di
Riccardo Marin
Il salto giù dal tram è il momento migliore del mio viaggio mattutino con Samuele; nei due secondi tra quando il mezzo si ferma e quando aprono le porte, tutti i giorni lo guardo e gli chiedo: «Pronto?»
Samu mi osserva, sorride e alza le braccia.
Tutti i giorni quando dobbiamo scendere appoggio un piede sulla banchina, lo prendo per i fianchi e con un colpo di reni lo alzo finché con le dita non tocca il tetto del tram. Quando lo rimetto a terra piega sempre un po’ le ginocchia come ha visto fare nei documentari delle missioni spaziali.
Questa mattina però non riesco a sollevarlo abbastanza. Arriva a pochi millimetri, scalcia, emette un gemito di disappunto e arriva al suolo senza piegare le ginocchia. Si gira di scatto. Segue la Luna allontanarsi per il viale. Poi guarda per terra, e io farfuglio qualcosa. Non siamo pronti a diventare grandi.
Gli accarezzo la testa, e vorrei che qualcuno accarezzasse la mia.
Questo è il momento in cui ci sciogliamo; la sua scuola è proprio davanti alla fermata, e io aspetto il tredici per andare al lavoro.
Aprono i cancelli. Gli sistemo il giubbino. Si guarda le scarpe.
«Ehi Samu devi proprio andare adesso, noi ci vediamo all’uscita.»
Non si muove.
«Samu, mi hai sentito?»
Resta silenzioso, col capo chino.
«Samu, tutto bene?»
Alza la testa. Mi guarda come fossi un palazzo altissimo e volesse capire se c’è altro oltre il tetto. Il cielo inizia tra i miei pochi capelli?
«Samu, dai, sarò qui quando esci.»
Sembra che stia organizzando delle lettere nella bocca per dirmi qualcosa.
Poi lo fa: «Promesso?»
Non si accontenterà di un sarcastico: Farò del mio meglio.
Io non mi accontentavo.
«Promesso»
Ma non è vero che posso prometterlo, è solo l’Amen delle mie preghiere interiori al Dio dei Padri: proteggici dalle coincidenze perse, dal traffico delle diciotto e dagli straordinari negli uffici pubblici.
Samu però sembra più soddisfatto. Torna a guardarsi i piedi.
«Papà» pausa. «Mi sistemi le scarpe?»
Ha i lacci slegati. Non posso aiutarlo; non ho mai imparato come si fa. Non mi hanno insegnato.
«Samu vai dentro e chiedilo alla Maestra Luisa, dai che altrimenti fai tardi.»
Mi guarda. Non ha lettere da organizzare.
«Va bene, ciao!». Corre verso il cancello.
Sgambetta scoordinato. Vorrei dirgli di non correre ma non ne ho il tempo.
Si pesta un laccio con il piede e perde l’equilibrio. Piccolo com’è sembra un sacco della spesa che cade, afflosciandosi sul cemento. Faccio per andare verso di lui ma si è già rialzato. Torna a correre, a gambe larghe per non inciampare, coi lacci che svolazzano. Ha per la testa la missione che gli ho affidato e vuole compierla, senza far caso al suo passo incerto, veloce come il vento.
E vorrei chiederglielo.
Chiedergli: che te ne fai di un padre che non sa allacciarsi le scarpe?