di Mattia Brambilla
Illustrazione di Eleonora Loiodice
«E tu l’hai mai visto un UFO?»
Disse raspando su col naso una pallottola di catarro e catrame.
«Non credo».
«Che vuol dire non credo? O li hai visti o non li hai visti».
L’intercity ciondolò affannosamente e si fermò.
«Non li ho mai visti, allora».
«Ma ci credi?»
«Non più di quanto creda agli angeli o a Dio».
Il vecchio stralunato avvicinò l’indice alle labbra come a dire di tacere: un leggero sibilo schiumò dalla bocca. Si guardò intorno circospetto, poi s’avvicinò al mio orecchio: «Non dire nulla, ché ti possono sentire».
«Gli angeli?»
«No,» aveva gli occhi allucinati, come due palle da pingpong, «gli alieni,» ed indicò al di là del soffitto.
L’avevo incontrato per caso alla stazione centrale. Era strafatto nei bagni e strisciava la sua pelle grinzosa di vecchio hippy sulle piastrelle lucide vetroresinate.
«Sta bene?»
«Mi stanno cercando».
«Chi?»
E aveva attaccato un delirio paranoide sulle cospirazioni governative, il Deep State, l’Arcangelo Gabriele, i rosacrociani, le sette aliene e sette alieni che l’avevano tratto con un raggio gravitazionale dal bel boschetto dove stava rintanato a fumare erba e a calarsi funghetti per trapanargli il cervello e giocherellare col suo budello.
«Lo fanno spesso, sai? Non solo con me, eh, è una cosa che fanno a tanti. C’è anche un sito,» e tirò fuori un cellulare, «guarda, siamo tutti abductees, è in inglese, lo sai l’inglese? Ma sì, sei giovane, guarda, tutti rapiti e scrivono le loro esperienze. Ti mando il link».
M’aveva seguito come un cane randagio che aveva trovato cibo, senza chiedere spiegazioni né indicazioni.
«Loro sanno tutto. Hanno sonde e agenti. Anche i cellulari,» e agitò il suo smartphone.
«Anche quelli?»
«Anche quelli».
Si guardò di nuovo intorno, strizzando gli occhi e nascondendo i denti marci dietro a un pugno stretto. «Anche questi qui… Tutti agenti!»
«Tutti?»
Mi guardò fisso e annuì con gravità, sussurrando: «Alieni».
Passò il controllore nel suo vestito stretto da impiegatuccio imbalsamato e chiese i biglietti.
Guardò me e il vecchio come si guardano due reietti: «Per gli animali c’è un supplemento». «Certamente» pagai i biglietti e il sovrapprezzo e quello sparì nel defilarsi dei sedili.
«Secondo me qui sono tutti alieni».
«E come fai a dirlo?»
«Lo si intuisce subito dalla postura, dalla flaccidità della pelle, dal taglio dei capelli, soprattutto dai capelli o dai cappelli, sai che hanno la pelle degli abductees, gliela strappano cellula a cellula, come delle bucce di banane, e se le infilano aprendo un buco in testa e mettendoci dentro le gambe come costumi di carnevale umani e se ne vanno in giro così per spaventare e per mimetizzarsi. La cucitura è quella che chiude e i capelli servono a nascondere la cicatrice. E poi hanno gli occhi strani, insolitamente anfibi».
«E io non potrei essere un alieno?».
Rise gracchiando come un querulo corvo: «Ma tu sei pelato!» Poi si indicò il cranio psoriasico: «I capelli, la cicatrice».
Gli altri passeggeri ci lanciavano occhiatacce gelide, con l’ordinaria ostilità che si riserva a compagni di viaggio indesideratamente fastidiosi. Una donna s’era presa le sue valige e s’era inoltrata per il vagone, giù, verso un’altra carrozza. Il vecchio la guardò passare e agitando le braccia mi sussurrò: «abbiamo beccato la marziana,» e poi, rivolto alla donna: «Via, sciò, in fondo al treno!» e rise ancora con una risata che partiva dai polmoni e finiva su, nello spazio profondo.
«E se ti dicessi» m’accostai a lui rompendo ogni barriera d’intimità «che anche io sono un alieno?» «Impossibile, impossibile,» continuava a ridere e ad agitarsi, «non hai la cucitura».
«È perché ci infiliamo dalla bocca».
«E no, caro mio, li ho visti con questi occhi: aprono un buco e si infilano dalla testa».
«Come vuoi tu».
L’intercity cigolò nuovamente e lo speaker annunciò la fermata.
«Alla prossima scendiamo» dissi.
«Va bene, va bene, alieno» e continuò a ridere sguaiatamente.
Il passeggero davanti a noi si voltò con uno sguardo ringhiante, mostrando canini aguzzi: «Oh, basta! Non se ne può più! Metta una museruola al suo umano».
«Scusi, signore, è che l’ho appena trovato, non è ancora addestrato».
Il vecchio ci guardava sbalordito, mentre il passeggero sorrise e accennò a una tregua: «È molto bello da parte sua prendersi cura di queste povere bestiole». Gli carezzò la testa, lo chiamò cucciolo, e chiese: «È di razza?»
«Caucasica, credo, ma dovrò fargli il pedigree».
«Ha già un chip?»
«Ad ascoltare lui sì».
«Bene, bene, così non scappa».
Lo speaker annunciò la fermata: «Il treno intercity Milano Centrale-Epsilon Eridani Prime è in arrivo alla stazione interspaziale Xenophor-9 con un ritardo annunciato di 16 minuti. Si ricorda ai gentili viaggiatori di prendere tutti gli oggetti personali e di lasciare pulito il posto a sedere. Grazie per la collaborazione».
Presi il mio umano e scesi dal treno.
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