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di
Jolanda

 

Ci si aggrappa ai corrimano dell’autobus, dei tram, ci si aggrappa al corrimano delle scale, ci si attacca alla balaustra per non cadere, ci si attacca alla vita, alla maniglia della porta prima di chiuderla, prima di aprirla per prendersi il tempo di un ultimo respiro.
Ci si aggrappa per non perdere l’equilibrio, per provare l’adrenalina della frenata improvvisa senza dover sputare un molare disteso sul pavimento.
Ci si attacca anche al cazzo. 

Quel giorno era stato così. Immagine a campo lungo del tunnel dei vagoni della metro in fila ed io, punto di fuga, in piedi nell’ultimo vagone.
Non c’era giorno, non c’era notte, era uno di quei giorni al neon, di quei giorni istituiti proprio nel progetto della creazione in cui dio oltre al sole ed alle tenebre gridò “Neon!” e neon fu. 

Ero aggrappata al più sudicio degli appigli, sbarre, come li volete chiamare, e stavolta mi aggrappavo forte, così forte che sembrava quasi piacermi, sembrava darmi la stessa sicurezza di una mano, tanto da farmi dimenticare tutta la brulicante popolazione batterica.  

Che fastidio; maledizione che fastidio. 

Questa gonna è troppo corta, perché l’ho messa, perché era nell’armadio? 

Ah sì, la mettevo con lui, me ne fregavo se la mettevo con lui, mi riparava dagli sguardi sferzanti e poi mi piaceva. Sì, mi piaceva il fatto che gli piacesse questa dannata gonna corta (oddio ma perché l’ho messa).  

Stridio di freni e strattonata.  

Tipico. Siamo vicino Anagnina allora.  

L’ho imparato da quando ho sbattuto la faccia a terra l’ultima volta e ben mi sta.
Aveva ragione a dirmi che gli avevo rotto il cazzo con questa storia della fobia dei germi e del non riuscire a toccare niente, dell’appendermi al suo braccio ogni volta.
Ma come dice quella zia che non ho mai visto “non tutti i mali vengono per nuocere” almeno avevo una scusa per il livido sull’occhio, e sul braccio. 

Frenata.  

Non voglio cercare più scuse. 

Fortuna che mi aggrappo da sola. 

Mo’ la butto sta gonna. 

 

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di
Matteo Raimondi

 

Sotto una balbettante luce al neon mi viene in mente un vecchio motto romano: “A Via della Lungara c’è un gradino. Chi non lo sale non è romano né trasteverino”. Il gradino è quello di Regina Coeli (che non è una chiesa ma una prigione). Cinquant’anni fa era una cosa che dicevamo tra ragazzi per ridere.
Oggi le nuove generazioni l’hanno presa sul serio. Sono dei delinquenti. Colpa dei romanzi. Anzi, delle serie TV perché i romanzi non li legge più nessuno.
Una volta sull’autobus e sulla metropolitana si stava coi libri e i giornali. Ora si muove il pollice sullo schermo di un telefono, su e giù come stanno facendo i quattro passeggeri con cui condivido il vagone della metro C che, alle dieci di sera di un sonnolento mercoledì autunnale, sta viaggiando in direzione Centocelle.

Mentre il treno stride, penso che con l’avvento di quegli aggeggi il tempo a disposizione dei ragazzi si è contratto.
I telefoni sono come la marijuana nel ‘70: esagerano tutti ma nessuno lo ammette.
Felicità dei governanti:i drogati sono obbedienti, e questi ragazzi “vanno-molto-alti”. Me l’appunto sul taccuino, mi piacerebbe farne una lezione: Svegliatevi!

Oggi la madre di una delle mie alunne mi ha incalzato: «Questa storia dei selfie sta sfuggendo di mano.»

«È un problema di subcultura»
«Prego?»
«In sociologia è un insieme di persone con caratteristiche simili, come età e razza, o classe sociale e fede politica, che si distaccano dalla cultura predominante. Non esistono più sottoculture credibili. Si stanno adeguando tutti a un’unica grande cultura di massa, la cui offerta è filtrata dall’Industria Culturale, una specie di fabbrica di contenuti».

Lei mi ha guardato con occhi pigri e io ho capito di annoiarla. Ho fatto un cenno con la mano, come a dire di lasciar perdere… sono un vecchio rompicoglioni comunista. Anche se mi vergogno a dirlo credo che la gente lo capisca lo stesso: indosso ancora giacche di tweed con le toppe ai gomiti e pantaloni di tessuto.

«Sa che cosa ho trovato nel telefono di Vanessa?»
«No»
È arrossita. «Primi piani della sua vagina e istantanee di un pene eretto…» ha abbassato la voce e aggiunto:«più grosso di quello di mio marito.»

Ho sentito il bisogno di bere un sorso d’acqua. Questa gente di periferia è fatta così. Si definisce spontanea, senza peli sulla lingua. Terra terra. Per loro è un vanto, per me che invece provengo da una famiglia della Roma bene è un costante imbarazzo.

«Si rende conto?»

Non proprio.

«Crede che dovrei parlarle?»

Mi sono mosso sulla sedia, a disagio. «Direi di no.»

«Ai miei tempi queste cose non succedevano.»

«Quando ero giovane i ragazzi sfogliavano riviste francesi con le signorine in reggicalze». Ho sorriso, ma lei no.

«È l’adolescenza. Stia tranquilla.»

L’ultima cosa che volevo era immaginare gli organi genitali di una ragazzina di diciotto anni, perciò ho aperto il registro e parlato del rendimento di Vanessa, ottimo, e chiesto i suoi progetti per il futuro.
Dopo la maturità, siccome era avanti di un anno, sarebbe andata a lavorare in Inghilterra.
Brava ragazza, Vanessa.
Brava e bella.

(Vagina.)

La metro riparte con uno scossone e in galleria accelera. Faccio in tempo a leggere Torre Gaia su un cartellone prima che il neon ricominci a singhiozzare, rapsodico.

Sono ansioso di arrivare. Dopo venti minuti qua sotto comincia già a mancarmi l’aria.
Ogni volta che esco dalla metro è come riemergere da un’apnea. E ho sempre quella sensazione di cambiamento, come se il mondo fosse andato avanti senza aspettarmi.
Stare in metro a Roma è come entrare in un’enorme macchina per fermare il tempo. E poi puzza. Ha un odore fortissimo, di ferro ossidato e sudore.

Anni fa non ci avrei mai messo piede: la mia ex moglie era claustrofobica, e alcuni disagi sono contagiosi come l’influenza.
Ora non ho alternative: insegno letteratura in una zona chiamata Finocchio, estremo oriente, e vivo in Prati, al centro. Per uno che non conosce Roma non è facile capire che non scherzo quando dico che se non avessero aperto la linea C avrei trascorso la maggior parte del mio crepuscolo in autobus. Forse ci sarei persino morto.

La casa dove vivo era dei miei. L’ho ereditata da mia madre, vissuta vedova per trent’anni. Con lo stipendio che percepisco cercando di mostrare il mondo a ragazzi ciechi dalla nascita potrei permettermi al massimo un affitto in condivisione. Per fortuna mangio poco e vivo solo.

(Vagina.)

Sul sedile accanto al mio c’è un volantino. È propaganda. Dice che un immigrato costa 1000 euro al mese. Tanto si potrebbe dare a una famiglia per il mantenimento di due figli.
Lo accartoccio: populismo.

«Cazzo fai?»

Alzo gli occhi. Davanti a me c’è un ragazzone che avrà vent’anni. Dev’essere salito all’ultima fermata. In una mano tiene una decina di quei volantini. Mi sento in colpa. Ho davanti un esempio di subcultura e l’ho appena trattato da spazzatura solo per un vecchio pregiudizio.

Sorrido, come tutte le volte che sono in imbarazzo, e mi gratto la testa calva.

Lascia andare i fogli. Si spargono ovunque sul pavimento butterato del vagone.
Il neon singhiozza, nel buio sento lo scatto di un coltello.
Ha gli occhi così pieni di rabbia che mi viene da piangere.

La metro rallenta, scorre un altro cartello: Torre Angela.

Dico: «Non avrei dovuto.»

Il treno frena bruscamente, le ruote fanno urlare i binari.

Il ragazzo fa un passo avanti. «Voi comunisti avete rovinato l’Italia».
Mi piazza la lama sotto il collo: Regina Coeli e romanzi criminali.
Il treno bordeggia e strattona. Lui perde l’equilibrio e io sento un bacio gelido sul gozzo: è una tragica fatalità.

Il treno si ferma e le porte si aprono.

Mi guardo intorno. Nessuno si è accorto, stanno con gli occhi sui telefoni. Meglio: non voglio creare problemi.
Va via, provo a dire, ma dalle labbra mi esce solo un bulicame caldo. Lui fugge.

Sto morendo, è triste. Il treno riparte.

(Vagina.)

Spero solo di non andare all’inferno.

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di
Valter Chiappa

 

Faceva comodo salire al capolinea: si poteva scegliere il posto.
Meglio se il primo autobus era appena partito: si aspettava il successivo con l’assoluta certezza di conquistare proprio quello, terza fila, accanto al finestrino.
In verità non c’era un motivo logico secondo cui lei dovesse sedersi un’altra volta lì, di fronte, come quel venerdì; ma costruire un rituale permetteva l’infinita ripetizione di un piacere che, giunto inatteso, V. voleva fosse immutabile.

Giovedì 22 Maggio

S. si era fatta largo, goffa ed irruente, fra le signore burbere e gli zaini dei pischelli e si era seduta proprio lì, di fronte.
V. la guardò. L’attrazione non segue canoni, ha radici in qualche piega profonda del vissuto. Viso rotondetto ed accaldato, piccoli occhietti verdi, capelli lisci di un semplice castano.
V. sentì ancora il desiderio disilluso per una felicità che non gli era dovuta.
Ma poi successe. Il testo di analisi aveva funzionato, assieme a qualche appunto scribacchiato. Si sa, matematica è un esame ostico per le matricole di economia: derivate, integrali, le temutissime funzioni.

«Cosa stai preparando?» esordì lei, con una naturalezza a lui sconosciuta.
Lui timido: «Analisi I»
«Analisi che? Ma non sei di economia?»
«No. Faccio ingegneria»
«Ingegneria? Dai… allora mi puoi dare una mano. Ho l’esame fra 15 giorni e sono disperata!»

Per una convinzione comune, gli ingegneri hanno le risposte ad ogni problema, ma V. non le aveva nemmeno per i suoi.
Cominciò così. Nei 40 minuti del tragitto, fila di Montesacro compresa, V. provò ad esporre ordinatamente la metodologia corretta per affrontare lo studio di una funzione: il campo di esistenza, asintoti, flessi. Ma S., con domande a raffica, smontava il filo solido dei suoi ragionamenti.

Martedì 27 Maggio

«Ciao! Ti disturbo se mi siedo qua?»
V. non sapeva rispondere.
«Come va?»
«Un disastro! La funzione modulo. Proprio non l’ho capita»
Lui paziente: “È facile: se x<0, allora y = -x. Insomma, la devi prendere sempre positiva»
«Sì, ok. Ora però mi aiuti a risolvere quest’esercizio?»
V. scrollava la testa: per lui non si poteva studiare senza un metodo rigoroso. Ma S. diceva ogni cosa con quel sorriso che non ammetteva repliche. E V. si sentiva scaldare il cuore. E si sentiva accolto mentre S. lo ascoltava.

Mercoledì 28 Maggio

«Hai studiato?»
«No, ascolta. Mi è successa una cosa buffissima»
E V. rideva. Di cose che non gli sembravano più sciocche o insensate. Era bello, ridere, senza la catena di un pensiero conduttore; essere felice senza una regola. Decise di abbandonarsi a quella corrente disordinata, gioiosa ed ignota.
Nei giorni successivi parlarono di tante cose: delle vacanze ormai prossime e di un paesino in Calabria. Della loro stanza, dei dischi. Dei genitori. Dei sogni. Del futuro. Il futuro…

Lunedì 9 Giugno

«In bocca al lupo per domani. Fammi essere orgoglioso di te»
«Ci sentiamo, no?»
Balbettio.
«Ah, che sciocca! Non hai il mio numero!» e lo appuntò sulla copertina immacolata del libro di analisi.
Scese veloce, lanciando un bacio.

Martedì 10 Giugno

V. guardava nervosamente il numero di telefono.
Provò a desistere: «Magari mi racconterà tutto domani in autobus»

No: il giorno dopo non sarebbe andata all’Università. Panico. Respirò forte.
Chiamò.
Il muro, gigantesco avanti a sé, si sgretolò in un attimo al suono squillante della sua voce.

«Finalmente posso andare in vacanza, non ce la facevo più»
«Parti?», deglutì.
«Scendo con Mamma. La casa in Calabria, non ti ricordi?»
«Dai… che bello!», il cuore in una pressa.
«A Settembre ci raccontiamo tutto. E tu fai il bravo, non rimorchiare troppo…»

Le altre parole si confusero nel ronzio che gli riempì la testa.

Lunedì 22 Settembre

V. ripeteva mentalmente, ormai a memoria, quel numero di telefono. Un giorno avrebbe chiamato. O magari no: non sarebbe stato più bello incontrarsi nuovamente sull’autobus? Sorrideva. Sì: sarebbe stato più bello così.

Lunedì 9 Gennaio

Freddo e nebbia, palpebre pesanti, pensieri ovattati. Il capolinea era un miraggio, là in cima a Via Verga.
«Quanto ci mette a partire?».
V. non sentì nemmeno il motore avviarsi, le persone che, come spettri silenziosi, affollavano la vettura. Poggiata la testa sul vetro appannato, cadde in un sonno profondo.

«Signore, il biglietto per cortesia».

La voce più ferma e uno scossone appena brusco fecero dissolvere in un attimo le immagini dei sogni che, rapidi, avevano popolato la sua mente. Solo il ricordo di un raggio di sole caldo rimase, sospeso nel vuoto dei pensieri lucidi.
«Tessera» disse V., frugando fra le tasche, da cui estrasse un cartoncino lacero.

«Questa cos’è?»

«Intera rete, non vede?»

«Signore, questa non è valida, controlli bene»

«Ma l’ha vista anche il bigliettaio!»

«Il bigliettaio? Quale bigliettaio?»

V. tese la mano verso la porta posteriore, a indicare l’omone bonario con la pancia appoggiata sulla vaschetta di ferro con le 50 lire. Sbarrò gli occhi: non c’era. E neanche la vaschetta, e il suo trespolo. E le facce intorno? Non erano le stesse. Dov’era la vecchietta col carrellino per la spesa, quella che faceva solo due fermate? E i ragazzi con la svastica disegnata a penna sulla Tolfa?

Rimase così, la bocca spalancata.

Il controllore guardò perplesso quell’uomo con i grigi capelli arruffati, la barba lunga, lo sguardo spento.

«Signore, si sente bene?»
«Certo… sì…»
«Scenda con me alla prossima»
«No! Non posso, devo incontrare una persona…»
«Venga… venga con me»
V. cominciò ad agitarsi scompostamente. Il controllore infilò un braccio sotto il suo e cominciò a trascinarlo, cortese ma fermo. Un vecchio libro cadde fra i piedi della calca.
«Stia tranquillo. Sistemiamo tutto»
«No! Non posso…»

Le loro voci si persero, sfumando nel rumore di fondo del traffico.

La scena si era svolta nell’indifferenza della gente, ognuno isolato nei suoi pensieri o ipnotizzato dallo schermo di un telefono.

Solo una donna aveva osservato tutto in silenzio. Raccolse il libro, ne guardò la copertina.

Una lacrima scorse via da due occhietti verdi, piccoli e tristi, e andò giù veloce a rigare un viso rotondetto.

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di
Arundo Donald

 

Quando Michela riprese coscienza si ritrovò sdraiata e disorientata.

La testa, infinitamente pesante, era quasi incollata al pavimento, e gli occhi gonfi e doloranti a malapena filtravano la luce tra le palpebre imbrattate.
Tutto ciò le dava un fastidio eccessivo eppure non riusciva a ricordare cosa le fosse successo. Ogni singola parte del suo corpo esitava a risponderle e tutto era un enorme forte dolore.
Qualcosa di certo doveva essersi accanita su di lei pensò.
Eppure non riusciva proprio a ricordare cosa fosse successo.
Sentiva il ferro in bocca, l’amaro, e cominciava a soffrire il freddo.
Ancora immobile e con gli occhi chiusi spronò i sensi ancora vividi tentando di intuire ciò che le stesse accadendo intorno. Dove fosse, chi l’avesse ridotta così, cosa avesse fatto per meritarsi tutto questo.
Provava a muovere il corpo. Ora un braccio, ora una gamba ma ogni singola parte non reggeva il dialogo. Era un continuo messaggio a senso unico. Doveva trovarsi su un autobus pensò e sperò che fosse notte.

Roma è bella la notte.

D’improvviso, come se il sole si facesse spazio tra le nubi scure, il freddo era caldo, il silenzio una musica soave e l’autobus si era animato. Su ogni sedile sedevano uomini e donne intenti a parlare, alcuni discutevano seri altri gesticolavano.
Le luci regalavano un tepore soffice e le persone intente a scambiarsi gesti e opinioni sembravano completare quel frammento felice.
Una bambina colpì l’attenzione di Michela. Era piuttosto magra, le braccia scoperte mostravano una pelle chiara del colore della Luna, ma le guance erano rosse e lasciavano intuire un senso di benessere. I capelli mori e morbidi le ricordavano i suoi. Erano lisci, di lunghezza modesta e sulla testa era posato un fermaglio di forma inusuale, ma non certo anomala.  Un cane era seduto dinanzi alla bambina. A Michela parve che la stesse fissando. Aveva il pelo burbero e il naso spigoloso.
Entusiasta si accorse che fuori dai finestrini era notte e ne fu felice.

Roma è bella vissuta di notte. Le capitava spesso.

Per un po’ rimase spettatrice di quell’evento. Per molto tempo in realtà.

Poi l’autobus fu di nuovo vuoto. La bambina con lo strano fermaglio e il cane irsuto erano scomparsi. Anche tutte le persone avevano smesso di parlare e le luci si erano fatte nuovamente livide.
Chissà quante fermate ancora avrebbe dovuto aspettare pensò, perché l’autobus si riempisse un’altra volta di gente tanto allegra. Chissà se mai sarebbe stato ancora così.

Ora tutto era buio e senza rumori.

Ora anche lei ricordava di essersi fatta un buco sull’autobus.