di
Federico Cirillo
Illustrazione di Ponz
– Un eroe non è più coraggioso di una persona comune, ma è coraggioso cinque minuti più a lungo.
– Sventurata la terra che ha bisogno di eroi.
Non era certo la prima volta che prendevo il 766 a quell’ora, per tornare a casa dal lavoro.
Il ritmo di tutti i giorni imponeva al mondo una cadenza costante e ben descritta dal movimento sussultorio di un autobus che, ciclicamente, conduceva con distacco irreale le persone alle loro case, alle loro vite, ai loro destini. Dentro il 766 un glorioso e silenzioso lamento di animi contorti, di menti in stand-by e di sguardi fissi in attesa che le porte si spalancassero nuovamente.
Fuori, la vita: con tutti i suoi difetti, i suoi nei e i suoi effimeri momenti di breve estasi.
Al centro il 766, ai lati la realtà.
Quello spazio divideva me e i miei taciturni e temporanei compagni di viaggio da ciò che la realtà ci offriva. Roma non era mai stata così vera e tetra fuori dal 766. La luce al neon, fredda e gialla, che illuminava a tratti i volti di ognuno di noi, metteva in risalto le espressioni stanche e rassegnate di chi non ha più illusioni, di chi ha solo santi contro cui urlare e più nessun eroe.
Fuori, per strada, sulla via della vita, il blu acceso e assordante delle ambulanze; il suono metallico e abbagliante delle sirene della polizia. L’intenso, ammaliante, ipnotizzante ripetersi dell’allarme dei vigili del fuoco. Panico e indifferenza. Stand-by quotidiano nel limbo del 766: ultima passerella di uno stop and go pronto a rianimarsi.
«E dire che allora…» sento sussurrare al mio fianco.
Mi risveglio dal torpore dei miei pensieri e, come a riacciuffare un filo dissipato di sinapsi, mi concentro e mi giro con lentezza.
«E dire che allora…» torna a ripetermi, girando il suo naso su di me, con la stessa identica mia lentezza.
«Ah sì, certo – mi riprendo di scatto – allora… le venti e zero ott… vabbè le otto e dieci insomma».
Il tizio accanto a me sorride. Scuote la testa abbassando lo sguardo nascosto da un paio di occhiali da sole e, di nuovo: «No, no… e dire che allora…».
“Me pare Slevin”, penso.
«…e dire che allora – riprende d’un fiato – tutto questo aveva un senso. Tutto questo schierarsi, questa divisione. Ai lati il male: ovunque, per le strade, nelle piazze, insomma come adesso. Al centro il 766. Anzi più precisamente: al centro, lui – indicando con la solita lentezza una sagoma davanti a noi, chiusa e sfocata nella folla indifferente e spenta – l’eroe. Saliva, arrivava, sorrideva e con la mano sulla tua spalla ti proteggeva. Salivi sul 766 con l’ansia e la paura, scendevi con il coraggio di chi crede a una speranza».
«Ma chi – domando sbigottito e scettico – quello là? – voltando lo sguardo nel punto in cui l’indice punta – quello con la panzetta che gli esce da una maglietta troppo piccola e attillata? Con la schiena fatta a punto interrogativo? Quello che a malapena si regge alla maniglia? Quello con quella maschera? Vabbè, insomma, quello vestito da Batman?». La risata del tizio accanto a me è roca e sa di fumo e catarro; si spegne in un serio colpo di tosse. «Quello. Sì, quello. Quello – indica per farmi di nuovo voltare la testa – non è vestito da Batman. Quello è Batman».
Tempo di voltarmi, sbigottito ma anche divertito, che Batman (cioè insomma, quello vestito da Batman) non c’è più. Volatilizzato, scomparso, eclissa… ah no, eccolo, è sceso a Piramide, lo vedo dal finestrino: inciampa in una pozzanghera, sempre composto e un po’ storto, e cerca di asciugarsi lo stivale con i lembi un po’ umidicci e sfilacciati della nera mantella.
«Ma scusi…» cerco di obiettare al tipo che ha appena solennemente concluso la frase, prima di accorgermi che il tipo non c’è più. Volatilizzato, scomparso, eclissato: lui per davvero.
Se, vabbè. Quello…
Quello era solo un matto vestito da Batman…
…o no?