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pt. 2

di Federico Cirillo

Illustrazione di Simona Settembre

Nella cella

“FIERI, MASCHI, SPAVALDI! GLI ITALIANI DI SERGIO PANCALDI!” è la scritta verde che copre parte del volantino, stagliandosi davanti ad un sé stesso in divisa militare.
Il suo sguardo è sicuro e rivolto verso un punto lontano, nella stessa direzione indicata dal dito della sua mano.
Spaventato, ma anche curioso, Sergio decide di inserire tutta la testa dentro la cella.

Sergio Pancaldi è un leader politico, salito alla ribalta dopo un’elezione vinta con l’ 80% di consensi, un plebiscito.
Il suo partito Sempreverde Italia” è nato dal nulla a Centocelle, il quartiere dove ha sempre vissuto.
Il simbolo è un arbusto.
«Noi siamo – ha affermato la Gran Guida Sergio Pancaldi, nel suo discorso di insediamento – come il mirto: rustici, semplici, di facile e rapida propagazione! Partiti dal nostro frutteto familiare, abbiamo risposto alle esigenze di tutti. Ora siamo come fummo e come sempre saremo: sempreverdi ed immortali! All’Italia!».
Sergio, dalla sua finestrella su questo nuovo mondo non ci crede.
In un attimo riemerge dalla luce verso la stanza buia per poi tornare a guardare lo strano spettacolo.
Ora la scena è cambiata: fumi e incendi, strade devastate e sirene che si rincorrono. Una folla, cantando, sfila verso una grande piazza in cui lui, la Gran Guida Pancaldi con la divisa lacera e divelta sul petto, giace con il volto segnato e livido. 
«A morte l’infame!» gridano. Uno sguardo di terrore negli occhi di una donna si incrocia con quello della Gran Guida Pancaldi: è un attimo.
I fucili urlano insieme alla folla: è la sua fine.

Urla anche Sergio (il nostro) che, terrorizzato, cade a terra nella stanza.

Tutto tranne che Sergio

“Sei tutto, tranne che Sergio” continua a ripetergli la voce dell’uomo dentro la sua testa “va avanti, coraggio, guarda!”.
Così, si avvicina alla seconda cella di luce.

Su un manifesto di un cinema, c’è lui vestito da cowboy.
Tiene al lazzo una donna.
Sulla locandina si legge “I tre gringos e Mirta, vedova del West con Sergio Pancaldi, il re della risata! Oggi la prima”.
Dallo stesso cinema esce Sergio, la star, abbracciato a due giovani ragazze sorridenti: è inseguito da una folla acclamante e un mare di paparazzi.

Giornalisti impazziti cercano di avvicinarlo: «Sergio, di qua Sergio! Commenti? Altri progetti dopo questo successo? Cosa farai ora?». Con un gesto della mano la star blocca le domande, abbassa gli occhiali da sole e guardando a turno le due ragazze esclama: «Beh, It’s going to be a Hard Day’s Night» e, terminata la frase con un occhiolino, entra in una Cadillac dorata con le due donne.

Neanche il tempo di spostare lo sguardo che Sergio si trova ad assistere ad una scena diversa.
In un’aula di tribunale c’è di nuovo lui, la star, ammanettato.
Un giudice sta per leggere una sentenza, mentre lui prova a nascondere il viso con le mani. «Stupro! Colpevole! Minorenni! Omicidio colposo! Sedia elettrica!» le urla che escono fuori dall’aula accompagnano i titoli dei giornali e i flash dei fotografi, ora come mine esplosive, sembrano distruggere il terreno sotto i piedi dell’attore in lacrime. 

“Porca puttana!” pensa Sergio tornando con tutto il corpo nel buio della stanza circolare.
Suda freddo.
Ma ancora la voce dell’uomo non si ferma, non è sazia: “Tutto tranne che Sergio” gli ripete. “Guarda ancora, non aver paura”.

Nella terza cella c’è un Sergio artista di quadri meravigliosi e tormentati che lo hanno portato alla ribalta. Soldi, fama ma anche una forma di psicosi che lo isola dal mondo e lo porta in un vortice di pazzia, finché non viene rinchiuso in un ospedale psichiatrico. 

Nella quarta è l’idolo dei teenager per aver vinto un talent show musicale con il pezzo: “Serg’Io” del suo album “Amore in Piazza Mirti” tenuto in mano dallo stesso Sergio mentre esala l’ultimo respiro in un angolo di un edificio abbandonato dopo l’ultima dose letale.

Nella quinta è un calciatore spinto al suicidio per essersi ritirato troppo giovane dopo un grave infortunio al ginocchio…e così via fino alla centesima cella.
L’ultima. 

Ultima cella. 7 Gennaio ore 07:00.

Qui la luce è meno intensa, l’immagine è quella della sua stanza in Via dei Girasoli.
Sergio l’ingegnere si alza dal letto e si sposta lentamente in cucina.
Saluta Fabio che, cuffie e sguardo verso il pc, nemmeno lo ascolta.
Doccia veloce e barba: esce e va verso la metro Mirti.
San Giovanni, Metro A fino a Termini, Metro B fino a Castro Pretorio. 10 ore di lavoro in ufficio e ritorno a casa.
Metro B fino a Termini, Metro A fino a San Giovanni, Metro C fino a Mirti.
Anzi no, fino a Centocelle.
Qui un uomo in piedi lo aspetta.
Appena Sergio scende dal treno, l’uomo gli sorride e gli appoggia una mano sulla spalla: «Tutto, ma sempre Sergio. Devi solo scegliere, ora tocca a te» e girandosi verso l’uscita gli indica di nuovo le cento celle, questa volta spente, che aspettano solo di illuminarsi.

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pt. 1

di Federico Cirillo

Illustrazione di Simona Settembre

Sergio Pancaldi è un signor nessuno.
La sua storia è con la lettera minuscola, le sue pagine social sono anonime. Il suo gatto Olmo era più popolare di lui, poi l’ha regalato agli zii in campagna.

Ore 07:00

La vita di Sergio è piatta.
Ogni mattina si sveglia nella sua stanza in Via dei Girasoli, saluta il suo coinquilino Fabio, si fa il suo caffè in capsule e dopo una veloce doccia con barba, esce.

Via dei Giunchi, Via degli Ontani, Via dei Glicini, Via dei Castani, Piazza dei Mirti, Metro. Ne avesse mai vista una, poi, di quelle piante.
“Che so ‘sti ontani? – si chiede – e i mirti? Io l’ho giusto bevuto in quella taverna sarda anni fa, non pensavo fosse un fiore, ’na pianta, un frutto...che cazzo è il mirto? Ah già, non prende qua” e mentre lascia naufragare l’idea di controllare su Google, abbandona il suo smartphone nella tasca dei  pantaloni. 
Metro C fino a San Giovanni, Metro A fino a Termini, quindi Metro B fino a Castro Pretorio: 10 ore di lavoro in ufficio e ritorno: “Cavolo – pensa, mentre viene pressato nel vagone – mi sono scordato di controllare che cos’ è il mirto. Vabbè mo non prende” e così via. 

ore 09:00

La vita di Sergio è piatta anche il fine settimana.
O va in campagna dai parenti o va a pranzo da Enzo, l’unico amico che ha a Roma: “A Roma…a Tomba de Nerone, ‘tacci sua” .
«Daje Sergio, io e Mara ti aspettiamo: ho preso la porchetta e le bistecche, metto su la griglia. Porta il vino e la pasta speciale per te. Ps: c’è una sorpresa!1!» gli ha scritto Enzo anche questa domenica.

“La sorpresa – pensa – sarà Silvia, la solita amica di Mara, che ansia. Vabbè so le 9: se esco alle 10, metro Mirti, San Giovanni, scendo a Flaminio e per le 13 ce dovrei sta”. 

Ore 20:00

Bella giornata de merda”, pensa Sergio mentre aspetta la metro C per tornare a casa.
È brillo: il vino rosso che ha portato, gli aveva dato subito alla testa e arrivati al ragù di carne stava già arrancando mentre annuiva, senza ascoltare, ad un discorso che Silvia gli faceva su un sistema di banche fantasma che controllano altre banche e Mario Draghi…boh: era già brillo e annoiato da quelle chiacchiere complottiste.
A seguire: porchetta, bistecca e il video di Paoletto, figlio di Enzo, 7 anni, “una promessa del calcio a’ Se’: questo me diventa come Chinaglia. Ma che ce parlo a fa co’ te, ‘n ce capisci ‘n cazzo de pallone”.  Ed era pure vero.
Dopo 3 bottiglie di vino, due di amari e una di limoncello la domenica era andata.
A chiudere, Paoletto gli aveva mandato il pallone  sul  limoncello, rovesciandoglielo sui pantaloni. 
Sente la  puzza di cedro stantio anche ora che aspetta la metro a San Giovanni, ma “almeno porto un po’ di odore di piante a piazza Mirti. Che poi che è il mirto? Poi vedo. Se avessi saputo che a 37 anni mi sarei ritrovato così me ne sarei andato, come Guido: Azzorre! Si è aperto una pizzeria…ah no, so celiaco. Cavolo, non fossi stato celiaco, non fossi stato un ingegnere! Se fossi stato, che so: un politico, uno statista! Anzi no, un artista: un cantante, oppure un profeta che si è inventato una nuova religione, o un pilota de formula uno, un calciatore, un divo: CAZZO, TUTTO TRANNE SERGIO!”.

Senza accorgersene, ha urlato ma la banchina è praticamente deserta.
C’è solo un barbone appoggiato al muro che a malapena ha alzato gli occhi e un uomo, che lo guarda e si avvicina: “Mo me ammazza – pensa Sergio – o me mena. Prima me mena, poi m’ammazza. Non potrebbe fa il contrario? Ecco che alza la mano” .
La mano si appoggia delicatamente sulla sua spalla e il gesto è accompagnato da un sorriso e da un: «Sicuro?».
Poi un black-out momentaneo e, tornata la luce, Sergio è di nuovo solo. L’uomo non c’è più.
Al suo posto un odore di “Mirto! Questo è mirto…ma perchè lo so? Vabbè…è stata sicuramente un’ allucinazione da sbronza” pensa e sale sul vagone. 

Il viaggio è tranquillo ma Sergio, addormentato sul sedile, ha mancato la fermata e si è risvegliato a Centocelle.
Non fa in tempo a bestemmiare che scende al volo e sente la testa svuotata: deve appoggiarsi alla parete con la schiena e respirare forte. “Non c’ ho più il fisico pe’ le sbronze. Torno a piedi: na bella camminata tra le piante che non esistono e tra le luci di Natale…cazzo è già 23” .

Ore 21:00

La metro Centocelle è silenziosa. Troppo.
Nessuno in giro, nessun rumore, neanche quello delle scale mobili in funzione. Anzi: della scala mobile.
Ce n’è solo una, lunghissima, che sale.
Sergio non ci bada, tiene gli occhi chiusi e pensa: “potevo essere un attore di cinema muto, un attore porno, anzi no un gigolò, un astronauta, un astro…”. Prima di finire il pensiero, apre gli occhi e non capisce.
Dietro di lui la scala continua a scorrere silenziosa. Davanti, un’enorme sala circolare. Rabbrividisce: la stanza è fredda e buia, i muri neri delle pareti sembrano accerchiarlo.
Un lampadario sbilenco, al centro, manda una luce fioca.
Sotto di esso, un uomo: quell’uomo

Ha un’aria da anziano signore, con una giacca lisa e un po’ impolverata, una barba sfatta bianco sporco. L’iniziale impressione rassicurante da gentil vecchietto si incrina nel guardargli gli occhi: uno nero e uno celeste ghiaccio, quasi bianco. Lo guarda e gli sorride, mostrando denti irregolari ma così bianchi da far luce tutta loro.
Sembra quasi che illuminino la lampadina che pende.

Ore 34:00,00?

«Ma dove…?» la domanda di Sergio si ferma a metà, travolta da una sensazione di fiato spezzato, mista a rigurgito alcolico: girandosi non vede più la scala ma solo una curva infinita fatta di oscurità. 
«Ciao Sergio. Non preoccuparti: sei esattamente dove avresti voluto sempre essere».
La voce dell’uomo, ferma e netta, riecheggia creando delle onde sonore che avvolgono completamente il cervello ovattato di Sergio.
La pausa che segue sembra durare un’eternità per poi venire spezzata dalla frase «La domanda non è dove né quando: la domanda è come» che anticipa tutti gli interrogativi dell’ingegnere.
Il sorriso dell’uomo in piedi al centro della sala sembra sottolineare ogni sillaba.
La paura di Sergio è passata non appena la prima parola è uscita dalla bocca dello sconosciuto. Ogni lettera è arrivata al suo cuore e alla sua mente, causandogli sensazioni positive legate a ricordi dimenticati: l’abbraccio di suo padre dopo la prima caduta dalla bici, la mano di suo nonno mentre camminano insieme verso l’edicola, lo sguardo sorridente e stanco di sua madre subito dopo il parto. 

«Vedi?» riprende l’uomo aprendo le braccia e le mani che mostrano cicatrici sui palmi «La risposta non è lontana: sei già nella risposta. Se “tutto tranne Sergio” è il punto, ora sei tutto, tranne Sergio».
Come in un teatro di posa vuoto e abbandonato, ad una ad una, con lo stesso “tac” dei riflettori quando si accendono, cento diverse finestre intorno ai due iniziano ad illuminarsi. Quadrati di luce che pulsano e si riempiono di un bianco accecante. Ora è il cerchio che risplende, mentre al centro è di nuovo buio. L’uomo è scomparso ma non la sua voce che Sergio sente chiara.

«Calma, Sergio: sono qui. Sono ovunque. Le vedi le finestre? In ognuna ci sei tu: lì dentro sei tutto, tranne Sergio. Non aver paura, guarda, sono le tue vite».
Sergio si avvicina ad una delle celle illuminate e brillanti. La sua mano sinistra, spinta da una involontaria attrazione, viene calamitata verso la luce. Mille domande viaggiano nel suo cervello come auto impazzite: “Che c’è oltre la luce? E nelle altre? Che vuol dire “tutto tranne che Sergio”? Ma io so Sergio?”.
La mano scompare e riappare dall’altra parte della cella.
Afferra qualcosa: un volantino stropicciato con la sua faccia e il busto in primo piano.

…continua

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di Federico Cirillo

Illustrazione di Tern Pat

Non prende. Niente da fare.
Come dentro la B1, come dal profondo ventre di Sant’Agnese Annibaliano, anche qui a Re di Roma non prende il telefono.
Questo vuol dire smettere di, nell’ordine:

  • eliminare la sottoscrizione ad una mailing list che mi perseguita da anni con offerte di lavoro nell’ambito del settore “creativo”;
  • smettere di far caricare la pagina google “come cancellarsi da una miling list” (sì lo so, ho scritto male, ma la grande G ha capito lo stesso);
  • doverla smettere di polemizzare all’interno di un gruppo WhatsApp.

Fortuna che ho un po’ di musica dall’offline di Spotify, così posso applicare qualsiasi colonna sonora al mondo circostante, affrescato con le espressioni imbarazzate e smarrite dei passeggeri improvvisamente privati dei loro giga: meraviglioso.

Tom Waits non ha fatto in tempo ad arrivare nelle mie orecchie con il refrain di Downtown Train che qualcosa, qualcuno, mi spinge con la schiena verso la parete della metro, facendomi anche sbattere contro il giornale del tipo che da quando sono salito era sulla stessa pagina. Mi giro di scatto e noto che, quasi fosse un Mar Rosso nel pieno dell’azione che l’ha reso famoso, la folla si è aperta per far da cornice ad uno spettacolo primordiale.
Il letto del fiume di gente è infatti occupato da due ragazzi, alti, palestrati e pieni di tatuaggi che si spintonano, strattonano e scalciano, come due gladiatori all’interno dell’arena.

Ho ancora le cuffie e non riesco a sentire cosa si sputano addosso, faccia contro faccia, fronte contro fronte, pugno contro pugno.
Me lo posso immaginare facilmente però: un insulto alla Mamma (Nun t’azzardà manco a nominalla, hai capito)? Un’offesa alla Squadra del Cuore (ah zozzo!)? Un biasimo o una polemica nei confronti dei metodi di allenamento di uno dei due (e quelli li chiami porpacci? Ah secco)? Uno sguardo di traverso di troppo (aoh, ma che cazzo te guardi)? Un apprezzamento non richiesto alla ragazza dell’altro (ah coso, ma nun lo vedi che è a’donna mia? Abbassa quell’occhi si nun te voi ritrova’ cieco!)?

Non lo so, ma con la voce di Tom nelle orecchie, tutto diventa così surreale: i “mortacci tua” sono sostituiti da “Will i see you tonight”, le bestemmie che si lanciano contro da “On a downtown train”, i “nun me tocca’” dai “Every night, It’s just the same, You leave me lonely”, e così via.

A Termini si aprono le porte della metro e i due, che ancora non hanno finito di menarsi selvaggiamente, tra un pugno e un calcio si avvicinano pugnacemente all’uscita.
Decido di capire: che cazzo è successo?
Tolte le cuffie, dalla nuvola di botte che i due energumeni hanno creato esce fuori quello che non ti aspetti:
«Servo Tullio!» urla uno dei due, tenendo per la gola l’altro e pulendosi del sangue dalla bocca. «Anco Marzio!» risponde l’altro con la voce rotta e sfiatata mentre cerca di sferrare l’ennesimo pugno che, visto il braccio, abbatterebbe un toro.

«T’ho detto Servo Tullio, Servo Tulliooo!» fa in tempo a gridare il primo, nell’attimo esatto in cui il destro del secondo gli atterra sulla guancia, accompagnato da un «Anco…Marziooooo!! Era Anco Marzio!!», e la spinta è così forte che, finalmente, i due precipitano insieme fuori dal vagone.

«Assurdo» penso ad alta voce, rivolgendomi ad un ragazzo vicino che, come me, ha assistito a tutta la scena «Ma che cazzo è successo? Perché litigavano? Che c’entra Servo Tullio?»
«Ma boh» risponde il ragazzo in tuta mentre si aggiusta gli occhiali da vista.«Hanno iniziato a litiga’ a Re Di Roma su chi fosse stato il secondo re di Roma, appunto. ‘Na cosa tira l’altra, non si sono trovati d’accordo, ed ecco che l’hanno risolta nel modo più peripatetico possibile: se so’ presi a pizze».
«Assurdo» commento mimando un “no” non la testa e guardando verso la porta della metro ancora aperta sulla banchina di Termini «Ma come se fa a litiga’ per una cosa del genere? Quei due, poi? Mah. Che poi si sa»azzardo con tono saccente,«il secondo Re di Roma è stato Tarquinio Prisco, era facile».

Non l’avessi mai detto. Il mite ragazzo dagli occhiali spessi gira di scatto lo sguardo verso di me, e un lampo di follia e rabbia repressa gli illumina gli occhi. Carica corpo e braccia, digrigna i denti e con ira funesta, improvvisa e inaspettata, mi spinge fuori dalla carrozza e anche io mi ritrovo eiettato sulla banchina, culo per terra e faccia sorpresa.

«Ma che cazzo dici a’scemo: era Numa Pompilio!» mi urla il ragazzo, proprio mentre le porte si chiudono e il treno riparte direzione Battistini.

Rimango così: fermo per terra, a fissare il treno che mi scorre davanti. Riprendo il telefono in mano e mentre la voce nelle cuffie si dissolve in un “All my dreams fall like rain”, sempre da terra controllo rapido su google, sempre con gli occhi sgranati e con il cuore che mi batte a mille. Il telefono adesso prende. Tom Waits ha smesso di cantare. La mail è rimasta è in bozze.

Il gruppo ha cinquanta nuovi messaggi. Google rapidamente mi dà la risposta: cazzo, aveva ragione.

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di
Federico Cirillo

Come ogni sera, il 23 riportava stralci di umanità alle proprie case.
Come ogni sera verso le 21, affreschi di vita incrociavano momentaneamente i propri destini dentro quell’autobus. Come ogni sera, sul 23 salivano ritratti di esistenza che arrivavano precisi ad un appuntamento con gli altri: un appuntamento mai preso e per questo spesso rispettato.

Ma quella sera era San Valentino, la festa dell’amore, anche se i passeggeri avevano più l’aria del santo nel momento del suo martirio. Mattia odiava quella festa: che palle portarla sempre fuori a cena per forza (“Ma è San Valentino amore!” diceva sempre). Almeno st’anno me so’evitato la cena, pensava all’altezza di Marmorata/Galvani, Mattia, continuando a toccarsi la gamba dolorante per il post-partita.

 «Mortacci Cla’, ancora me fa male la gamba: quel pezzo demmerda m’è caduto addosso pesante!», disse strattonando Claudio che aveva da poco chiuso gli occchi.

Claudio si girò con la bocca impastata di sonno: «Uhm, guarda che sei te che sei uscito “a valanga”, je stavi quasi a rompe la tibia a quer poraccio».

 «Che cazzo dici? Me pari l’arbitro! Quello m’è piombato addosso quando il pallone ce l’avevo già io, era carica a Cla’, altro che fallo».

«Sè vabbè, Matti’, era fallo…l’abbiamo visto pure noi, dai. Ma poi che cazzo t’ha detto la testa de usci’ così fori dall’area? Pure tiro libero contro ci hai fatto prende. Te devi da’ una calmata Matti’. ’St’anno so già 5 ammonizioni che te pijii, o pe’ fa’ ste uscite o perché devi sbrocca’ all’arbitro. E abbiamo fatto 8 partite. Da quando te sei… vabbè su, lascia sta’».

 «Da quando me so’ cosa?» scattò Mattia. Si conoscevano dall’infanzia e Claudio sapeva di aver toccato un nervo scoperto. «A parte il fatto che de quelle 5 ammonizioni, 3 so’ molto contestabili…non ho capito, finisci la frase: da quando me so’?».

 «Dai Matti’ lo sai, da quando te sei lasciato co’ Valeria sei strano, nervoso. Sbrocchi pe tutto e co tutti: hai attaccato ’na polemica con l’arbitro prima dell’inizio per il fatto che se dovevamo mette noi le casacche…che poi te sei il portiere e manco te la mettevi. E su!».

«Ma che c’entra Cla’, quello è perché me dà fastidio che ‘n se vede lo sponsor de papà. Ma poi che cazzo c’entra Valeria? Che me frega de Valeria? Quella stronza. Anzi proprio oggi so contento che nun devo anna a quella cazzo de cena de San Valentino der cazzo».

 «Appunto» chiosò Claudio, rigirandosi verso il finestrino «e smettila de magnatte le unghie, che schifo» aggiunse irritato.

Il silenzio, accompagnato dal rosichìo nervoso di Mattia, si impossessò nuovamente del 23, lasciando spazio ai rumori di fondo.

Fu allora che Mattia la vide.

«Ao, ma quella?» fece Mattia, ridestando di nuovo Claudio con una gomitata mentre il bus rallentava sull’Ostiense «Guarda che gnocca, Cla’!»

Indicò fuori dal bus un finestrone ben illuminato della palestra che, sul lato opposto della strada, pullulava di vita fitness. Claudio si girò di scatto.

 «Ma chi? La bionda? A Matti’ ma me sa che…».

 «Sì, sì… la bionda! Davanti alla finestra, attaccata alla colonna. Guarda Clà! M’ha visto, me sta a guarda’! Guarda che canottierina che c’ha, co’ tutta la panza de fori! La devo conosce Clà, questo è un segno del destino, proprio stasera che sto da solo dopo…beh…dopo tutti l’anni co Valeria, quella stronza. J’assomija pure, però ammazza se è più fica de Valeria, aoh me guarda Clà…dai scendiamo, scendiamo cazzo, la devo vede’ da vicino, la devo conosce, dai dai». Il viso gli si era tutto acceso e si era spostato verso le porte centrali spingendo freneticamente la richiesta di fermata.

 «Ma che scende Matti’, è fica, ok ma è…» disse Claudio tentando invano di trattenerlo.

«Bella! No fica Cla’, bella!» lo interruppe Mattia offeso «Ti pregherei di sciacquarti la bocca quando parli della donna mia! Dai scendiamo, daiiii».

 «’A donna tua? Ma te sei scemo. Dai che palle Matti’ ma non lo vedi che è…vabbè vaffanculo scendiamo ma ce vai da solo! E pijate la borsa tua, cazzo!» disse Claudio sbattendogli la borsa del calcetto che aveva trascinato fino alle porte.

«Ok, come sto?» chiese tutto eccitato Mattia aggiustandosi i capelli alla fermata e appoggiando i guanti da portiere sul borsone «vabbè ’sti cazzi, tanto è sudata pure lei.  Guarda quanto è bella, me continua a guarda’, sicuro che non vieni?»

 «None! Te credo che te guarda, è na f… »

«Ho detto che non devi parla’ così della donna mia! Fata, si dice è una fata, ok?»

 «No Matti’, intendevo, che è ’na f…»

Mattia già attraversava tutta l’Ostiense preso da un fomento innaturale: «Me lo dici dopo, guardame la borsa» urlò a Claudio correndo «20 euro che me dà il numero?»

Dall’altra parte Claudio urlò di rimando «20 euro che fai ’na figura demmerda?»

 «Annata!» sputò fuori Mattia entrando nella palestra.

Fu tutto rapido e (non) indolore. La ragazza bionda attaccata alla colonna che guardava fisso verso l’esterno. Claudio attaccato di schiena al palo della fermata, in attesa del successivo 23. Mattia che arriva in sala accompagnato da un istruttore. Mattia che arriva accanto alla ragazza. L’istruttore che ride. I frequentatori della sala che ridono indicando Mattia. Mattia che abbassa la testa, si gira sconsolato e torna sui suoi passi. La ragazza bionda che, sempre attaccata alla colonna, guarda sempre fisso all’esterno. Mattia che torna da Claudio, lemme lemme.

«Me devi 20 euro» fece Claudio, secco.

 «Te li do domani. Però me lo potevi di’ che era ‘n poster, ’na cazzo de foto pubblicitaria».

 «C’ho provato, nun m’hai fatto parla’, stavi infojato. Ultimamente ‘n te se pò di’ gnente, da quando…vabbè famo che me ne dai 10. Sali va.».

In silenzio, risalirono sul 23 successivo che, ancora più vuoto di quello di prima, li ospitò senza giudicare.

«Che poi Valeria» disse Mattia con un filo di voce «era pure più fica».

 «Beh, di certo era più in HD».

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

– Siamo tutti ordinari. Siamo tutti noiosi. Siamo tutti spettacolari. Siamo tutti timidi. Siamo tutti in grassetto. Siamo tutti eroi. Siamo tutti impotenti. Dipende solo dal giorno.

«Ora ci credi. Ora è il momento. Non c’è più tempo, quasi…». Queste ultime parole escono dalla bocca e dai pensieri di Alfred con un tono totalmente diverso da quello usato per il racconto: serio e solenne, mentre scambia uno sguardo d’intesa con Batman, sul cui volto ora è scomparsa anche quell’ombra amara di solitudine che lo accompagnava sempre nei nostri ultimi “incontri”. Sono lì entrambi, uno avanti e uno dietro, più veri e tangibili che mai. Batman mi guarda, in silenzio, e noto che in mano ha qualcosa… qualcosa per me? Un fagotto di carta. Giornali avvolti tra di loro. Giornali e riviste che riportano le notizie e i titoli delle sue azioni leggendarie. Articoli che parlano di lui e lo ritraggono in compagnia del suo fido alleato, del suo compagno di venture e sventure. Il classico simbolo del pipistrello al centro del torace di lui, un cerchio nero con una R gialla sul petto dell’altro, più giovane.

L’altro. Il ragazzo. R. Robin.

«Aprilo, Ragazzo, guarda dentro» mi fa Alfred con un sorriso sornione, accennando due passi indietro. Strappo via la carta, di fretta e senza pensare. Il 766 corre e non fa più fermate adesso. O forse le fa, ma non importa: tutto vortica attorno a me. Batman, Alfred, il Jocker, la folla che è ormai solo un ammasso di sagome. Il 766, il ragazzo con la vitiligine, il Batman vecchio, stanco e derelitto. La donna dagli occhi da gatto, “e dire che allora”: tutto ruota veloce e si ferma sull’oggetto all’interno del pacco: un costume. Rosso, maniche verdi come i guanti regalatimi la volta scorsa, un mantello giallo con la R cucita sul petto.

Una volta aperto l’involucro, dall’interno cade svolazzando un altro foglio di giornale: “Continuano i furti di Testa di Demone. Chi è il pericoloso terrorista che si cela dietro quel satanico simbolo? Siamo sull’orlo di una guerra batteriologica?”. Questo il titolo che campeggia centrale. Impietrito e sconnesso, sento solo una mano che si appoggia sulla mia spalla.

«Bentornato, ragazzo. Bentornato, Robin» mi fa, e all’istante mi si gela il sangue. Vorrei dire tanto, vorrei chiedere tutto e chiedermi mille perché.

«Tocca a me, Batman?» esce invece, quasi meccanicamente, dalla mia bocca.

«Tocca a noi. Scendiamo, la macchina è parcheggiata a Grotta Perfetta.»

Mentre indosso la maschera, la blusa e il mantello, Batman mi guarda, braccia incrociate e sorriso sicuro. «Lo fermiamo?» domando. «Ricordi come si fa?» mi chiede. Sorrido e scendo al volo dal finestrino aperto (non chiedetemi come diavolo abbia fatto, ma so farlo, me lo ricordo!). Scende anche Batman, scuotendo la testa tra un sorriso e un’occhiataccia.

«Signore!» urla Alfred da dietro, rincorrendoci e reggendosi il cappello da perfetto omino inglese, «difficile che riusciate a guidare senza queste…» e ci lancia le chiavi.

«Vecchio Alfred – fa Batman voltandosi e afferrandole al volo – senza di te, mi scorderei tutto, anche il passato.»

Fine.

 

 

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

– La vita, la sventura, l’isolamento, l’abbandono, la povertà, sono campi di battaglia che hanno i loro eroi: eroi oscuri a volte più grandi degli eroi illustri.

…My need is such I pretend too much / I’m lonely but no one can tell / Oh yes I’m the great pretender (ooh ooh) / Adrift in a world of my own (ooh ooh)…

Grande Freddie. Brividi: ogni volta che lo ascolto mi vengono i brividi. E il viaggio sul 766 scorre rapido. Rapido e indolore… anche se tra tutta ‘sta gente rimanere in piedi è un po’ come fare l’equilibrista: sembro un circense. Tiè, guarda che equilibrio, neanche gli scossoni del 766 che s’impantana nelle pozze grigie che la pioggia battente ha riempito per tutta la giornata mi spaventa.

I’m wearing my heart like a crown / Pretending that you’re still around…

Yeah ooh…

«Ah, i Platters! Gran gruppo: ricordo che da giovane era uno dei miei pezzi preferiti… eh, gli anni ’50» fa all’improvviso il signor Alfred, e la sua voce mi giunge come dalle cuffiette del cellulare che, nel frattempo, ha fatto partire Rockin’ Robin.

«Signor Alfredo, buonasera. Non l’avevo vista, ma speravo di incontrarla. L’ultima volta mi ha lasciato con l’ennesimo interrogativo aperto: ho il cervello in bilico come un trapezista – ancora paragoni circensi, penso – e non vorrei cadere, insomma…»

«…eh sì – continua Alfred, come perso nei ricordi – gli anni ’50… sembrano passati più di 50 anni. Eh R,. ascolti buona musica, bravo. D’altronde l’animo dell’artista lo hai sempre avuto, lo hai ereditato dai tuoi.»

I miei? Un insegnante di asilo e una logopedista? Cosa c’è di artistico nella logopedia, mi chiedo. «Signor Alfred – provo a svegliarlo dalla sua estraniante estasi, quasi psichedelica – cosa c’è di artistico nella logopedia?».

Niente. Non mi guarda, non risponde: è nel suo mondo.

«Vedi R., non appena si accendevano le luci tutt’intorno, il pubblico rimaneva muto, occhi e mente fissi a quel cielo blu pastello. I tamburi rullavano, i clown smettevano per un attimo le loro pagliacciate, le tigri si calmavano, gli elefanti, muti, alzavano le loro proboscidi: mentre loro volavano, roteavano nell’aria, si scambiavano sguardi e posizioni, cenni e piroette. Era la magia dell’equilibrio disegnata sulla linea dei sogni. Erano perfetti lassù, a volteggiare tra le stelle.»

«Guarda – fa poi, riprendendosi e tirando fuori dal portafogli una vecchia e sgualcita fotografia – ero come uno zio, per loro. Questa la scattammo il giorno prima che… vedi? C’è la data…»

16-05-1990: una giovane coppia sorride all’obiettivo e al centro, come ad unire i due, un bimbo. Indice in bocca, sguardo accigliato e cappuccio rosso della felpa sulla testa, tiene le loro mani e quasi non fa caso alla posa da assumere.

Ma certo, penso con aria intenerita, il buon vecchio Alfredo sta pensando a questa famiglia di circensi, probabilmente suoi parenti. «16 maggio del ’90, io avrò l’età di questo bambino qui. Ma chi sono? Ma poi il giorno prima di cosa? Che è successo il 17 maggio?»

Ora sono curioso. Dannato Alfred, è riuscito di nuovo a mandarmi in tilt il cervello…

How many roads must a man walk down / Before you call him a man…

Su queste note, intanto, il 766 riprende la sua marcia, lenta quest’oggi, compassata e nostalgica, quasi. Come ad accompagnare il tutto, inizia a piovere e, dal finestrino semi aperto del bus, qualche goccia, tonda e lieve, cade sulla fotografia. «Ogni volta – fa Alfred senza riuscire a nascondere il leggero tremolio che condiziona le sue ruvide mani – ogni volta che parlo di loro, il cielo se ne accorge. La domanda, caro R., non è chi sono loro ma chi sei tu. R., chi sei tu? Hai ancora lo stesso sguardo accigliato, ogni volta che non capisci. Ricordi?

Nelle notti buie e nere sta avanzando un cavaliere/ non ha sella né cavallo ed è nero il suo mantello/ Lotta contro l’ingiustizia, la sua arma è la furbizia./ Non è solo ma ha scudiero che lo segue sul sentiero/ sembra grande ma è un bambino ed ha il nome di uccellino/ con l’eroe corre e si batte contro mille malefatte/ contro mostri orchi e goblin, sempre insieme…»

«…Batman e Robin!». Chiudo quella filastrocca sciocca quasi senza pensarci, con naturalezza, e la cosa mi spaventa. «Come… come sai – domando ad Alfred con la bocca impastata di ricordi – questa canzone? Signor Alfredo, chi sei?». Quelle stupide rime avevano risvegliato dentro di me un vortice di immagini lontane, sfocate. Quelle strofe… le conosco benissimo, ma non ho idea del perché. Le immagini nel mio cervello, inizialmente annebbiate, si fanno più nitide: un letto, il mio probabilmente, ed una donna… mia madre. Ma non quella che conosco, non quella che mi aspetta a casa e che ritrovo ogni sera, non la logopedista… no. È diversa, e ha… il mio stesso sguardo. Canta. Canta questa filastrocca, la sussurra quasi e mi abbraccia. Ora in un vicolo… dopo una serata passata… al circo. Ancora mia madre e c’è anche mio padre… il mio vero padre. Mi abbracciano entrambi… e con l’ultimo respiro intonano ancora questa maledetta, ingenua, meravigliosa storiella. Voglio urlare, forse piangere, ma riesco solo a fissare Alfred ripetendo a mente le ultime due strofe.

«Guarda R., guarda qui» Alfred mi porge una seconda foto. C’è ancora quel bambino, un po’ più grande. Ha sempre quella felpa con il cappuccio rosso sulla testa. L’espressione è arrabbiata, il volto corrucciato. Appoggia la mano su un antico pianoforte sul quale sta una cornice: dentro, un’immagine di due equilibristi che, in aria, si congiungono in un eterno abbraccio. «Questa è casa mia, Robin, e questo sei tu, vedi?» mi domanda toccandomi la cicatrice sul sopracciglio destro che, ormai, non ricordavo neanche di avere: la stessa del bambino nella foto che si scorge, in primo piano, poco sotto il lembo del cappuccio.

«Qualche giorno dopo, dall’ospedale in cui ti trovavi, ti portarono da me: ero l’unico “parente” che avevano i tuoi, un vero e proprio zio per loro e anche per te. Ma non potevo accudirti per sempre: il lavoro dal signor B. mi allontanava costantemente e nonostante ti portassi con me quell’ambiente non era adatto per un ragazzino. Certo, ti dimostrasti utile con lui, lo aiutavi, imparavi e crescevi ma, arrivato ai 10 anni avevi anche bisogno di… di una vita normale, ecco. Così ti affidammo alla famiglia che ti ha cresciuto fino ad oggi: è grazie a loro se hai superato quel trauma, ma contemporaneamente hai anche dimenticato chi sei, per vivere un’adolescenza più felice, normale. Ma ora B. ha bisogno di nuovo te, perché…

sembra grande ma è un bambino ed ha il nome di uccellino/ con l’eroe corre e si batte contro mille malefatte/ contro mostri orchi e goblin, sempre insieme Batman e Robin…».

Come evocato dai ricordi, dalla nebbia mentale che mi attanaglia o dalla pioggia che il cielo continua a far cadere sul 766, che ormai viaggia in un non-tempo all’interno di uno spazio che racchiude solo noi e il nostro mondo, tra la folla spunta Batman.

«Ultima fermata, Robin. Bentornato.»

[continua…]

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

– Chi è più solo di un eroe?

 

L’amore ai tempi del 766. Oddio, se l’amore avesse proprio gli stessi tempi e i modi del 766 sarebbe un’interminabile agonia: incontri e scontri casuali, scossoni, ritardi, fermate saltate, titoli non convalidati o convalidati a metà come gli sguardi, distratti e non, lanciati alla moretta che siede poco avanti. Oddio, forse invece l’amore è proprio come stare sul 766: soli per tutto il tragitto, finché non ci si rende conto di aver suonato la stessa ferma… non faccio in tempo a concludere questo malsano quanto inutile pensiero che lo vedo, come ogni lunedì sera, palesarsi all’improvviso nel mezzo della folla. Batman: tra me e la moretta dai ricci scomposti e selvaggi che ogni tanto mi spizza con occhi taglienti e felini, ignara della presenza del “folle” Cavaliere Oscuro. Quasi quasi mi alzo e lo saluto, penso, e gli chiedo anche spiegazioni su ‘sti gadget che mi ha dato Alfred, o meglio, il signor Alfredo. Invece no: rimango lì, seduto sul solito sedile del 766, a guardarlo da lontano. Ha catalizzato la mia attenzione più della moretta che, intanto, dopo due fermate andate a vuoto e un tentativo di sorridermi, è scesa ed è andata via: proprio come l’amore.

‘Sto tizio mi fotte il cervello, ripeto tra me e me mentre continuo a scrutarlo dauna distanza che sembra chilometrica, ma che in realtà è dannatamente breve. Più mi sforzo di guardarlo e analizzarlo e più, ogni volta, sembra diverso, più giovane.

«Ma è più giovane, cazzo!» esclamo a bassa voce. È sicuramente più giovane: spalle larghe che fanno da cornice ad un petto aperto e muscoloso. Maschera ben aderente al volto e sguardo che fuoriesce tagliato e severo, ma pacifico, dalle fessure degli occhi. Non è più impacciato ma, anzi, fa sentire gli altri attorno a sé in difetto e fuori contesto. Sì, ha qualche ruga agli angoli della bocca, ma la sua figura, in quella calzamaglia non più buffa e lacera, si staglia perfettamente al centro del 766: è suo quel posto, è suo quello spazio. Sicuro e serioso, ma triste e tremendamente solo. Forse anche per lui il 766 è una metafora d’amore, in quella solitudine di cui è protagonista?

«Sai R., anche lui è stato innamorato una volta. Anche se non lo ammetterà mai, anche lui si innamorò: ed è successo proprio qui, sul 766». Alfredo, penso, e come ti sbagli, mi domando. Puntuale, proprio quando non se ne sente la necessità, come il 766… «Beh sì – interrompe i miei pensieri senza attendere un mio intervento, tanto con lui pare non ve ne sia il bisogno – magari il 766 è stato sempre in ritardo, ma ti dico, caro R., che qui, puntuale, nacque un amore. Sempre seguendo un percorso particolarmente tortuoso e dai tratti noir, ci mancherebbe: d’altronde, è il suo stile. Ascolta, magari serve anche al nostro scopo». Fingendo di non aver visto lo sguardo complice che i due, Batman e Alfred, si sono lanciati a distanza (Alfred è buffo, penso, quando fa l’occhiolino: piega la testa nella stessa direzione a cui rivolge il cenno), e rimango in silenzio, semplicemente ad ascoltare.

«Notte. È la notte, d’altronde, il miglior palcoscenico per gli amanti. Il 766 era affollato e un mare di gente si accalcava su quello che sembrava più il vagone di un carro bestiame che un bus. Gente sudata, gente che sbuffava ovunque e condensa che aumentava sui finestrini. Il vociare era assordante, anche se ognuno pensava a sé e, quasi, parlava da solo: un vociare di singoli pensieri che creava un chiassoso caos. Come al solito c’ero anche io, di ritorno da alcuni servizi per… beh, non importa. In fondo al bus una ragazza, statura media, corporatura esile. I suoi capelli castani e vaporosi dovevano dare, al tatto, la stessa sensazione che dà il velluto. Lunghi, seguivano ondeggiando i movimenti rapidi delle espressioni del suo viso, bianco come le stelle di notte, spigoloso e pungente come il vento quella sera. Notevole, pensai. Ma quello che non si poteva non notare erano i suoi occhi: lucenti e profondi, misti d’agata e metallo, fiammanti e crepitanti, quasi come due finestre che permettevano di vedere altri universi. Non importa il colore, era cangiante, quasi diverso a seconda di dove guardasse. La mia attenzione era tutta rivolta ai suoi occhi acuti e felini, mossi da una danza nervosa fatta di scatti; tanto mi ero perso nel mondo che essi proiettavano che inizialmente non notai i suoi artigli: più rapidi e veloci dei suoi sguardi. Approfittando di un lieve scossone, di un urto improvviso del 766, furtivo fu il suo gesto e, tra la folla ingenua e assente, veloce la sua mano. Una ladra, pensai, ma non dissi nulla, quasi ipnotizzato da ciò in cui mi ero avventurato con la mente e con i sensi. Fatto sta, caro R., che la ragazza, svelta e dalle movenze sinuose, si districò tra la gente senza sfiorarla, senza fare rumore, avvicinandosi alla porta per scendere alla fermata successiva. Ma, come anche tu ragionavi poc’anzi, è forse l’amore una fermata del 766? Non fece in tempo a scendere dal bus, a respirare l’aria della fresca libertà che da dietro fu braccata e risucchiata nella “cagnara” a lei ostile e, con un lamento simile ad un flebile miagolio, spalancò gli occhi disorientati e smarriti: due braccia possenti, sovrastate da un mantello nero, la bloccarono. La lotta tra amore e libertà aveva inizio. Si girò, rapida, sfoderando le sue armi: unghie affilate e curate, taglienti quanto i suoi occhi. Si agitava e dimenava, si sforzava per uscire dalla morsa potente ma allo stesso tempo sicura e protettiva di Batman. E fu lì che scattò, ragazzo. Fu lì che la fermata dell’amore non saltò, quella volta, ma anzi suonò puntuale. Questione di un lampo, un incrocio di pensieri e di universi paralleli, prima che di sguardi. Quell’attimo, R., durò in eterno: c’ero io a distanza, quasi in trance, al centro del 766, e loro, in una posa talmente innaturale da sembrare artistica. Tutt’attorno, acquarelli sbiaditi di singole umanità, dettagli che si scioglievano ai margini di quell’abbraccio così forzato da apparire voluto. Lo vidi. Vidi tutto l’amore che mai lui aveva provato e che mai più, da allora, provò. Alla fermata successiva, la lasciò andare. Lei si scosse, si riebbe spegnendo in un lampo il crepitio felino che li aveva uniti. Scese, lasciando in lui tutto di lei: la prima vera sconfitta dell’uomo Batman, la giustizia che si piegava all’amore… peccati di gioventù, insomma.»

«E la rivide?» chiedo come se fossi stato anche io con lui su questo stesso 766, in quel giorno indefinito.

«Oh sì – fa lui, scendendo e dandomi le spalle – ma non fu mai come quella volta.»

Quindi, bloccandosi insieme alla corsa del bus, dopo un profondo sospiro, inaspettatamente mi fa: «La prossima è la tua fermata, R. Tocca a te, ora».

[Continua…]

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

– Senza eroi, siamo tutti gente ordinaria, e non sappiamo quanto lontano possiamo andare.
– Quello che la gente ama più dell’eroe è vederlo cadere.

 

Il primo dei tre… ricordo che aveva dei capelli a ciuffi verdi, una faccia pallida da far paura e un rossetto che gli copriva le labbra al punto che il rosso andava ben al di fuori degli estremi della bocca, quasi a disegnargli un ghigno perenne sulla faccia: sembrava un fottutissimo clown, anzi, un joker, come quelli che trovi sulle carte da poker.

Con un salto e con l’aria da gradasso, togliendole le cuffie, fece alla ragazza: «Oh deliziosa delizia e incanto, cosa c’hai sorellina per ascoltare quei tremoli suoni sonori? Scommetto che hai solo un povero piccolo patetico smartophono da pic nic! Vieni dallo zio a sentirlo per bene! Ho gli arcangeli con le trombe e i diavoli coi tromboni, sei invitata e sta’ attenta. Sta’ bene attenta alla risposta, oh fanciulla, se della vita la continuazione a cuor ti sta. Dolcezza, stasera hai portato il sorriso sul mio volto!»

Un matto, avrà pensato lei; non riuscì a spostarsi di un millimetro che subito si trovò accanto il secondo.

Quello, una sorta di hipster basso e cicciottello, dallo stile un po’ vintage, aveva con un cilindro viola in testa.
Nella mano destra stringeva una sottile sigaretta, nella sinistra un lungo ombrello nero. Tutto avvolto in un frac con la coda di una misura più largo, sporgendo il tondo viso dal naso aquilino verso il regolare ovale di lei, si rivolse al Joker con tono secco e tagliente: «Smettila, idiota! Non vogliamo certo spaventare questo bocconcino. Oh no… noi non vogliamo spaventarla, noi vogliamo di più!»

E, subito dopo aver accompagnato il tutto con una risata gelida, con repentino gesto morse l’orecchio della poverina, facendole strozzare in gola un “Basta!” bloccato sul nascere dalla mano ossuta e macchiata del terzo.
«Zitta!» fece quest’ultimo, un ragazzo alto con un ciuffo bianco e il viso che, per metà rovinato dalla vitiligine, presentava delle chiazze opache e bianche solo da un lato del volto.

«Non provare a urlare, non rendere tutto più difficile. Lasciamo che a decidere sia la cieca fortuna… Ti va, bocconcino? D’altronde – cacciando dalla tasca del jeans una moneta con due teste – il caso e gli umori governano il mondo no? Ahahah.
Testa scendi con noi alla prossima fermata, croce la tua vita è salva e torni a casa da mammina e tutto questo sarà stato solo un terribile incubo, e noi tre soltanto dei bislacchi cavalieri oscuri che hanno un po’ giocato con te, che ne dici eh? Ahahah.».

Insomma, era troppo. Capii che dovevo fare qualcosa. Non feci in tempo ad alzarmi per immolarmi in difesa della ragazza che una mano, possente e decisa, mi bloccò la spalla facendomi ricadere sul sedile.

«Sta’ buono, Alfred. Ci penso io.»

Da dove era entrato? Non ne ho idea! Da dove arrivava? Nessuno può saperlo. So solo quello che vidi, ragazzo, e fu stupefacente.
In un attimo arrivò in fondo del 766 e nel giro di due minuti BOFF!, BAM!, WHACK!, CRASH! e li mise al tappeto.
Alla fine, mentre i tre gaglioffi tentavano goffamente la fuga, afferrò per il collo il Joker che, biascicando dal sorriso grondante sangue, optò per la strada del lamento: «Ti prego, io… io sono buono, sarò buono, voglio essere buono! Voglio essere, per il resto della mia vita, solamente un atto di bontà. Non uccidermi!»

E lui, alzandolo con un braccio: «No, no. Non ti ucciderò. Ma voglio che tu mi faccia un favore: devi parlare di me a tutti i tuoi amici».

«Ma chi sei?!» gli domandò il giovinastro.

«Io sono Batman.»

In un lampo lo scaraventò fuori dal 766 e, con un salto repentino, scese subito dopo, a Grotta Perfetta, ma non prima di avermi lanciato uno sguardo complice.

 

 

«Wow – rispondo, come ripresomi da una lunghissima trance – storia… intensa. Ma – indicando Batman – intende lui, signor Alfred? Io credo che lei ogni tanto confonda l’immaginazione con i ricordi, e la realtà con… ma dove è andato?»
Faccio per cercare Batman che nel frattempo, al solito, è scomparso.
Tempo di distrarmi per girarmi di nuovo verso Alfred che non trovo più neanche lui. Al suo post,o dei guanti verde bottiglia e una mascherina nera con un bigliettino sopra:

“Si possono chiudere gli occhi sulla realtà, ma non sui ricordi. Ah, questi sono i tuoi e… posso chiamarti R., ragazzo?”

[continua…]

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

– Senza eroi, siamo tutti gente ordinaria, e non sappiamo quanto lontano possiamo andare.

– Quello che la gente ama più dell’eroe è vederlo cadere.

 

…i tuoi calzini… questi sono i tuoi calzini. Ragazzo. Proprio non ci arrivi? Ragazzo! I tuoi calzini… ricordi? Ricordi? Ricordi? Ricordi? Rosso…

Il risveglio improvviso sul 766 è più traumatico di un pugno alla bocca dello stomaco che spezza il respiro. L’aria, in un attimo, torna a girare nei polmoni e arrivando alla trachea viene espulsa insieme a un breve rantolo di tosse.

Cazzo di incubo, penso ancora scosso da quell’inquietante assopimento. Intorno a me il solito popolo del 766. Le solite facce stanche e stravolte, le solite espressioni disilluse e assonnate.
La classica piatta attesa di una fermata.

Chi è il signor Alfredo, mi domando ancora inquieto, e perché dice di conoscermi? Dannazione, mi ha intrippato il cervello con tutte quelle storie, con tutto quel suo fare tra il misterioso e il filosofico: da un grande potere derivano grandi… ah no, quello era Spiderman, penso imitando a mente la sua voce.

Quella storia di Batman, poi, non ha fatto altro che farmi rimuginare per 5 giorni interi… che cosa dovrei ricordare? A cosa dovrei arrivare? Mah.
Fichi i calzini però, concludo sbarazzandomi dei pensieri che sbattono tutti contro un mentale vicolo cieco.
Nell’ammirare i calzini regalatimi (o restituiti?) da Alfredo, messi per la prima volta oggi, con lo sguardo vado all’articolo del giornale che raccolgo dal pavimento del 766:

«Bioterrorismo – Testa di Demone colpisce ancora: il terrorista o il gruppo di terroristi per il quale la stampa ha coniato questo originale soprannome per via del simbolo lasciato ad ogni furto di materiale chimico (una testa di demone o comunque un simbolo satanico accompagnato da scritte arabe) ha trafugato ingenti quantità di gas nervino e altri agenti radioattivi e biologici potenzialmente pericolosi per la collettività da un camion che principalmente trasportava iridio. Ancora sconosciute le cause di questo atto, compiuto, si teme, per la creazione di armi batteriologiche atte a…»

«Lascia stare quella roba, ragazzo. Non è ancora il momento. Dài qua…» il gesto, più repentino del consiglio ma al contempo paterno, è il preludio di un «Salve ragazzo, buonasera» che mi suona ormai familiare e, quasi, lo ammetto, rassicurante.

«Oh, signor Alfredo, buonasera a lei. Come va? Non è il momento per cosa?».

«Lascia stare, ragazzo, il momento arriverà e sarai di nuovo in grado di entrare nel paradiso dei ricordi».
Matto, penso. Completamente andato, mi ripeto lasciandomi sfuggire un sorriso accondiscendente.

«Intanto voglio raccontarti una storia. Anzi no, voglio raccontarti un attimo, un attimo ben fissato nei miei ricordi, un attimo che riguarda lui…» neanche il tempo di finire la frase e eccolo di nuovo: Batman.

Questa volta è completamente ritto sulla schiena e, sul petto, la toppa gialla con il simbolo nero del pipistrello si allarga ad ogni suo lento respiro. Il disegno è, ora, quasi del tutto visibile, se non fosse per il mento che si appoggia sull’estremità alta dell’ellisse. Il mantello è più lungo e meno grigio del solito: direi nero o, meglio, nero opaco, e la maschera, seppur ancora spezzata e con una crepa di lato, sembra dargli, questa volta, un briciolo di dignità in più. «Non può essere – lascio sfuggire ad alta voce – sembrerebbe davvero…», «Non sembrerebbe, ragazzo… è. Ascolta» mi interrompe il signor Alfredo.

Anche il signor Alfredo è diverso: sì, certo, ha sempre gli occhiali da sole e un cappello rotto in stile British, ma ha meno rughe e la voce è più sicura e profonda, priva della tosse e della fatica che l’accompagnavano durante gli incontri precedenti. Inizia, insomma, ad assomigliare ad un perfetto e distinto omino inglese.
Un omino inglese che ha iniziato un discorso del quale ho perso l’inizio:
«…d’inverno, quindi capirai, ragazzo, che il 766 era completamente vuoto, in più ricordo che pioveva quella sera. Oltre a me, che sedevo proprio qui, c’era solo un’anziana signora dagli occhi lattiginosi, probabilmente quasi del tutto cieca, la sua badante che non la perdeva un attimo di vista e dietro, in fondo, una ragazza, una studentessa universitaria, attardatasi probabilmente in facoltà. Insomma, dopo un paio di fermate, salgono dalla porta posteriore tre ragazzi, tre personaggi piuttosto strani, probabilmente in vena di bravate e Dio solo sa se sotto l’effetto di chissà quale sostanza.

Quell’ atteggiamento spavaldo e arrogante, insieme alle loro urla, attirò la mia attenzione. I tre, appena saliti, scambiandosi sguardi meschini, puntarono subito la giovane, già impaurita: e da lì a poco sarebbe stata terrorizzata…»

[Continua…]

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

 

– Non c’è eroe senza pubblico.

– La nazione che dimentica i suoi eroi sarà essa stessa dimenticata.

 

Morde il freno, il 776. Accelera per un attimo per poi inchiodarsi di botto, repentino e macchinoso come un transatlantico a vapore che non riesce a circumnavigare la punta dell’iceberg.
Lo scossone è forte, irritante e al contempo sordo quanto le reazioni mute ed inerti dei passeggeri. Spenti come il cielo livido di una Roma invernale, fiochi come le luci sporche del 776.

Qualcuno dorme, o almeno ci prova, facendo ciondolare la testa tra uno scossone e l’altro. Qualcuno è perso nei ronzii del suo smartphone. Un bambino, approfittando della condensa umida posatasi sul finestrino del 776, traccia un segno, che diventa disegno: un pipistrello…

Batman! Penso rinvenendo dal limbo della mia fiacchezza serale. Batman prende quest’autobus, mi ripeto sorridendo tra me e me al ricordo del “matto” vestito da Cavaliere Oscuro e ripercorrendo quella sconclusionata conversazione avuta più di una settimana prima proprio qui, sul 776.

«Matto? Matto, sì… e dire che allora…». Di nuovo, quella voce, quasi come leggesse i pensieri e scrutasse l’anima, squarcia dapprima la mia coscienza per poi attirare la mia attenzione. Come l’ultima volta.

Il mormorio è accompagnato da un gesto repentino e sicuro che mal si scontra con la mano rugosa, molle e al contempo vellutato. L’uomo mi afferra il polso senza voltarsi, quasi ad impedirmi di ripetere il gesto involontario di guardare l’orologio.

«E dire che allora – riprende, saltando nuovamente tutti gli inutili convenevoli – quel matto era un eroe. Quel matto era Batman».

«Ah è lei – faccio con tono sorprendentemente distaccato– buonasera signor…?»

«Mi chiamo Alfredo e no, non risolvo i problemi». No, scherzo tra me e me, al più me li crea.
«Vedi, ragazzo – riprende senza aspettare il mio nome e aggiustandosi sul naso i soliti occhiali da sole – forse era davvero matto, lui. Lui ha sempre osato lì dove gli angeli temevano di andare».
Non faccio in tempo a spegnere lo scetticismo che è in me che, seguendo il suo cenno a guardare in avanti, lo rivedo.
Batman, o meglio, il tizio vestito da Batman, è di nuovo qui, sul 776.
In piedi, nella sua tutina sempre troppo stretta per quel fisico trasandato, ma leggermente più distinto.
Ha qualcosa di diverso, penso. Schiena più dritta? Mantello meno liso? Maschera tirata a lucido? Mah, mi rassegno, sta comunque fuori, concludo distogliendo lo sguardo.

«Sì, d’accordo, tutto molto intenso e anche un po’ teatrale, signor Alfredo, ma perché? Cioè non le chiedo chi è, perché ho paura della risposta e, soprattutto, ho paura del suo tono inquietante nel darmela, ma le chiedo perché? Perché è vestito così? Perché è qui? Perché su questo stramaledetto autobus? Perché sul 776!» urlo alla fine.

Tra una risata e un colpo di tosse, sotto lo sguardo di un passeggero che d’istinto si volta verso di noi infastidito, il signor Alfredo, scuotendo il capo e trattenendo il ghigno consumato dal tempo e dal tabacco, riprende e con solerzia mi domanda: «Proprio non ci arrivi, eh? – tossisce, invecchiando di 30 anni in un secondo – Proprio non vuoi sforzarti, eh? Il mondo è troppo piccolo perché uno come lui – indicandolo – possa sparire, per quanto in basso decida di scendere. Sai, ci vorrebbero 30 fermate per raccontartelo… cercherò di mettercene 10 o anche meno… la prossima volta».

Si alza, barcolla un minimo cercando di tenere l’equilibrio per arrivare a prenotare la fermata e immobile, sempre in piedi accanto a me, aspetta, guardando fisso in direzione di Batman, o meglio, del tizio vestito da Batman.
Intanto, il matto, lo strano, come ormai lo inizio a considerare, con un sospiro lunghissimo e faticosamente lento, si sfila un guanto bucato e con un gesto ancora più lento si allarga di un altro buco il vistoso e ingombrante cinturone giallo posto sopra un ridicolo mutandone nero opaco che è solo il culmine di un paio di fuseaux grigio sporco. Tempo di rimettersi il guanto, con la stessa fatica messa in campo per toglierselo, ed eccolo che scende a Grotta Perfetta.

«Mah – mi rivolgo al signor Alfredo, questa volta più calmo – davvero, perché? Perché qui? Perché il 776?»

«Beh – con voce che sembra provenire da una caverna – lo sanno tutti, ragazzo, Batman vive qui, a Grotta Perfetta. Ma nessuno sa in quale, ragazzo».

Pur rimanendo sbigottito, non riesco a trattenere un sorriso: «Ah – aggiungo mentre il signor Alfredo mi scavalca per scendere – io comunque sono…»
«Lo so – mi interrompe senza aspettare altro e ignorando la mia mano tesa – lo so chi sei, ragazzo. A proposito – mi fa prima di scendere alla fermata successiva – questi sono i tuoi calzini, ricordi?» e lasciandomi in mano delle calze rosse a pois verdi e con una banda gialla in punta, scende tossendo, ridacchiando e lasciandomi pieno di dubbi.

I miei calzini? Ricordi? Ragazzo? Batman? Ma che diavolo sta succedendo?

[Continua…]

 

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

– Un eroe non è più coraggioso di una persona comune, ma è coraggioso cinque minuti più a lungo.
– Sventurata la terra che ha bisogno di eroi.

Non era certo la prima volta che prendevo il 766 a quell’ora, per tornare a casa dal lavoro.
Il ritmo di tutti i giorni imponeva al mondo una cadenza costante e ben descritta dal movimento sussultorio di un autobus che, ciclicamente, conduceva con distacco irreale le persone alle loro case, alle loro vite, ai loro destini. Dentro il 766 un glorioso e silenzioso lamento di animi contorti, di menti in stand-by e di sguardi fissi in attesa che le porte si spalancassero nuovamente.
Fuori, la vita: con tutti i suoi difetti, i suoi nei e i suoi effimeri momenti di breve estasi.

Al centro il 766, ai lati la realtà.

Quello spazio divideva me e i miei taciturni e temporanei compagni di viaggio da ciò che la realtà ci offriva. Roma non era mai stata così vera e tetra fuori dal 766. La luce al neon, fredda e gialla, che illuminava a tratti i volti di ognuno di noi, metteva in risalto le espressioni stanche e rassegnate di chi non ha più illusioni, di chi ha solo santi contro cui urlare e più nessun eroe.

Fuori, per strada, sulla via della vita, il blu acceso e assordante delle ambulanze; il suono metallico e abbagliante delle sirene della polizia. L’intenso, ammaliante, ipnotizzante ripetersi dell’allarme dei vigili del fuoco. Panico e indifferenza. Stand-by quotidiano nel limbo del 766: ultima passerella di uno stop and go pronto a rianimarsi.

«E dire che allora…» sento sussurrare al mio fianco.

Mi risveglio dal torpore dei miei pensieri e, come a riacciuffare un filo dissipato di sinapsi, mi concentro e mi giro con lentezza.
«E dire che allora…» torna a ripetermi, girando il suo naso su di me, con la stessa identica mia lentezza.
«Ah sì, certo – mi riprendo di scatto – allora… le venti e zero ott… vabbè le otto e dieci insomma».
Il tizio accanto a me sorride. Scuote la testa abbassando lo sguardo nascosto da un paio di occhiali da sole e, di nuovo: «No, no… e dire che allora…».

“Me pare Slevin”, penso.

«…e dire che allora  – riprende d’un fiato – tutto questo aveva un senso. Tutto questo schierarsi, questa divisione. Ai lati il male: ovunque, per le strade, nelle piazze, insomma come adesso. Al centro il 766. Anzi più precisamente: al centro, lui – indicando con la solita lentezza una sagoma davanti a noi, chiusa e sfocata nella folla indifferente e spenta – l’eroe. Saliva, arrivava, sorrideva e con la mano sulla tua spalla ti proteggeva. Salivi sul 766 con l’ansia e la paura, scendevi con il coraggio di chi crede a una speranza».

«Ma chi – domando sbigottito e scettico – quello là? – voltando lo sguardo nel punto in cui l’indice punta – quello con la panzetta che gli esce da una maglietta troppo piccola e attillata? Con la schiena fatta a punto interrogativo? Quello che a malapena si regge alla maniglia? Quello con quella maschera? Vabbè, insomma, quello vestito da Batman?». La risata del tizio accanto a me è roca e sa di fumo e catarro; si spegne in un serio colpo di tosse. «Quello. Sì, quello. Quello – indica per farmi di nuovo voltare la testa – non è vestito da Batman. Quello è Batman».

Tempo di voltarmi, sbigottito ma anche divertito, che Batman (cioè insomma, quello vestito da Batman) non c’è più. Volatilizzato, scomparso, eclissa… ah no, eccolo, è sceso a Piramide, lo vedo dal finestrino: inciampa in una pozzanghera, sempre composto e un po’ storto, e cerca di asciugarsi lo stivale con i lembi un po’ umidicci e sfilacciati della nera mantella.

«Ma scusi…» cerco di obiettare al tipo che ha appena solennemente concluso la frase, prima di accorgermi che il tipo non c’è più. Volatilizzato, scomparso, eclissato: lui per davvero.

Se, vabbè. Quello…
Quello era solo un matto vestito da Batman…

…o no?

[continua…]

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di
Federico Cirillo

 

Sveglia, suona, buco in pancia… Uhm di nuovo lunedì. Vabbè, potrebbe andar peggio… ma chi cazzo l’ha impostata ‘sta suoneria? 

Scendo, moka, radio, canna… Vabbè, poteva andar peggio, potevo avere Gigi D’Alessio… Caffè. 

«Buongiorno Fede, caffè finito, sorry! I.» un post-it profetico, dono di “coinquilinaggio”.
Caffè, finito. Caffè. Finito. Sorry? Caaazzo. È finito il caffè… vabbè, calma, può sempre andar peggio.

Colazione veloce, camicia, banana – la mangio qua stavolta (vedi maènabanana) – lenti, borsa, cuffie, giù, di corsa: il 23.
8.10: mi rode il culo, ok, ma potrebbe andar peggio.
8.15: non passa… sta andando peggio.
8.37: eccolo! Vedi? Poteva anda’ pure peggio su. 

Gente, folla, cuffie, musica: Sveglia, suona, buco in panciabasta! Mo la cancello. Quiete… 

«Aoh – più forte – Aoh – ancora – AOHHHH!». La mano pesante che sbatte sulla mia spalla destra costringe il mio busto ad andare in sintonia con la brusca fermata che il 23 fa per non entrare in una smart inchiodatasi sul lungotevere. Mi giro e… cazzo la pelata, quella pelata! Mo sta a andando decisamente peggio e sto ancora a Trilussa… «Ah – dico – buongiorno eh…» con sguardo di chi ancora conserva una ferita difficilmente sanabile (vedi, Stanno dappertutto). Sotto la pelata, la bocca si muove ma non emette suono. È diventato muto! – penso con giubilo – Ah no… e con rassegnazione tolgo le cuffie…
«…che mi sono sbagliato e pioveva!»
«Cosa? Avevo le…» provo, per ristabilire connessione umana.
«Dicevo: tieni questo è l’ombrello tuo, che l’altra volta mi sono… sbagliato, insomma, e poi pioveva!».
«Grazie eh!» ironizzo.
«Prego figurati» senza cogliere.

«Hai visto che mito, coso là, Ronald Trump!» esordisce gonfiando il petto e scandendo nome e cognome.
Qualcuno si sposta, qualche altro si gira, una ragazza con la kefiah alza gli occhi al cielo e quasi si morde le mani per non entrare, saggiamente, nella questione.

«Donald…» lo correggo. «Sti cazzi, è uguale» mi fa notare ridacchiando. «Era ora che si svegliassero là, che usassero un po’ de pugno duro co sti cinesi, coreani o quello che so, così magari anche noi iniziamo a prende’ spunto e magari arriviamo ad alzare un bel muro per non far entrare più nessuno che viene qua a… – il mio sguardo tra l’interrogativo e l’incazzato lo blocca per un attimo, ma poi, come trapassato da una scarica di qualunquismo all’ennesima potenza esulta – rubarci il lavoro! Che poi possibile che tutte le attività qua chiudono pe’ colpa di ‘sti cazzo di cinesi? Sai quanti sono? Secondo gli ultimi dati so’ tipo 1 milione! ‘cazzo di cinesi».

«Ah sì? li ha contati?» chiedo distratto cercando di reggermi ad un seggiolino occupato da un’ orientale.
«Mica io – risponde di getto – quelli dei dati. 1 milione, ti rendi conto? Ma che ci vengono a fa’ qui? Lo so io lo so. Perché lì da loro non possono aprire negozi chè tutto è di tutti e devi dare i soldi al governo e invece qui si fanno i cazzi loro. Pensa che a scuola di mia figlia sono tutti cinesi. Vabbè la maggior parte. Ah guarda qua – e, concitato, estrae dal portafoglio una carta A4 stampata a colori con l’immagine di lui che tiene per mano una bambina dai tratti asiatici – eccola qua mia figlia, caruccia ve’?».

«Ma è cine…» azzardo io.
«Giapponese: un’altra razza, un’altra cultura…ma che ne sai? Si chiama Anna, carina è? L’abbiamo adottata che c’aveva due anni, adesso ne ha 8, è una bellezza, bella de papà» quasi l’accarezza con gli occhi: ma allora prova dei sentimenti! «Ah che poi – spezzando l’incantesimo – porella, ha visto l’ombrello tuo, ce se è messa a gioca’ e me sa l’ha mezzo spezzato, s’apre male… vabbè so’ bambini. Oh fermata mia: forza Trump! Alla prossima!» e scende rinfilandosi il foglio A4 in tasca.

Alla prossima? Ma anche no. M’ha pure rotto l’ombrello… cazzo de cine… vabbè coreani…o giapponesi?
Sceso a Sforza Pallavicini, prima di buttarlo e cercando inutilmente di aprirlo, leggo: MADE IN CHINA stampato sul manico.

Vabbè potrebbe andare peggio… potrebbe piovere…e un tuono in lontananza, sottolinea il mio verso.

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di
Federico Cirillo

 

«Buongiorno gentile utente. L’opzione LTE non è stata rinnovata per credito insufficiente…» 

 Uhm, buongiorno un cazzo, penso, è pure tardi! 

Insomma il classico lunedì. 8.10 e te stai ancora a lava’ i denti con lo spazzolino elettrico che ogni tanto spruzza dentifricio sul colletto della camicia. «Tardi! Tardi! TARDI CAZZO!». Fanculo la colazione, banana take away e via verso Roma Nord.  

Eccolo, il 23. Preso: ce la faccio ed è anche quasi vuoto o mezzo pieno, insomma c’è spazio per me e la banana, salvifica colazione al sapor di banandina. Sguardo intorno indifferente.
La tipa carina davanti ascolta musica e non mi guarda, il tipo di schiena… è di schiena, ai lati un ciccione dorme in piedi appoggiando la testa all’obliteratrice («TITOLO DI VIAGGIO NON VALIDO»), ottimo… mordo… 

«Aspetta fermate così…» un flash mi blocca in quella posizione buffa: collo proteso in avanti che punta verso il basso, occhiali da sole appoggiati sulla fronte che, causa forza di gravità e stiramento improvviso di sopracciglia, mi ricadono sugli occhi. Un enorme punto interrogativo nel cervello… «mmma ch’stafffàm?» (Provateci voi con la colazione in bocca).  

«No, che pezza, l’ho fatta col flash. Vabbè la rifaccio, fermo…» secondo flash che parte nuovamente dal medesimo smartphone nascosto in una cover al silicone che lo dovrebbe far sembrare un coniglio, ma che ad occhio malizioso appare più come un sex toy. «Cheppalle non l’ho tolto» si lamenta la tipetta alzando al cielo lo sguardo scocciato che spicca da sotto una frangia a tendina scalata viola, stesso colore delle sopracciglia tatuate «è che ce l’ho da poco», si giustifica «devo capi come funzionano ‘ste applicazioni nuove» esclama mentre l’unghia, palese monumento alla più abietta e kitsch nails art, fatta di fiorellini al gel dal colore brillante, sbatte ripetutamente contro lo schermo dell’inerme technoggetto 

«Ssshimmà – e mastica! – che stai a fa scusa? Perché la foto?»  

«Ah quella? No ti spiego… sono una food blogger e faccio foto ai cibi! Oooh, ecco ho tolto il flash, rimettiti in posa pleeease». 

«In posa? Food Blogger? Please?» mi giro in cerca di sguardi solidali, ma giustamente tutto intorno a me si è creato il classico alone da ah guarda, sbrigatela te, a me manco me piace la banana 

«Ma poi scusa, food blog de che? Ma è ‘na banana! Di solito non si fanno foto a piatti elaborati, che so, specialità tipiche… cioè, questa è ‘na banana» e me la stai a fa’ pure suda’.  

«Si vabbè che c’entra – mi incalza lei – io ho iniziato ieri la mia attività di microblogging, sto girando a piedi e sei l’unica persona che sta mangiando in questo momento: ergo rimettite in posa come se stessi mangiando la banana e fermati un secondo, tanto è questione di un click che ho capito come funziona ‘st’applicazione».
«La fotocamera?» chiedo stupito. 
«Apparte che è Instagram, e so come funziona, solo che ‘sto smart è nuovo e non riuscivo a toglie il flash. Dai mo’ rimettite in posa che poi scegliamo il filtro insieme, ti va?». Che culo… 

Me dovevo sveglia prima, fottuto karma, penso. L’odore di banana sempre più pungente, mette a disagio più di qualcuno nel 23, tanto che già nei pressi di Marmorata Vanvitelli, inizio a percepire i primi sguardi d’odio che mi incitano a finire in fretta la colazione. «Vabbè – secondo morso – mmmassoloh p’rchè ho ffame».  

«Bravo! Fermo così! – è felice – fatta!! Nooo è venuta mossa, la rifacciamo?? Fermo, fermo, fermo… ma che fai? Ecco bravo l’hai fatta cade’ e mo’ che fotografo?». Benedetto sia il traffico di Lungotevere Aventino e gli scossoni del bus…certo mo’ la colazione è andata… «ma scusami – le chiedo mentre raccolgo la banana che lambisce le scarpe di una coppia tedesca in visita al Vaticano – come mai ‘st’idea del food blog? Come si chiama poi?».  

«Che? Ah sì – tra lo svogliato, lo scazzato e l’assente mentre con l’indice smaltato cerca il miglior filtro (ma non lo dovevamo sceglie insieme?) per rendere interessante una posa che d’interessante non ha nemmeno la parvenza – si chiama ’cettaAppetitosa, figo ve’?».  

Lo sguardo, alla ricerca di consensi, si stacca dallo schermo e con il bagliore luminoso che riflettono i cristalli liquidi che rendono il verde degli occhi quasi artefatto, tipo menta annacquata, mi guarda speranzosa… «’cetta? Volevi di’ “ri-cetta”?».

Intorno qualcuno sorride sotto il cappello, qualcuno invece si gira infastidito, qualcun altro ascolta musica e non ci caga di pezza, il ciccione ha cambiato posizione ma dorme ancora (chissà se scenderà?): Lungotevere Tebaldi, siamo bloccati tra traffico e un vigile troppo solo e impaurito per essere credibile. 

«Vabbè sì, doveva esse’ ricetta – riprende lei come se avesse ritrovato il filo dei pensieri dopo aver lasciato andare la speranza di approvazione che si reggeva su un labile filo – però ho sbagliato a digitare con il dito, ho premuto i primi tasti con l’unghia e non mi ha riconosciuto le prime lettere. Però considera che è una svolta, perché io mi chiamo Concetta, vabbè detta Concy, ma alcune mi chiamano anche ‘Cettina o Cetta… quindi cioè, da paura no?».

Da paura? No, mi ripeto in testa. 

Trattenendo il sarcasmo e le ironie nello stesso equilibrio zen che mantiene il ciccione dormiente, nell’assumere un’ aria pseudo impegnata, nei pressi di Largo Fiorentini, provo a giocarmi l’ultima carta per non veder pubblicata la foto che già immagino ricca di hashtag quali #maènaBanana #BanaBus #Bananatime: «ma scusa, stiamo a Roma, una delle città più belle del mondo, il 23 poi passa in posti bellissimi, attraversa il Tevere, si affaccia su Castel Sant’Angelo, s’inchina all’imperiosa Piramide Cestia, si insinua per poi sottrarsi all’abbraccio di San Pietro, lasciandosi alle spalle Via della Conciliazione… e te fai le foto a ‘na banana?»… poesia, penso.  

«Embè – con una vocetta che, acuta, frantuma le immagini liriche che avevo cercato di creare a parole – chemmefrega, faccio la food blogger io, mica la travel blogger, bella zì grazie. Ah ti pubblico col Valencia, fa più social» e scende a Traspontina.   

Mo’ divento ‘n’hashtag? penso «Ma che ore so’? – esclamo con i rimasugli di banana ancora in mano, chiusi in un fazzoletto – Cazzo è tardi!». Scendo, e il ciccione dorme ancora. 

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di
Federico Cirillo

 

I colori dell’autunno in città: alzi gli occhi, grigio; abbassi gli occhi, grigio.
Poi cambia fuso orario e alle 18 cambiano i colori dell’autunno: è notte e il 23 non passa. È notte, il 23 non passa e piove.

Ed ecco, è già pallido, sepolcrale autunnoLa nebbia agli irti colli, piovigginando salel’ombrello a cui tendevi la pargoletta mano… vabbè, apriamolo va.

Stormi di bimbi, come esuli pensieri, saltano da una pozzanghera all’altra, sfiorando l’immagine grinzosa e tremolante di un Castel Sant’Angelo che lì si specchia. Mamme sbraitanti, ripetono il loro verso. Si ode il 23 far breccia.

Ma dove ve ne andate, povere foglie gialle come farfalle spensierate?  Autunno mansueto, io mi posseggo e piego alle tue acque a bermi il cielo, Respiro il fresco che mi lascia il colore del… «’tacci loro aoh, stanno dappertutto» – eh no, questa era meno poetica – «Dappertutto!» ribadisce, gracchiando mentre si scrolla di dosso le ultime gocce di brina dalla pelata madida di acqua e sudore con la manica di un giubbino nero di pelle.
Se parla delle foglie gialle come farfalle, o mi legge nella testa o è Trilussa, penso. «Dice le foglie autunnali?» azzardo con aria ancora lirica.
«Ma che cazzo stai a di’?» risponde con tono meno lirico. «Quelli, i negri, gli estracomunitari, nun senti che casino che stanno a fa’?» agitando il pollice della mano destra verso il nugolo di gente alle sue spalle. Tre bimbi sinti in fondo all’autobus, ancora affannati dalle corse nelle pozzanghere, provano a svincolarsi dalle mani sicure e vigili delle due mamme.

«Ma so bam…» provo ingenuamente a ribattere. «Mo’ so bambini, poi crescono… crescessero al paese loro!» risponde lui anticipando ogni mia mossa con aria e fare di chi la sa lunga.

Il 23 taglia il tragitto, la pioggia insiste, il tipo anche. Si libera un posto doppio, mi siedo, poggio l’ombrello accanto alla borsa. «Che poi – continua sedendosi accanto a me, con fare più accomodante ed amichevole – dico io no, già c’abbiamo tanti problemi noi qui in Italia, ce li dobbiamo pure porta’ da fuori? Questi vengono, stru… stuprano, rubano e fanno quello che je pare».
«Ma quei bambini lì dice? – provo a stemperare con la mia tipica vena humor – Ma non credo che…»
«e nun cazzeggia’! Sto a parla’ serio!» mi riporta all’ordine con discrezione il tipo: altero come un Francisco Franco, rigido quanto un busto di mussolinana memoria, aperto al dialogo quasi quanto un Erdogan. «Stiamo tutti co’ le pezze ar culo e li facciamo entra’. Ci starebbe da alza’ un muro e fa passa’ solo quelli che servono» non fa una piega. Il tizio, non il ragionamento.
«Ma poi è tutto un business sai? – cambia tono diventando improvvisamente molto keynesiano, guardandomi fisso come a cercare un appoggio etico – Vengono, sbarcano, si mettono nelle strutture d’accoglienza e poi… je danno 30 euro al giorno! Al giorno! 30! E poi girano con l’iphone – che fine ha fatto lo stile keynesiano? – macchenesai te? Ma te sembra normale? Ce rubano il lavoro, ce rubano le donne, ce rubano le case… tutto si rubano. Li trovi ovunque, stanno dappertutto, stanno» e mentre ripete questo mantra, dello “stanno dappertutto, stanno scende a Vanvitelli e se ne va.

Che tipo – penso –  l’elogio al qualunquismo insomma. Che poi continua a bofonchiare da solo, anche sotto l’ombrello. Buffo, è simile al mio. Sicuro l’avrà comprato fuori la metro pure lui.

FERMATA – Via Ostiense Matteucci: e piove ancora. Sarà lirico quanto ve pare st’autunno però checcazzo pure la poesia m’ha tolto quell’Hitler de Testaccio. Vabbè, si scende. Cuffie, borsa a tracolla e ombrell… dove cazzo? NO! ‘tacci sua altro che uguale… era il mio!! Ma guarda che testa de…

Non faccio in tempo a scendere a Mercati Generali che, aperte le porte, nel buio dell’autunno, mi si para davanti tra il 23 e il marciapiede, un porta-ombrelli umano: scuro quasi come le 19 di sera, i denti bianchi brillano in un sorriso, i capelli bagnati incollati sulla fronte, alto quanto gli ombrelli che tiene appesi tra braccia e mani. «Ombrello amigo? – dice sorridendomi e lanciando uno sguardo verso la pioggia – Ombrello? 10 euro».

Meno male – penso – state dappertutto.

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di

Federico Cirillo

 

Cinque: i minuti di tempo che ci impieghi a capire il perché la sveglia abbia deciso di suonare alle 7.00. Intanto si fanno le 7.05 e suona la seconda; la seconda di dodici che hai impostato fino alle 8.00…

Tempo un’ora e sei sbattuto sul ciglio dell’Ostiense in attesa del 23, senza minimamente ricordarti tutte le azioni che ti hanno portato alla fermata. «Ti ricordi sì che domani l’ufficio si sposta in Prati…?». Mortaccivostra: unica eco che aleggia sovrana in memoria di me nel vecchio ufficio, a Piramide.

10 minuti.
A piedi.

Quindici fermate in un tragitto che spacca a metà Testaccio dopo esser stato vomitato da Via Ostiense, saluta Piramide, lambisce il biondo – vabbè più giallo melma – Tevere, si lascia accarezzare dal Vaticano manco fosse un minorenne, scavalca il fiume e sgorga in Prati appunto…e io sto ancora alla terza fermata e già non c’è posto.

«Assurdo comunque…» sento borbottare dietro di me; un «non ce se crede…» mi si staglia sul collo, tra la barba e la nuca, al sapore acido di sigaretta spenta in fretta e cappuccino-post-rutto. L’operazione del girarmi, resa complicata dall’ammasso di corpi inscatolati nel mezzo, mi dà il tempo di elaborare una frase lucida nonostante l’orario e il rodimento di culo costante:
«Purtroppo gli autobus a Roma…»
«Ma no, no ma quale autobus! Sticazzi dell’autobus!» quasi mi urla in faccia il giovane dietro di me «te pare possibile che in Corea le donne non possono partorí?»

Il machecazzo! effettua un veloce edulcorarsi fino a farmi emettere un più lieve e interdetto «Come scusa?».

«Eh sì sì, hai capito bene» mi incalza strofinandosi con le due dita delle mano destra degli irsuti baffi che fanno da incipit a un’incolta barba riccioluta «in Corea, mo’ non me ricordo quale delle due, se vuoi partorí devi lascià il lavoro o viceversa.»

Il «viceversa» intriga, lo ammetto, ma lascio scorrere, anche perché basta un sussulto del bus a omaggiare il traffico del Lungotevere, a farlo trasalire in un: «che poi è più assurda la situazione a Nea Kavala…pare de stà dentro una trappola, tutti ammassati, morti di freddo…ma figurati l’Europa…».

«Nea che?» mi lascio scappare.

«No No, non Ke, Ka… Nea Kavala, il campo profughi a Nord della Grecia…ma non li leggi i giornali?» mi bacchetta il tipo mostrandomi una copia arrotolata di Internazionale e per poco, barcollando per la scarsa stabilità del mezzo, non me lo ritrovo con i suoi occhiali a montatura squadrata e nera a sbattere sul mio naso. «Che poi lo capisco» continua, senza attendere una risposta «non è che uno li può accogliere tutti, ma almeno la dignità, cazzo, la dignità dell’essere umano… prendi coso là, quello colombiano che ha fatto pace con la Faac…coso dai…»

«Santos?» gli chiedo, evitando di fargli notare che mai una ditta di impianti automatici aveva litigato con la Colombia, comprendendo che si riferisse, invece, alle Farc

«Ecco sì quello» ammette conciliante mentre tira su con il naso «quello ha dimostrato intelligenza e umanità! Grazie che je danno l’Osc…il Nobel, scusa.»

«Beh effettivamente è stato notevole…»

«Mica solo notevole!!» mica me fa finí de parlà… «tiè guarda!» aprendomi una pagina del settimanale che ritrae una foto ripresa dai festeggiamenti delle Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane per l’accordo raggiunto «guarda come sò tutti felici pe sta cosa, era ora, era. Noi siamo bravi a giudica…poi quando se tratta de fà…ce magnano in testa pure i colombiani. Prendi Grillo no…la Raggi…che stai a ffà? Niente…dici tu…invece no, stai a ffà» scandisce con vigore «e se ne rendono conto pure qua» mentre sfoglia ardentemente il giornale alla ricerca del servizio citato «che dice che sembra che non fà, ma invece fà e all’estero lo sanno…noi invece non sappiamo manco più che vor dí de sinistra

Cerco di approfittare del flusso della gente che sale e si inserisce tra noi due verso Lungotevere De’Cenci, ma niente, lui si svincola, sguiscia rapido e mi si ripropone davanti:

«perché è scomparsa la sinistra, lo sai si? L’hai più trovata te? Eh no…lo dice pure Harris, tiè, qua su L’Internazionale…è tutta ‘na “pasokificazione” la nostra…» guardandomi come a scrutare la mia reazione a quel termine e, al contempo, a cercare di ricordarsi se l’ha detta giusta.

Cinque. Le fermate che ancora mancano. Mortaccivostra, l’eco che ancora rimbomba, mai come ora più forte, nell’ufficio vecchio a Piramide. Blu, la camicia di flanella a quadri del tizio:

«che poi volemo parlà de quanto è contraddittorio l’Iraq? Lo dice L’Internazionale eh, e inoltre…».

Al che capisco il gioco. A tre fermate dalla salvezza, capisco il meccanismo. Ripasso a memoria l’indice di Internazionale che, per sommi capi, avevo spizzato su internet qualche giorno prima e gioco il jolly:

«ma invece della legge elettorale che ne pensi? Cioè del casino che c’è stato coi franchi tiratori dico?» panico.

Il tipo si blocca tra un «conflitto siriano» e un «Ali Bongo rieletto in Gabon». Gli occhi si fanno piccoli dietro le lenti, la mano che stringe il giornale si inumidisce, assumendo di getto, sulle dita, lo stesso colorito della copertina che intanto stinge. Riflette, pensa, rimugina e cerca di ricordare…

«Largo Fiorentini – fermata Fiorentini»: lo sguardo torna a brillare, rapido, scaltro e veloce, afferra tutto il suo coraggio e, urtando tra la gente, prima di scendere, urla a mo’ di mantra indiano:

«Bilancia, ti sei liberata di un irritante demone…Cancro, lasciati entusiasmare e trasformare…Acquario, aspettati un sogno profetico…».

Ma niente, Brezsny stavolta non lo può salvare. L’ho fregato: del referendum non ne parlava L’Internazionale di oggi. E scendo anche io, dopo Traspontina.