontrato durante il viaggio, che ovviamente è impossibile che siano lì, ma sono percezioni e ritratti mentali con i quali si confronta.

Storia e struttura del testo

Il romanzo esce a puntate e non integralmente dal ’38 al ’39 su “Letteratura”. Uscirà in volume nel 1941 con il titolo “Nome e lacrime” presso l’editore Parenti e poi presso Bonsanti con  il titolo originale. Vi è annesso anche un finto reportage sulla guerra di Spagna scritto da Vittorini stesso; le illustrazioni sono di Renato Guttuso. Il romanzo è diviso in cinque parti più l’epilogo e in appendice troviamo il reportage dal titolo “La guerra spagnola”

Elementi del romanzo: un leitmotiv che torna spesso nel romanzo è quello della “quiete della non speranza”. Tutto il viaggio in treno dura solo mezza pagina e Vittorini gioca molto sulla funzione tempo. Il vero viaggio è in Sicilia e non quello verso la Sicilia: il racconto vero e proprio, infatti, comincia sul battello che attraversa lo stretto.

I personaggi: i personaggi che incontra durante il viaggio non hanno nome, come Con i baffi e Senza baffi, l’uomo delle arance, il Gran Lombardo. Sono tutti personaggi simbolici che porteranno a ricostruire l’infanzia del protagonista Silverio: è dunque un viaggio nella propria memoria.

Il genere umano offeso: dal discorso sul mondo offeso si passa a quello sul genere umano offeso e da questa considerazione si giunge a considerare se tutti, sia oppressori che vittime, siano uomini. La risposta è che le vittime sono più uomini degli altri ed è dunque una dimensione morale quella in cui si muovono i personaggi, quasi religiosa.

“Uomini e no”

Questo discorso sarà ripreso da Vittorini anche in “Uomini e no” che racconta l’esperienza della Resistenza a Milano. Questo romanzo si sviluppa su un binario manicheo, ovvero la divisione tra bene e male. Inoltre vi è sia una dimensione reale, che è quella della guerra, sia una dimensione simbolica. I personaggi, anche in questo caso, non hanno nomi e, ad esempio, un generale fascista viene chiamato “cane nero”, nome che indica l’appartenenza al genere bestiale e non umano. Nel finale vediamo un soldato che mira ad un tedesco e, mentre sta per sparargli, guarda i suoi occhi e, vedendo l’uomo, l’essere umano in quanto tal non riesce a sparare.

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di Silvia Cestoni

La vita

Nasce a Milano nel 1893 e muore a Roma nel 1973. Il padre era commerciante e la madre, di origine ungherese, era un’insegnante e poi direttrice. Fu molto legato al fratello minore Enrico, e la sua morte in guerra sarà per lui un grande trauma. Nel 1909 perde il padre che lascia la famiglia in miseria, anche perché quest’ultima cerca di continuare a mantenere un livello di vita agiato per dimostrare di non essere dei borghesi decaduti; inoltre il padre aveva fatto degli investimenti sbagliati e comprato una villa in Brianza (assai odiata da Gadda) per mantenere viva l’apparenza del benessere borghese. Fin dall’adolescenza Gadda ambisce ad essere uno scrittore ma sarà costretto dalla famiglia ad intraprendere gli studi di ingegneria, poi abbandonati per arruolarsi come volontario nella Grande Guerra presso il corpo degli Alpini. Gadda era un uomo metodico e rigoroso, con un’alta idea e grande stima della patria. Stima e illusione che perderà proprio a causa dell’esperienza della guerra dove vede l’incapacità dell’esercito italiano e l’eccessiva arretratezza. Sarà per lui una grande delusione, che tornerà nelle sue opere dove emergono numerose invettive e sarcasmi. Un grande trauma sarà per Gadda la disfatta di Caporetto, durante la quale sarà fatto prigioniero (che, allora, rappresentava un grande disonore che rasentava il tradimento) e portato in un campo di prigionia vicino Francoforte dove scriverà “Quaderni di prigionia” (che seguono “Quaderni di guerra”) che saranno pubblicati postumi e solo parzialmente. Al suo ritorno in Italia verrà a sapere della morte del fratello e questo sarà l’altro suo grande trauma. Nel 1919 intraprende l’attività di ingegnere viaggiano molto, anche in Argentina, ma la sua ambizione resterà comunque la scrittura. Tornato in Italia, il suo viaggio in Sud America sarà da ispirazione per la “Cognizione del dolore”.

Il mondo come caos

Gadda vede nel mondo un disordine a cui è possibile porre rimedio: il mondo è caos. Per Gadda il mondo è un pasticcio, un gomitolo, la vita è un “gliommero” ( una matassa ingarbugliata): l’uomo è immerso appieno in questo caos e quindi può averne una visione completa. Nonostante questo non deve mai smettere di cercare il capo della matassa (quest’idea del gliommero richiama il labirinto di Calvino dove l’uomo cerca una via d’uscita). La concezione gaddiana rappresenta il punto estremo della crisi.

“La Cognizione del dolore”, struttura dell’opera.

Il romanzo è composto da un saggio introduttivo del critico Gianfranco Contini, un’introduzione, la prima parte, la seconda parte e la poesia “Autunno”. Emerge una prima parte di stampo saggistico per poi entrare nel romanzo vero e proprio, di cui fa parte “Autunno”. Ma in realtà il testo è unitario: Reneè Genet scrive “Palinsesto” dove analizza la forma del testo, dicendo che quest’ultimo non è formato solo dal racconto. Egli parla di peritesto: ovvero gli elementi intorno al testo, come la copertina, l’indice, ecc; paratesto: esso non è solo ciò che integra il testo (come il saggio e l’introduzione) ma anche le note a piè di pagina e quelli che Gadda chiama i “chiarimenti indispensabili”; le note non sono parte del romanzo in senso stretto (nelle note troviamo anche citazioni da altri autori). Il romanzo è diviso in due parti: la prima e la seconda parte, ognuna delle quali è divisa in “tratti”

Intreccio e dimensione temporale

L’intreccio del romanzo non vede uno sviluppo rettilineo, ma neanche uno sviluppo spezzato da deviazioni, poiché non vi è solo una storia ma tante storie che si intrecciano. Spesso vengono fuori episodi del passato: il vero racconto si sviluppa in una profondità temporale in cui il passato ancora agisce sul presente. Il tempo è fondamentale e domina in verticale, corrispondendo alla memoria e all’inconscio.

Le prime pagine del romanzo

Gadda dà immediatamente delle coordinate temporali reali (1925 – 1933) e spaziali (queste ultime fantastiche poiché la vicenda è ambientata nel fittizio paese di Maradagal). Inizia spiegando che i cittadini potevano scegliere se pagare gli istituti di vigilanza notturni oppure no; descrive la difficile situazione economica; descrive le numerose malattie, come la Peronospora Banzavois (una malattia del granoturco). Dopo aver insistito su queste disgrazie cita la Brianza, alla quale il Maradagal somiglia molto: è infatti una parodia della descrizione positiva che fa Manzoni della Brianza. Inoltre, la descrizione di Gadda è allegorica: la pianta erosa è anche una pianta umanizzata e rappresenta il protagonista dell’opera, Gonzalo, colpito da numerosi mali. Viene poi narrato il conflitto tra Maradagal e il paese limitrofo Parapagàl, con un riferimento agli indios: è solo lì che capiamo che ci troviamo nel Sud America. Spesso emerge l’umorismo nero di Gadda: descrivendo la capitale Mastufazio egli descrive lo scenario dominato da una catena montuosa, quella del monte Serruchòn che richiama il Resegone manzoniano. Il testo è pieno di figure retoriche come la sinestesia, e spesso Gadda ironizza su se stesso

Il barocco linguistico e il significato della luce

Interessante dal punto di vista linguistico è l’utilizzo smodato da parte di Gadda di parole e immagini: è il “troppo pieno”, il cosiddetto Barocco gaddiano. Infatti, il racconto non procede, ma c’è soltanto un accumulo di parole, aggettivi, ecc.
Altro elemento importante in Gadda è la presenza della luce che, come dirà in seguito, rappresenta, affievolendosi, il cammino delle generazioni. La luce può essere vista come il simbolo della conoscenza (come nell’Illuminismo, ovvero l’illuminazione dell’oscurità e quindi l’eliminazione dell’ignoranza), ma anche come un avanzamento verso la felicità: qui invece, la luce recede  perché in realtà nulla cambia nella storia e il divenire è solo apparenza.

Aspettando il tram View More

di Davide Paciello

Illustrazione di Francesca Bosco

Non posso permettermi di fare tardi, oggi, ho una convocazione.

Mi chiedo quando ho iniziato ad aspettare con ansia le convocazioni da bidello.

Nella mia vita ho fatto un sacco di scelte di cui mi assumo la responsabilità, come quella di prendere filosofia all’università.

“Non importa se per vivere raccoglierò merda di cane, io farò filosofia!”, dissi irritato a mia madre, diventando un bimbo grande e, ironia della sorte, pochi anni dopo la laurea, finii a lavorare al canile di Foggia. Al netto delle carriole di feci da svuotare nella fogna ricordo quello come il miglior mestiere mai fatto, c’erano i cani, lo sforzo fisico che fa sentire vivi, i cani, lo stipendio bassissimo, comunque migliore di quello da stagiste in banca, ma soprattutto c’erano i cani.

Alla fine però pensai che avevo bisogno di costruire qualcosa, di vivere autonomamente.
Non potevo restare a fare un lavoro precario al limite del volontariato. Fu allora che iniziai a prendere le supplenze per insegnare. Il primo anno la sorte decise di prendermi in giro facendomi fare da ottobre a luglio. Poi il tempo è tornato nei cardini e ho potuto prendere solo posti da Collaboratore Scolastico.

Arriva il tram difronte e non il mio.

È come quando stai per firmare il contratto da docente e spunta una persona in graduatoria sopra di te e ti soffia il posto. C’è sempre una persona prima di te. Vanta i titoli MIUR presi a UniTeLoVendo e non ha l’ansia di fare almeno 9 stipendi interi l’anno per campare. Resta a casa, bada ai figli, generalmente ha un coniuge che porta soldi. Quando arriva la chiamata si presenta, magari per quindici giorni, magari per un mese, non importa, l’ansia di pagare le bollette ricade su un’altra persona.

Per fortuna il bidello mi permette di essere chiamato da più scuole e bene o male fino a giugno ci arrivo sempre. Il lavoro è ottimo, migliore di quello da docente, devi solo essere a disposizione, respirare candeggina e fare sforzi fisici casuali.
Guardare un corridoio vuoto e ripensare ai tuoi errori. Riesco ad allontanare la follia leggendo, al netto delle urla disumane e delle richieste confuse e contradittorie che ti arrivano.

Ti prego tram, arriva, portami alla convocazione, ho un libro da finire e voglio essere pagato per farlo.

Francamente credo sia un lavoro pensato per persone con svantaggio socio-economico-culturale. Non c’è niente di nobile nei laureati che fanno i Collaboratori. Stiamo rubando il posto a persone che per diverse contingenze non hanno potuto studiare. Li battiamo alle chiamate perché sappiamo compilare un form on line e sappiamo leggere e rispondere alle mail. Quasi tutti gli under 40 sono laureati o avviati ad un percorso di studi. Io, con una laurea magistrale e un master in marketing, sono la norma.

Siamo qui perché abbiamo fame e la fame ti spinge a rubare e quindi eccomi a sgraffignare il posto alla madre single che non ha potuto inseguire i suoi sogni o al signore a cui non hanno diagnosticato la dislessia e non ha potuto continuare gli studi.

Guardo i binari e penso a chi, con dottorato all’estero, è finito ad insegnare ad adolescenti svogliati.
No, decisamente a me non è andata male.

*citazione da I Simpson S.8 Ep.07
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di Silvia Roncucci

Illustrazione di Eleonora Loiodice

Nella mia città i mezzi pubblici odorano di proletariato.
Forse per questo li sento familiari, perché è da lì che vengo, dal popolo.
Ed è verso ciò che vedo dal finestrino appena l’autobus affronta la salita, vale a dire il cimitero, che sono diretta. Non che ci stia andando proprio ora, intendo che prima o poi ci finirò; anzi, vista l’età che mi porto in giro, se quel giorno fosse oggi stesso faticherei a nascondere la sorpresa.  

In garage riposa la vergognosa traditrice che stamani non ha voluto saperne di mettersi in moto. I telefoni che ho contattato non hanno strillato abbastanza da risvegliare l’interesse dei proprietari, tassisti inclusi. In casa ormai l’unica voce che sento è quella dei pensieri sfuggiti al borbottio interiore, e quindi, hop: non rimaneva che saltare sul primo autobus per scongiurare il rischio di mancare al mio appuntamento.

L’ho fatto con uno slancio goffo che per poco la tagliola della portiera non mi serrava tra i suoi denti.
Ora però queste vibrazioni sulla strada butterata, questo sobbalzare sul sedile a ogni curva come un nevrastenico a ogni soffio di vento un po’ più deciso, in fondo mi ravvivano, mi smuovono dopo giornate fastidiose, infiacchite dalle temperature subsahariane. Che non lasciano tregua neanche qui dentro, dove i finestrini si aprono cauti, indecisi se lasciar passare un soffio d’aria o respingere l’orda di calore per i pochi, audaci passeggeri.
L’autista sbaglia la traiettoria di una curva e per un soffio non vengo catapultata addosso alla signora sull’altro lato del corridoio. La sua lingua si scioglie velocissima al cellulare tra le vocali latine, la voce cerca di mantenersi sommessa ma l’idioma che parla non è adatto ai sussurri.
Piagnucola «mi amor» e quando riattacca informa una slava imperiosa davanti a lei che si tratta di suo marito, e chi sennò. Racconta che, da quando si trova migliaia di chilometri lontano da lui, dorme sonni fanciulleschi e che un uomo nei paraggi lo vorrebbe solo se fosse ricco da far schifo e generoso quanto basta. Però continua a chiamarlo «mi amor» e da come la guarda, forse anche la slava vorrebbe chiederle perché.

Io invece le direi che poco importa che con mio marito siamo stati generosi l’un l’altro se ora gli ettari occupati dal nostro appartamento sono invasi da scintillanti chincaglierie di cui, mi vergogno ad ammetterlo, non sopporto la vista. E che la sensazione che il letto sia di una taglia più grande non mi lascia riposare.

L’autista fronteggia la seconda delle tre colline su cui è adagiata la città e si ferma a metà per far salire un piccolo gruppo di anziani; da come traballano verso il fondo ho la certezza che almeno loro siano più vecchi di me. Sapevo che l’avrei vista far capolino da dietro la fermata: la casa.
Tre stanze affacciate sulla strada, Siberia d’inverno, i Tropici d’estate. Il giardinetto spelacchiato, l’innaffiatoio affranto in un angolo, il basilico in lotta contro una coppia distratta come noi. L’intonaco di un arancione accecante che concessi a mio marito purché se lo stendesse da solo. Entrando la prima volta per poco non inciampava nello strascico; dicono sia un classico, chissà quante spose tengono nell’armadio un abito bianco con su un’impronta numero 47. A quel trasloco ne sono seguiti altri tre, sempre più pretenziosi, sempre più alla deriva.
Come noi l’uno dall’altra, finché il tempo non gli ha fatto lo sgambetto.

L’autobus borbotta per ripartire, precipita in discesa, arranca sull’ultima salita: si vede che non se la sente di arrivare all’ospedale, però ormai ha preso l’impegno. Mi assicuro che l’autista abbia terminato le complesse operazioni di frenata prima di avviarmi all’uscita. Ora è la bionda imponente che parla al cellulare, la voce è un sibilo. Da come fissa il finestrino, l’altra donna deve trovarsi con la testa in Sud America.
Un uomo si avvicina alla portiera, mi riconosce, saluta con un sorriso incerto.
«Facciamo la strada insieme?» chiede.
Rispondo di sì, andiamo nello stesso posto.
«Stavo meglio seduto»  osserva dopo aver percorso qualche metro tra lamenti e sospiri.
«La capisco. Neanch’io cammino più tanto bene.»
«L’autista però era un po’ distratto.»

«Spericolato direi!»
Sorride, chiede da quant’è che mi dedico al volontariato, dice che si vede che ci so fare con i piccoli. Lavoravo come maestra? Quanti nipoti ho?
«Da due anni. Avevamo un’agenzia immobiliare. Niente figli, né nipoti. Per questo ho tanta pazienza: non l’ho sprecata con dei bambini miei!»

Ridiamo insieme, camminiamo fino alla biblioteca dell’ospedale.
I ragazzi stanno già aspettando.
Yasmine porta un foulard rosso a pois sul capo, Larysa uno floreale, nell’ultima fila la testa glabra di Luigi si intravede sotto il berretto dell’Inter. Glielo ha regalato il nonno, che oggi è arrivato con me.
Racconto a Luigi che lui mi ha riconosciuta subito, mentre io sono la solita sbadata.
Tutti gli altri mi rimproverano per il ritardo, ridacchiano, si divertono a dire che le mie sono scuse, che devo ammettere di essere una dormigliona, e io li lascio fare mentre cerco cosa leggere.
«Smettetela, è davvero colpa della macchina che non è partita!» spiego prima di cominciare. «Non avete idea di quanto ci ha messo l’autobus ad arrivare…una vita!»

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di Mattia Brambilla

Illustrazione di Eleonora Loiodice

«E tu l’hai mai visto un UFO?»
Disse raspando su col naso una pallottola di catarro e catrame.

«Non credo».
«Che vuol dire non credo? O li hai visti o non li hai visti».

L’intercity ciondolò affannosamente e si fermò.

«Non li ho mai visti, allora».
«Ma ci credi?»
«Non più di quanto creda agli angeli o a Dio».

Il vecchio stralunato avvicinò l’indice alle labbra come a dire di tacere: un leggero sibilo schiumò dalla bocca. Si guardò intorno circospetto, poi s’avvicinò al mio orecchio: «Non dire nulla, ché ti possono sentire».

«Gli angeli?»
«No,» aveva gli occhi allucinati, come due palle da pingpong, «gli alieni,» ed indicò al di là del soffitto.

L’avevo incontrato per caso alla stazione centrale. Era strafatto nei bagni e strisciava la sua pelle grinzosa di vecchio hippy sulle piastrelle lucide vetroresinate.

«Sta bene?»
«Mi stanno cercando».
«Chi?»

E aveva attaccato un delirio paranoide sulle cospirazioni governative, il Deep State, l’Arcangelo Gabriele, i rosacrociani, le sette aliene e sette alieni che l’avevano tratto con un raggio gravitazionale dal bel boschetto dove stava rintanato a fumare erba e a calarsi funghetti per trapanargli il cervello e giocherellare col suo budello.

«Lo fanno spesso, sai? Non solo con me, eh, è una cosa che fanno a tanti. C’è anche un sito,» e tirò fuori un cellulare, «guarda, siamo tutti abductees, è in inglese, lo sai l’inglese? Ma sì, sei giovane, guarda, tutti rapiti e scrivono le loro esperienze. Ti mando il link».

M’aveva seguito come un cane randagio che aveva trovato cibo, senza chiedere spiegazioni né indicazioni.

«Loro sanno tutto. Hanno sonde e agenti. Anche i cellulari,» e agitò il suo smartphone.
«Anche quelli?»
«Anche quelli».

Si guardò di nuovo intorno, strizzando gli occhi e nascondendo i denti marci dietro a un pugno stretto. «Anche questi qui… Tutti agenti!»
«Tutti?»
Mi guardò fisso e annuì con gravità, sussurrando: «Alieni».

Passò il controllore nel suo vestito stretto da impiegatuccio imbalsamato e chiese i biglietti.
Guardò me e il vecchio come si guardano due reietti: «Per gli animali c’è un supplemento». «Certamente» pagai i biglietti e il sovrapprezzo e quello sparì nel defilarsi dei sedili.

«Secondo me qui sono tutti alieni».
«E come fai a dirlo?»
«Lo si intuisce subito dalla postura, dalla flaccidità della pelle, dal taglio dei capelli, soprattutto dai capelli o dai cappelli, sai che hanno la pelle degli abductees, gliela strappano cellula a cellula, come delle bucce di banane, e se le infilano aprendo un buco in testa e mettendoci dentro le gambe come costumi di carnevale umani e se ne vanno in giro così per spaventare e per mimetizzarsi. La cucitura è quella che chiude e i capelli servono a nascondere la cicatrice. E poi hanno gli occhi strani, insolitamente anfibi».

«E io non potrei essere un alieno?».
Rise gracchiando come un querulo corvo: «Ma tu sei pelato!» Poi si indicò il cranio psoriasico: «I capelli, la cicatrice».

Gli altri passeggeri ci lanciavano occhiatacce gelide, con l’ordinaria ostilità che si riserva a compagni di viaggio indesideratamente fastidiosi. Una donna s’era presa le sue valige e s’era inoltrata per il vagone, giù, verso un’altra carrozza. Il vecchio la guardò passare e agitando le braccia mi sussurrò: «abbiamo beccato la marziana,» e poi, rivolto alla donna: «Via, sciò, in fondo al treno!» e rise ancora con una risata che partiva dai polmoni e finiva su, nello spazio profondo.

«E se ti dicessi» m’accostai a lui rompendo ogni barriera d’intimità «che anche io sono un alieno?» «Impossibile, impossibile,» continuava a ridere e ad agitarsi, «non hai la cucitura».
«È perché ci infiliamo dalla bocca».
«E no, caro mio, li ho visti con questi occhi: aprono un buco e si infilano dalla testa».
«Come vuoi tu».

L’intercity cigolò nuovamente e lo speaker annunciò la fermata.
«Alla prossima scendiamo» dissi.
«Va bene, va bene, alieno» e continuò a ridere sguaiatamente.

Il passeggero davanti a noi si voltò con uno sguardo ringhiante, mostrando canini aguzzi: «Oh, basta! Non se ne può più! Metta una museruola al suo umano».
«Scusi, signore, è che l’ho appena trovato, non è ancora addestrato».

Il vecchio ci guardava sbalordito, mentre il passeggero sorrise e accennò a una tregua: «È molto bello da parte sua prendersi cura di queste povere bestiole». Gli carezzò la testa, lo chiamò cucciolo, e chiese: «È di razza?»
«Caucasica, credo, ma dovrò fargli il pedigree».
«Ha già un chip?»
«Ad ascoltare lui sì».
«Bene, bene, così non scappa».

Lo speaker annunciò la fermata: «Il treno intercity Milano Centrale-Epsilon Eridani Prime è in arrivo alla stazione interspaziale Xenophor-9 con un ritardo annunciato di 16 minuti. Si ricorda ai gentili viaggiatori di prendere tutti gli oggetti personali e di lasciare pulito il posto a sedere. Grazie per la collaborazione».

Presi il mio umano e scesi dal treno.

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di Silvia Cestoni

La Sicilia di Sciascia

Leonardo Sciascia nasce a Racalmuto, provincia di Caltanissetta, nel 1921.
La Sicilia sarà una costante sempre presente nelle sue opere e questo piccolo paese di montagna tornerà nel suo primo romanzo “Le parrocchie di Regalpetra”.
Sciascia, riferendosi alla Sicilia, parla di “similitudine”, ossia di uno stato mentale e una condizione esistenziale, di un legame ad una terra amata ma al tempo stesso detestata. Vivere in un isola vuol dire essere diversi, non essere congiunti al continente. La Sicilia è vista come  categoria mentale e anche conoscitiva: essa diventa specchio prima dell’Italia, poi dell’Europa, quindi del mondo.

Sciascia proviene da una famiglia modesta, prende il diploma magistrale e inizia la sua esperienza come maestro proprio a Racalmuto. Qui entra in contatto con ambienti intellettuali, scrive su giornali e riviste, conosce il giornalista Giuseppe Antornio Borgese e lo scrittore Vitaliano Brancanti, oltre a molti autori siciliani. Si trasferisce a Roma, entrando in politica e iscrivendosi al Pci, nelle cui fila sarà deputato regionale e poi comunale.

La politica e l’impegno sociale

L’opera “Le parrocchie di Regalpetra” rispecchia, negli intenti dell’autore, la delusione verso la politica e il partito in particolare. Sciascia resterà sempre orientato verso un pensiero progressista e di sinistra ma assumerà forti critiche nei confronti della politica nazionale e delle organizzazioni rigide dei partiti e questa sua vena lo innalzerà a scrittore con una vocazione civile e sociale.
Come autore resterà sempre molto legato ad Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini in particolare, la cui morte lo colpirà personalmente, tanto che “L’affaire Moro” (sua opera del 1978) ha come incipit una citazione di Pasolini tratta dall’articolo Il vuoto di potere in Italia, pubblicato sul Corriere della Sera il 1° febbraio 1975. Infatti, Sciascia fece parte della commissione parlamentare d’inchiesta relativa al rapimento di Aldo Moro, in cui redasse una relazione di minoranza che diventerà poi, appunto, l’opera “L’affaire moro”.

L’elemento storico

Sciascia non è solo un narratore ma scrive anche una serie di testi che rispondono alla sua vocazione della ricerca storica in archivi e biblioteche che lo porta a scrivere testi di cronaca e ricostruzioni di vicende storiche, rielaborati con una minuziosa ricerca di fonti d’archivio. Secondo Sciascia la storiografia ufficiale è viziata da una manipolazione ideologica: risponde alla necessità di confermare il potere dominante. La storia, dunque, è vista come manipolazione della verità e menzogna. Non si basa su affermazioni false, ma su fatti che vengono deliberatamente nascosti, avvenimenti dei quali si decide di non parlare, come dei documenti relativi a quest’ultimi. Il lavoro di storico e di filologo di Sciascia è quello di portare alla luce la verità attraverso i documenti verificabili.

La scomparsa di Ettore Majorana

Nascono così dei testi di difficile definizione dal punto di vista del genere letterario, come “La scomparsa di Ettore Majorana”, grande fisico che stava portando avanti esperimenti sull’energia atomica.
Un giorno, improvvisamente, lo scienziato sparisce: sembra che da Napoli si sia imbarcato sul traghetto per Palermo ma a lì non sarebbe mai arrivato. Si parlò di suicidio, ma non l’assenza di lettere o testimonianze lasceranno numerosi quesiti aperti. Sciascia conduce, così, tutta una serie di ricerche effettuando una ricostruzione della vicenda oltre a realizzare una sua inchiesta personale, arrivando ad una sua interpretazione dei fatti, dove la ricerca storica si unisce al genio narrativo e all’ intuizione. Sciascia infatti ha trovato tracce di un estraneo, rifugiatosi in un monastero di un paesino siciliano, da tutti noto come fisico e matematico ma che si dedica a lavori agricoli. Per Sciascia egli è Majorana che ha deciso di nascondersi al mondo dopo aver intuito l’orrore che la bomba atomica avrebbe sprigionato.
Le origini di questa fuga sono tutte tipicamente sciasciane, rappresentano, cioè, tutte le battaglie che l’autore porta avanti dall’inizio degli anni ’50. Del resto, egli afferma nella prefazione alla ristampa delle “Parrocchie”, che la letteratura non può non essere tendenza che si lega a questo o quel partito, ma deve essere promozione di coscienza civile, con funzione conoscitiva, ovvero di scoperta della realtà.

Lo smemorato di Collegno

Siamo di fronte anche qui a un fatto di cronaca, questa volta risalente ai primi anni ’20 e che per Sciascia diventa un occasione per discutere della “nozione di memoria”. Siamo a Collegno, piccolo paesino del Piemonte: nel 1926 viene trovato, nei pressi del cimitero di Torino, in stato confusionale, un uomo che vaneggia in preda a deliri e che aveva sottratto alcuni vasi funerari. Nessuno sa chi è, ha perso la memoria e viene portato in una clinica psichiatrica. I medici cercano di trovare elementi che portino alla sua identità e che possano dare delle risposte: l’unica cosa che sembra evidente è la natura colta dell’individuo. La sua foto viene pubblicata sui giornali e due donne lo reclamano come loro marito: una è una popolana, che lo descrive alcolizzato e sfaticato. L’altra è una signora dell’alta borghesia di Torino che che lo indica come professore universitario di matematica, uomo colto, conoscitore di lingue. Alla fine avrà la meglio la signora dell’alta borghesia e lo smemorato tornerà a essere un professore: ma il mistero rimane.

Il giorno della civetta e il “silenzio dei secoli”

Il 1961 è l’anno de “Il giorno della civetta”, che provocherà grandi polemiche soprattutto sull’esistenza o meno della criminalità organizzata, della mafia. Molti critici infatti sostenevano con convinzione che essa fosse stata già stata debellata durante il fascismo. Sciascia, invece, con il suo romanzo, tentò di mettere in luce non solo la connivenza tra mafia e potere, cioè tra mafia e istituzioni, ma anche tra mafia e potere economico. Il romanzo ebbe il merito di portare alla costituzione della commissione antimafia nel 1963, ma anche alla nascita di numerose inchieste parlamentari.

Romanzo realistico, in terza persona, avvicinato al realismo socialista. Viene trattato soprattutto il tema dell’omertà, atta a coprire, con il silenzio, azioni e atteggiamenti mafiosi. L’omertà non viene mai dichiarata esplicitamente, ma attraverso lo stile e la scelta del lessico da parte di Sciasia che utilizza similitudini, metafore e particolari termini. Ad esempio la camminata del venditore di panelle che non vuole testimoniare è riassunta nell’immagine di un granchio; mentre il bigliettaio del tram ha la “faccia smemorata” non ricorda i passeggeri, anche se li conosce tutti a memoria: è questo il “silenzio dei secoli” .

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di Davide Paciello
Illustrazione di Francesca Bosco

Fermata del tram. Attendo.

Quando sono soprappensiero o a disagio, le mie dita corrono sulla superficie del mio corpo in cerca di crosticine da grattare, palline di grasso da spremere, pelle morta da tirare.

Le dita si fermano all’orecchio e trovano un pelo. Lo tiro. Lo porto davanti gli occhi e lo guardo. Realizzo. Ho tirato un pelo bianco dal mio orecchio. È iniziata.

Passa sulla corsia del tram un ragazzo col monopattino elettrico, li odio quelli e non so perché.

Che fossi vecchio mentalmente e caratterialmente lo sapevo, ora si tratta di accettare il decadimento di tutto il resto.

È bastato un pelo bianco in un orecchio a farti notare che hai iniziato a raderti assiduamente perché la barba iniziava ad essere grigia. Quel piccolo pelo ha alzato il tappeto e ora ci trovi la polvere delle tue ossa che si sbriciolano.

Lo hai notato? In palestra è sempre un tantino più faticoso e ti sei detto, ma no, mi sono solo rotto il cazzo di spingere come farebbe un ragazzino. Eccolo.
Non hai più vent’anni e mente e corpo si stanno sincronizzando. Ora ti manca il tempo, la voglia e, soprattutto, il fiato. Continui perché l’unica motivazione che hai ora è: rallentare la caduta, fingere che non stia arrivando.

Cerco di distrarmi, ma vedo un ragazzino a sinistra e un anziano a destra.
L’anziano fa fatica a muoversi, ha un girello su cui si appoggia. Forse anche lui da giovane faceva boxe, ma ora eccolo lì.

Ogni giorno una ruga nuova solcherà il mio viso, tra una manciata di anni smetterò di sembrare un uomo maturo e inizierò ad apparire come il vecchio che sarò.

La pelle si appende e raggrinzisce inevitabilmente davanti ai miei occhi. Mi commisererò nudo davanti lo specchio e mi sembrerà che debba semplicemente cambiare abito, ma qui non sono previsti resi o negozi di corpi. Quell’abito sgualcito e strappato è tutto quel che hai.

La vista cederà il terreno alla nebbia e il mio mondo si popolerà di ombre.
I timpani saranno sempre meno efficienti, i suoni sempre più ovattati. Le parole dolci dei miei cari saranno distanti e confuse, ma sorriderò fingendo di averle afferrate tutte.

Perderò l’equilibrio in un mondo spento e confuso, i denti marciranno e verranno sostituiti con protesi, ma nel frattempo perderò il gusto del cibo.

La fatica che oggi sperimento a seguito di un grande sforzo diventerà compagna dei gesti più semplici. Non si tratterà di fare un km in più ma di arrivare senza aiuti alla fine della stanza.

Certo, uno può cicciare fuori storie straordinarie di ottuagenari a cui Capitan America spiccia casa, ma se è vero che non è mai troppo tardi per fare qualcosa è anche vero che non è detto che la si debba fare.

La mia volontà è schiava di bisogni naturali, si adatta e si deteriora a sua volta e alla fine quando ti piscerai addosso perché la prostata è andata proverai sempre meno vergogna. Quando arriverà la morte a porre fine all’imbarazzante peso che sei diventato per parenti e amici, sarai troppo rincoglionito per averne paura. Un lieto fine, tutto sommato.

Mi alzo e mi avvicino al bordo della banchina e il gesto mi sembra intriso di uno sforzo eroico, più che umano. Guardo fin dove la mia vista consente.
Questo tram non arriva.
La vecchiaia sì.

Di uomini, cani e ciambelle in metropolitana View More

di Flavia Catena

Illustrazione di Eleonora Loiodice

I respiri affannati di chi era appena salito appannavano i vetri.
Ben poco da vedere dall’altra parte: l’oscurità delle gallerie faceva risaltare solo i nostri contorni imprecisi, le chiazze di colore che s’incontravano, un cappotto con una sciarpa, un berretto con una mano guantata.

Eravamo compressi, così vicini da reggere, chi con gambe, chi con le braccia, il peso del corpo altrui insieme al proprio. Il nostro silenzio era un insoddisfatto bisogno di leggerezza; sembrava focalizzare le energie nella direzione giusta, sul pensiero giusto.
Il grido che risaliva dalle rotaie, il fischio del vento che entrava dalle porte tra i vagoni, le note sotto cui si accendevano gli schermi in mano ai passeggeri: ciascuno di quei rumori bastava a farci perdere l’equilibrio e la calma. Io resistevo senza sbilanciarmi, incastrata tra un uomo di mezza età, massiccio, e un ragazzo allampanato, un adolescente con in braccio un vecchio cane bianco, gli occhi coperti di lanugine e di paura. A tratti la zampa del cane mi sfiorava il cappotto; ci guardavamo. I suoi occhi velati e i miei si fissavano gli uni negli altri, e in quel momento le porte si aprivano, rimescolando corpi e suoni.

Alla fermata seguente mi disincastrai; l’uomo di mezza età finì spinto via dagli altri passeggeri in uscita, mentre quelli in entrata cercavano di prendere il suo posto relegando me e l’adolescente nell’unico angolo rimasto libero, tra il sedile appena occupato da una donna incinta e il finestrino.

La luce della stazione, oltre il vetro, venne presto annullata dal buio della galleria successiva; il treno sembrò accelerare prima che vi fosse entrato del tutto. Andavamo più veloci che mai, o forse era la nausea a farmelo credere. La zampa del cane non mi sfiorava più il cappotto, ma la gamba: il ragazzo si era accovacciato a terra, e sembrava cercare una via di fuga guardando attraverso gli spiragli che si aprivano tra un piede e l’altro. Ci finii anch’io in quella tana maleodorante, metri sotto terra e sotto muscoli flaccidi, sotto strati di stoffa e ombre.
Caddi, spinta avanti dall’ennesima accelerazione e dalla mancanza di appoggi.

Per dimenticare dove mi trovassi, chiusi gli occhi e contai le stazioni che mi separavano dall’arrivo. Ancora cinque. La voce che le annunciava dall’alto, voce di angelo meccanico, di donna e automa, mi sorprese a tremare nell’attesa di sentire il nome, quella parola unica, diversa da tutte le altre, scandita con più cura, a cui avrei connesso la mia vittoria.

Poi un soffio di vento mi ridestò.
Il cane stava per uscire; da dietro la spalla del padrone continuò a guardarmi fino a quando ebbe raggiunto la banchina. Di nuovo in piedi, gli dissi addio, e lo vidi aprire la bocca. O forse fu la donna che mi trovai accanto a farlo. Decine d’immagini si sovrapposero tra loro in un singolo istante.
Di lei, non vedevo altro che due labbra sottili, linee marcate di corallo. Mordeva qualcosa, un biscotto, una mela; non avrei potuto dirlo per certo, perché si voltava nel farlo. Dietro la cornice della sua valigetta di pelle, un bambino, senza imbarazzo, senza neanche guardarsi intorno, addentava una ciambella: un boccone, e la nascondeva in una scatola di plastica rossa, un altro boccone, e ciò che ne restava finiva di nuovo nella scatola.

Non appena anche la donna dalle labbra sottili scese dal treno, io mi spinsi avanti, abbastanza che a tendere il braccio avrei potuto toccare la porta. Tre fermate, due, ed ecco giunto il mio turno.
Un’anziana sollevò il suo bastone, una ragazza aprì lo scialle che l’avvolgeva, e vidi tutte le stelle che vi stavano stampate dentro come su un cielo notturno. Superai entrambe. Le mie dita si aprivano già verso il mazzo di fiori sul cartellone di una campagna pubblicitaria, il mio piede destro aveva toccato la banchina. Ero fuori, ero quasi fuori.

Accadde allora che un gruppo di ragazzi mi trascinò indietro, un detrito sotto il flusso della loro eccitazione, e il treno ripartì carico fino all’ultimo centimetro quadro, e non più silenzioso. Ai rumori metallici, allo scampanio degli avvisi, allo stridore dei freni, si unì un concerto di schiamazzi, canti, versi animaleschi che contagiò la folla prima composta facendola esplodere. Stazione dopo stazione, il treno che non sapevo più dove andasse e quando si sarebbe fermato, raccolse dieci, venti, trenta nuovi passeggeri, ma non ne lasciò andare neanche uno.

Scoprii allora che quasi tutti avevano una scatola con una ciambella nascosta sotto la giacca, nello zaino, in borsa, e tutti la mordevano, una briciola alla volta, rumorosamente come se fosse dura di giorni, pietrificata dal tempo. C’era anche un levriero dall’altra parte del vagone, grigio e con gli occhi d’ambra, che sembrava addentare un osso, o forse mordeva la caviglia della donna accanto a cui si trovava, e la donna invece di gridare, rideva. Pochi minuti dopo ridevano tutti, persino la voce registrata, la voce d’angelo, di automa, la voce che annunciava la nostra condanna.

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di Davide Paciello

Illustrazione di Francesca Bosco

Da quanto tempo sto aspettando il tram?

Il ritmo della mia vita non dipende da me, ma dal lavoro, dai tempi di produzione, dai mezzi pubblici, dal traffico.
Lavoro 36h la settimana e dovrei dormirne 67.
Il resto del tempo dovrei viverlo, ma c’è la palestra che serve ad essere più produttivi e più a lungo, c’è la spesa, la pulizia della casa.
Il tempo per i miei affetti, per i miei svaghi, le mie velleità quando lo trovo?

Sì, lo so, Charlie Chaplin lo dice meglio.

Il consiglio che ti danno è sempre lo stesso: ama il tuo lavoro e privati del sonno.

Per chi non lo sapesse la privazione del sonno è la prima tecnica di manipolazione applicata dalle sette in cui ti convincono a farti abusare sessualmente prima di spedirti a scannare persone a casa loro.
E sì, lo so, Charlie lo sa fare meglio.

Il tram è in ritardo, altro tempo che mi stanno rubando.

Ansia, stress, burnout, disturbi della socialità, perdita dell’empatia, depressione e suicidio. Tutto questo e molto altro è il magnifico mondo del tardo capitalismo.

Durante il master in marketing un milionario imprenditore genio ci ha raccontato di un ragazzo che aveva preso sotto la sua ala protettiva per mandarlo a crescere in un’importante azienda in Portogallo.
Dopo qualche anno scopre che il pupillo non aveva ancora cambiato lavoro, non aveva avuto particolari scatti di carriera né ruoli dirigenziali significativi. L’oscuro signore dei Sith, cioè il milionario, allora, gli procura subito altri colloqui in altre parti del globo. Il ragazzo, alla fine, parla chiaro e dice al mentore che guadagnava abbastanza, finiva di lavorare alle 17 e se ne andava a surfare tutti i pomeriggi.
Era ormai passato al lato chiaro del capitalismo.

L’imprenditore genio, iperattivo come solo certi cocainomani, raccontava questa storia con disprezzo: non poteva crederci che qualcuno rinunciasse alla carriera e a fare più soldi per restare in un posto dove aveva amici e affetti e tutto il tempo per godersi la sua passione.

Il tram ritarda ancora.
Io qui, fermo alla banchina, mentre tutto il mio tempo scorre via.

Da piccoli gli anni duravano eoni e quando sei in viaggio fai così tante cose che cinque giorni diventano una vita. La quotidianità, invece, si consuma nella ripetizione come un fiammifero al fuoco.

Il sole sorge e tramonta.
L’anno passa e io aspetto il tram.

Guardo oltre l’orizzonte immaginario nascosto dalla banchina difronte e mi figuro l’oceano durante il lungo tramonto portoghese, io e la mia compagna che ridiamo.
Le onde sono ottime per il surf, ma io non surfo.

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di Silvia Cestoni

Landolfi, l’unicum

Landolfi è un autore dai vari generi, ma al tempo stesso uno scrittore che non si può inserire in nessuna tendenza, e questo spiega la sua scarsa fortuna con lettori e critici. Alcuni critici l’hanno amato, mentre altri l’hanno ripudiato, considerandolo solo un calligrafista. Landolfi è un unicum, sia come autore che come personaggio: sicuramente appartiene alla linea del fantastico, la quale non a caso non è né un genere né una scuola. Nei suoi testi troviamo punte di magia e di realismo che lo avvicinano al realismo magico di Bontempelli, ma anche lo strano e il meraviglioso, è stato anche avvicinato al Surrealismo insieme a Delfini e Buzzati: tuttavia, nel Surrealismo non c’è una precisa ricerca di stile come quella di Landolfi perché nel surrealismo la forma è casuale.
In Landolfi nulla è casuale, ma tutto è invece progettato e costruito. Nelle sue opere c’è sempre un doppio livello: una realtà da cui poi si slitta in una dimensione altra.
“La pietra lunare” è il suo primo romanzo: prima aveva scritto una serie di racconti, tra i quali uno dei meno fortunati è “Maria Giuseppa”, oltre ad un tentativo di romanzo fantascientifico “Cancro regina”. Tutta l’opera di Landolfi è un’autobiografia, la quale diventa poi letteratura vera e propria.

Lo stile

Lo stile di Landolfi sarà esaltato e condannato: infatti, il suo è uno stile alto, “letteratissimo”, che attinge alla tradizione rifacendosi anche ad un linguaggio arcaico ed è frequente l’uso di parole rare, deformate, e popolari:

  • Parole rare: “tempo soggiuntivo” (ovvero congiuntivo); “la di lui fantesca” (fantesca oggi non si usa più); “menomo stupore” (minimo stupore); “avvero dire” (a dire il vero); “la spasa” (un cestino); “pretestava” (ovvero portare a pretesto)
  • Parole plebee: “barbugliava e balbutendo” che sono delle varianti di “balbettare”; “stronfiava” (russare); “pidocchiava” (con riferimento ai capelli sporchi del cugino)
  • Figure retoriche: “voce soffice e un po’ rauca” (voce soffice è una sinestesia); “capelli invioliti” ( ovvero la luce lunare crea riflessi blu e viola); “lenta oscurità luminosa” (lenta oscurità è un’ipallage perché la lentezza non è nell’oscurità; oscurità luminosa è un ossimoro); “vasta marea della sua luce” ( vasta luce è una sinestesia; marea della luce è una metafora)
    Spesso domina il contrasto luce- ombra, che è una componente barocca, e il tema della vastità. Il linguaggio di Landolfi è preciso, e la precisione è un elemento congeniale anche a Calvino.

La pietra lunare

L’opera più famosa di Landolfi è “La pietra Lunare”, del 1939.
All’inizio dell’opera abbiamo una descrizione zelante in cui vengono riportate le chiacchiere di alcuni paesani sciocchi intenti a criticare una serva. Si tratta degli zii e dei cugini di Giovancarlo, il protagonista del romanzo. Uno degli zii ad un certo punto dirà di aver visto una croce nera proiettarsi in mezzo al giardino, e questo sarà il primo elemento di inquietudine: infatti, Giovancarlo guarda in quel punto ma vede invece due occhi felini che lo fissano. Questi occhi escono poi dall’ombra mentre entra nella stanza Gurù, una giovane bellissima e sensuale che fissa Giovancarlo, il quale è attratto da lei ma al tempo stesso la respinge. Infatti, osservandola noterà che essa ha dei piedi di capra.
Comincia così a chiedersi se zii e cugini se ne siano accorti, ma non sembra poiché tutti la trattano con affetto e normalità. Gurù dirà di essere venuta lì per stare con Giovancarlo e lui è ancora più scioccato, in quanto non conosce questa ragazza.
L’ambientazione è nel palazzo signorile di Pico, appartenente allo stesso Landolfi. Giovancarlo cercherò a più riprese di far notare i piedi di capra ma tutti lo guarderanno sgomenti, come se stesse delirando, e allora si chiede se non si tratti solo di una allucinazione.
Cambia l’ambientazione e si passa successivamente alla descrizione di Giovancarlo. Qui scopriamo che il protagonista ha un vizio, ovvero quello si spiare tutti dall’alto del suo palazzo. Questa componente voyeuristica indica una certa repressione del personaggio. Egli vedrà un giorno un palazzotto in rovina, dove un tempo vi abitavano dei fratelli banditi e assassini che erano stati il terrore della zona: ora vi abita una loro discendente, una ragazza bellissima, pura e virtuosissima che ha la caratteristica di guardare sempre per terra. Proprio per questo suo eccesso di virtù e di mistero in paese si comincia a vociferare che sia una strega, anche perché la sera la si sente cantare nenie ambigue. Questa fanciulla è ovviamente Gurù e Giovancarlo la riconosce.

Creatura lunare

Chiede alla sua serva Giovannina informazioni su di lei e una vecchia di paese gli rivelerà che è una creatura lunare, ovvero che di notte si trasforma in una diabolica fanciulla amica del diavolo. Con la scusa di farle ricamare delle camicie la farà venire in casa sua e inizierà così la loro relazione, spesso tormentata: infatti, di giorno Gurù è una fanciulla dolce e virtuosa, ma di notte diventa un’amante scatenata. Emerge, dunque, il tema del doppio e della metamorfosi. Viene raccontato poi un episodio i cui i due si uniscono ad un gruppo di banditi, forse fantasmi degli antenati di Gurù, e uno di essi mostrerà a Giovancarlo come decapitare un prigioniero con un coltellino. Segue una scena cruenta, con il sangue che sgorga e zampilla e la testa che rotola giù dalle rocce.

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di Giulio Iovine

Illustrazione di Elisa Antonietta Daniele


Al primo soffio di tramontana, alle dieci del mattino, lo charvolant partì dalla chiesa sventrata nei dintorni di Lisburn, dove il dottor Pocock l’aveva costruito, e s’incamminò cigolando sui resti della vecchia autostrada, verso sud.
Non pareva altro che un carretto di fortuna con quattro ruote ampie e a raggi di metallo, come una bicicletta d’altri tempi; pure, in quel nuovo mondo dove non c’erano più motori, né benzina, né elettricità, né cibo per i muscoli, lo charvolant era la vita.

Era al traino di tre aquiloni di forma rettangolare, gonfiati dal vento come arterie dal pulsare del cuore.
Il dottor Pocock controllava la vela anteriore e le due laterali con una coppia di leve; al volante, sedendogli accanto, stava Madeline; e al fianco di lei, la vecchia.

La vecchia era un imprevisto.
Madeline si era presentata all’appuntamento con Pocock, come si diceva una volta, con il suo +1.
Per non farla cadere fuori dallo charvolant, Madeline era costretta a tenerle il fianco con il braccio destro.

«Venticinque all’ora», annunciò controllando il tachimetro.
«Fra mezz’ora deve venire la bora da nordest», rispose il dottor Pocock.
«Soffierà per tutto il giorno. Basta e avanza per arrivare fino a Newry».
La vecchia, muovendo in cerchio la testa, disse qualcosa come gn gn blrb gn.

«Quanto ci hai messo a costruire questa chicchetta?», chiese Madeline.
«Poche settimane. Ero bravissimo a montare i mobili IKEA, prima del disastro».
«Fatico a credere che stiamo filando così, solo grazie al vento».
«Credici. La contea di Down è la regione più ventosa del vecchio Regno Unito».
«Se non è culo questo».
«Non posso darti torto».

Lo charvolant, intagliato con amore nel legno, provvisto di ruote di metallo sottile e di un sedile per due, non aveva un chilo di troppo; e correva spinto dalla tramontana che si abbatteva sulle vele anteriori.
Né veloci né lenti, i tre passeggeri attraversarono la contea di Down, verde e umida dopo le piogge di aprile. Al di là delle colline a est, a Madeline pareva di sentire il ruggito del mar d’Irlanda; a ovest, il luccichio del lago Neagh sotto le nuvole. Il vento alle loro spalle gli fischiava gelato sulle nuche.
Madeline dovette mettersi un foulard.

«Manovri male con una mano sola», commentò Pocock.
«Non posso metterle tutte e due sul volante. Mi cadrebbe la vecchia».
«Ripetimi dove l’hai trovata».
«Una casa di riposo abbandonata. I Famelici hanno mangiato tutti tranne lei. Credo perché era chiusa in bagno».
«Non parla proprio?».
«No, poveretta, credo sia demente da molti anni».
Il dottor Pocock guardò i movimenti incessanti della testa e il ciucc ciucc delle gengive sdentate, e quello sguardo che non si posava su niente, e concordò in silenzio.

«A Newry hanno cibo e acqua», disse poi, mentre lo charvolant sobbalzava sopra una buca nell’asfalto. «Ma sono razionati. La vecchia non sarà la benvenuta». «Non possiamo lasciarla morire», ribatté Madeline: «Non è colpa sua se è inerme».
«Non è il momento storico giusto, per gli inermi», riprese Pocock.

La vela centrale si gonfiò all’improvviso per uno schiaffo del vento, e lo charvolant accelerò.

«Un bambino è inerme quanto un vecchio», rispose Madeline «ma se avessi soccorso un bambino anziché una vecchia, non ti saresti lamentato. O sì?».
«Un bambino non ha metà cervello mangiato dall’ischemia».

Mentre Madeline attaccava un pippone sul fatto che la fine della civiltà umana non era una scusa per replicarne i viziacci peggiori e che, anzi, proprio la congiuntura attuale era ideale per dedicarsi con rinnovata cura all’infanzia e alla terza età perché il valore della comunità nello sfacelo eccetera eccetera, Pocock si accorse dallo specchietto retrovisore che avevano alle costole due Famelici.
Grazie al cielo, non molto veloci, per via della fascite necrotizzante che gli aveva mangiato le articolazioni (oltre a bollirgli il cervello dieci anni prima, quando tutto era iniziato); ma comunque Famelici e cioè – per definizione – testardi. Non riuscivano a raggiungere lo charvolant, che ora filava a trenta chilometri l’ora ma gli tenevano dietro, sbracciandosi e urlando, le mandibole orribilmente estroflesse.

Se ne accorse anche Madeline: «Se rallentiamo siamo fottuti».
«Deve venire la bora».

Ma la bora tardava, la tramontana cominciava a singhiozzare e lo charvolant rallentava.
Le tre vele che si rattrappivano alle estremità. I Famelici guadagnavano terreno.
Il dottor Pocock allora chiese a Madeline: «Scusa, reggimi un attimo le vele. Ho un’arma sul retro».

Madeline staccò dalla vecchia il braccio per prendere il controllo delle vele, mentre l’altro braccio stava sul volante. Pocock, che a Lisburn non aveva trovato nemmeno una fionda, spinse la vecchia giù dallo charvolant.
Il suo corpo grasso rotolò sull’asfalto, la testa che si muoveva senza senso sul collo.
I Famelici le furono addosso e cominciarono a mangiarla viva.
La vecchia non parve accorgersene e continuò a dire gn gn blrb gn.
Madeline avrebbe urlato, se non che lo charvolant, con settanta chili in meno e improvvisamente spinto da un soffio di bora, schizzò in avanti traballando e gemendo.
Le sue vele tese e lisce come gusci d’uovo, diretto a Hillsborough, Dromore, Banbridge e infine Newry, in quello che un tempo era stato l’Ulster, e ora era solo Irlanda.
La vita che continua fatica ad avere pietà di quella che si è fermata.

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