di Silvia Roncucci
Illustrazione di Redazione
I finestrini li apre subito dopo la fermata di Castellina.
È lì, infatti, che il fiume si torce in un’ampia serpentina e poi prende a scorrere dritto, parallelo alla ferrovia. È lì, lungo l’Elsa, che hanno costruito una pista pedonale. Dovevano usare i fondi per dei lavori alla piscina, risistemare il campo da tennis.
Chissà come sarebbe andata se i progetti iniziali si fossero realizzati.
Al mattino Fausto scorge le sagome di nonni energici che spingono carrozzine, ragazzi svogliati che marinano la scuola, qualche podista temerario. Non tanto quanto quelli che si avventurano quando il cielo si infuoca, i ragazzacci forse l’hanno fatta franca o forse no, e i nonni con i nipoti sono al caldo da un bel pezzo. È allora, sul treno delle diciannove e trenta, tra Castellina e Poggibonsi, direzione Firenze, che Fausto vede spuntare una macchia fosforescente tra le forme incerte degli alberi. Il giallo schizza fuori dai cespugli, percorre la pista, in un attimo il buio lo inghiotte.
E quando accade il suo petto s’infiamma più di quel che resta del cielo: una striscia rossa lontana che la sera spinge via a fatica.
«Può chiudere, per favore?» chiede un passeggero.
«Cosa?» risponde Fausto.
Si riscuote, non lo aveva visto, oggi è più fuori asse del solito.
«Controllore, qui si gela!» dice l’uomo stringendosi nel cappotto.
È lui, Fausto, il controllore.
Potrebbe imporsi. Decidere una buona volta di far corrispondere la personalità che porta dentro alla sua figura imponente. “Tirare fuori il carattere” come qualcuno gli chiedeva sempre di fare. Oppure trovare una scusa. Un motivo tecnico per cui oggi, sul treno delle diciannove e trenta, direzione Firenze, dove il fiume si raddrizza e corre gareggiando con la locomotrice, nonostante l’autunno precoce abbia scalzato l’estate, lui deve assolutamente e senza lasciare spazio a obiezioni, tenere i finestrini aperti.
Non può dire che lo fa perché il suo pensiero stupidamente magico lo ha convinto che l’essenza di chi corre tra gli alberi con indosso un giubbetto giallo possa raggiungerlo fin dentro quel vagone.
Che accade spesso. Che è il loro appuntamento inconsapevole. Almeno per chi corre.
Fausto, quella sua abitudine di allenarsi sempre alla stessa ora se la ricorda bene. Come i dettagli di ciò che indossava: le mille fasce scaldacollo tutte uguali, gli auricolari sempre in giro per casa, i pantaloni termici con le strisce fluorescenti che Fausto definiva «inaccettabili» al di fuori dell’allenamento. Lo diceva divertito, ricevendo in cambio un broncio falso e un «ciao, a dopo» che vorrebbe tanto valesse ancora.
Invece ingoia le parole e rapido tira giù i vetri.
Il passeggero bofonchia qualcosa, si slaccia un bottone del colletto e chiude gli occhi alla ricerca di un sonno che, da come strizza le palpebre e continua ad accavallare e scavallare le gambe, probabilmente non arriverà mai.
Prima che il treno superi il fiume, Fausto si siede vicino al finestrino per vedere se riesce a scorgere un puntino giallo. Fissa il buio, le dita infreddolite dal contatto con il vetro, chiama a raccolta le buone stelle. Forse è destino che non accada, si dice, perché chi aspetta verrà in altri luoghi e tempi.
Ma la realtà risucchia la carrozza in galleria e non c’è prodigio che tenga.
Appena fuori dal tunnel sente il posto che occupa insopportabilmente stretto. Le gambe: deve sgranchirle. Scatta in piedi, si scrocchia la schiena, si passa le mani ancora fresche sul viso. Percorre il treno da cima a fondo. Sui sedili riposa la scia dei pendolari del sabato sera. Studenti che risiedono in capo al mondo e troveranno le madri ad aspettarli ancora in piedi. Impiegati arresi a straordinari che non gli varranno niente oltre lo stipendio ordinario. Badanti assopite, l’animo finalmente alleggerito dal lusso di lasciarsi trasportare. Se non fosse che lo prenderebbero per matto, vorrebbe chiedergli di loro, le loro storie, le loro vite per uscire un attimo da se stesso.
Tornando indietro ritrova il passeggero burbero.
Il sonno si è finalmente posato su di lui. Il riposo lo ha trasfigurato, i tratti rilassati non gli somigliano. Chissà dov’è che scende, se quella momentanea perdita di controllo gli ha fatto saltare la fermata.
Fausto si siede nello stesso scompartimento.
Manca ancora un po’ ad arrivare a Firenze, è ora di occuparsi delle scartoffie. Lasciarsi schiaffeggiare da una burocrazia di caratteri neri su carta dalla grana grossa. Forse all’arrivo gli amici disertati per un’esistenza a due staranno seduti ad aspettarlo allo stesso tavolo del bar. Le ruote della bicicletta abbandonata in garage attenderanno di essere gonfiate. Le illusioni al finestrino, i nutrimenti a pane e chimere, sono davvero scese prima della galleria.
La frenata al capolinea scuote il vagone e desta il passeggero. L’uomo si stropiccia gli occhi e dondola verso l’uscita, confuso. Saluta Fausto mentre gli passa accanto. Non è più quello che si lamentava, né quello che dormiva. È un altro ancora.
Chissà se anche lui ha avuto la stessa impressione appena balenata nella testa di Fausto: loro due si assomigliano.
La statura, la camminata ondeggiante.
Quell’aria comune di non essersi ancora del tutto riscossi dal sonno.