di
Gualtiero Titta
Capitolo III
È mattina presto, i cancelli della fermata cigolano e riaprono. La pioggia bagna le scale più di quanto dovrebbe. Ricomincia tutto, nessuno parlerà più di quel suicidio.
La banchina accoglie le prime persone, ma il treno non arriva, lo schermo elettronico non funziona. L’uomo della metro dorme ancora, si sveglia solo quando la ressa diventa quella dei giorni peggiori. È finito lo spazio anche per girarsi, risalire e tornare a casa. Del treno nessuna traccia, mentre le persone si moltiplicano. La sigaretta consumata è ancora lì, accanto al cartone, come a testimoniargli che quello che è successo non può essere ignorato. L’uomo della metro si fa piccolo nel suo angolo, si guarda intorno. Cerca quell’ombra della notte prima, ma non c’è nessuno, soltanto centinaia di sconosciuti in attesa di iniziare la giornata.
L’orologio segna quasi le otto. Lo sguardo cade allora su un gruppo di ragazzini diretti a scuola. Ridono, scherzano, due classi intere pronte ad andare chissà dove a perdere una mattinata. Lo zoo, il planetario, un museo pieno di sassi di un’altra epoca. Li osserva per capire se sia tra loro la prossima vittima, e il vento freddo soffia di nuovo. Sì, succederà ancora. Lo sa, i neon prossimi a spegnersi gli dicono tutto, ma quello che non ha capito è che oggi sarà peggio di ieri e domani peggio ancora.
Il controllore buono scende ad annunciare che il treno è in arrivo. Il vociare si dissolve in un sospiro di sollievo. L’uomo della metro lo guarda facendogli cenno di avvicinarsi. Il controllore lo raggiunge, svicolandosi tra le persone.
«Dormito bene, sì?»
«Fermate il treno.»
«Eh?»
«Fermate il treno.»
Dall’altro lato della banchina due ragazzine si tengono per mano accanto a una professoressa appena più alta di loro. Si scattano una foto con il cellulare, inchiodano quel momento sugli schermi di chi potrà solo ricordarle. Non importa di che colore abbiano gli occhi o i capelli, come passano i pomeriggi o cosa vorrebbero fare tra qualche anno. Non importa più, non è mai importato. Il treno è vicino, il macchinista è un altro, ma non cambierà nulla.
Le due ragazzine si guardano, poggiano la testa l’una sull’altra, ancora assonnate. Lasciano la professoressa indietro di qualche centimetro, poi di qualche passo. Il treno sbuca dalla galleria. Si muovono tutti verso la linea gialla, hanno aspettato troppo per non salire adesso. C’è chi spintona fingendo di essere spinto, chi guadagna spazio un millimetro alla volta. Il controllore lascia l’uomo della metro seduto, a ripetere di fermare il treno, e prova a calmare le persone. La luce si spegne, il treno si avvicina. Il controllore urla di stare calmi, le corse sono riprese, ne arriveranno altri, ma nessuno sembra capire. È il buio a cambiarli, a isolarli da qualsiasi altra cosa, a muovere tutti verso i binari. È il vento freddo a rendere ogni passo più pesante, impossibile da fermare.
L’uomo della metro vede qualcosa in mezzo alla folla. Qualcosa che si sposta senza lasciare traccia, senza farsi mai vedere. Si alza, prova a raggiungerlo, ma non c’è più tempo. Il vento freddo spinge le due ragazzine sui binari. Sembra sia stata la ressa, o che siano cadute da sole, saltate giù anche loro. Si guardano quasi senza sapere dove siano finite. La loro foto sul cellulare illumina il soffitto in cerca d’aiuto, dalla banchina. La gente non vede, il buio riempie gli occhi di tutti, nessuno può capire. Ogni urlo rimane soffocato, le ragazzine si abbracciano. Il treno frena, ma è troppo tardi.
La luce si riaccende. Nessuno sa cosa sia successo, sono solo sparite, scomparse. Il controllore buono si fa largo tra la folla, si avvicina ai binari, chiama i soccorsi, ma sarà inutile anche questo. Si gira verso l’uomo della metro, convinto di trovarlo nel suo angolo, ma sul vecchio cartone non c’è nessuno. È lì dietro, a pochi passi da lui, in mezzo al fiume di persone che lentamente si dissolve in preda al panico verso le scale d’uscita. Non sembra sapere neanche lui il perché del suo essere lì. Trema, stringe qualcosa fra le mani. Abbassa lo sguardo all’avvicinarsi del controllore.
«Che c’hai in mano?»
L’uomo della metro non risponde, svelando il cellulare delle ragazzine tra le dita.