di Simona Visciglia
Illustrazione di Paola Donnici
Sono un uomo metodico.
Noioso direbbe qualcun altro.
Sono sempre stato così.
Non perdo tempo, non giro per casa cercando le chiavi o mettendo in ordine le mie cose: tutto è dove dovrebbe essere.
Ho un piano preciso per vivere, basta attenersi a quello e mi avanza il tempo per rilassarmi, per il sudoku o per un buon libro. Sono un pendolare e sono un contabile, cos’altro avrei potuto fare?
E ho sempre calcolato ogni cosa, fino ad oggi.
Sono in tram, all’incirca a metà percorso tra il mio ufficio e la stazione.
Guardo fuori dal finestrino, senza mettere a fuoco: un’unica macchia indistinta per i miei occhi affaticati dopo ore al pc. Non penso a nulla in particolare, del resto so sempre cosa mi aspetta, non è necessario che mi soffermi a riflettere.
«Mi scusi…» una voce si insinua tra il mio silenzio interiore e il rumore monotono del tram che scivola liscio sulle rotaie, «Sa dirmi se ferma in piazza Libertà?».
Giro lo sguardo verso la persona che è seduta di fianco a me, una donna che sembra uscita da un romanzo di E. M. Forster, catapultata ai giorni nostri.
Indossa con disinvoltura un cappellino a cloche, color carta da zucchero; la gonna di lana dalla foggia un po’ sorpassata e il cappotto del colore delle campagne inglesi completano il quadro.
Ha uno strano accento, direi tedesco, per quel modo perentorio di scandire le parole.
Rimango un attimo interdetto, perché non so se il tram fermi in piazza Libertà: da anni il mio itinerario si snoda dalla stazione all’ufficio e viceversa, cosa ci sia prima o dopo è un mistero.
«Sa che non glielo so dire, signora – bofonchio – però, aspetti un attimo, diamo un’occhiata al percorso» e le indico il grafico con tutte le fermate, che fa bella mostra di sé appena sopra i nostri sedili.
E aggiungo, preso da un’immotivata agitazione: «Non viaggio mai su questa linea».
Mento spudoratamente, vergognandomi di questa falla nel mio sistema inoppugnabile di conoscenza del mondo.
Inforco gli occhiali e inizio a studiare il percorso.
Piazza Libertà, tre fermate dopo la stazione: «Sa che c’è, signora? Quasi quasi scendo a questa anche io». La città è sempre la stessa, eppure potrei definirmi uno straniero, ancor più della mia interlocutrice improvvisata.
«Facciamo un pezzo di strada insieme, se le fa piacere, se non le sembro inopportuno».
La donna mi sorride:
«Giovanotto, accetto volentieri e approfitto della sua gentilezza per chiederle un’altra cortesia. Le sembrerà strano, ma ho solo bisogno che mi indichi un palazzo rosso. Mi hanno dato questa informazione non sapendo che sono daltonica».
Emetto un uh come di fronte ad una rivelazione sensazionale e lei continua: «Per me le fragole sono verdi. E anche le ciliegie. Vedo tutto verde, un albero lo percepisco bene però. Con gli anni, poi, ho imparato a distinguere il verde dal viola, ma il palazzo rosso mi riesce un po’ complicato!».
Penso: invecchiando, un colore nuovo;
invecchiando, una strada nuova.
E se fosse tutto diverso, d’ora in avanti?
Nuovi colori, i viola diversi dai verdi. Fermate da scavalcare. Occasioni da prendere al volo.
«Ecco, guardi – torno in me, focalizzando lo sguardo sulla piazza e sull’unico edificio rosso-mattone – è senz’altro quello». La signora mi ringrazia con veemenza e, allontanandosi, mi fa cenno con la mano, scandendo un accorato Auf Wiedersehen!
E ora?
Continuo a pensare alla rivelazione di quel viola, che d’improvviso si è materializzato sulla retina della buffa donnina. Cammino, seguo la strada principale, ci sono negozietti di quartiere, un fornaio dalla cui porta fugge l’odore del pane caldo; un calzolaio, ne esistono ancora!
Una cartoleria che mi ricorda i tempi della scuola. Guardo tutto come se non avessi mai visto niente del genere prima d’ora, eppure nulla è cambiato e anche io, in fondo, non sono una persona diversa da quella che stamattina stava curva sul computer, nel solito ufficio grigio.
Grigio.
Che sia solo una questione di colori?
Proseguo ancora un po’: insegne luminose, voci indistinte, la sirena di un’ambulanza.
Arrivo alla fine del viale. All’improvviso mi sento uno stupido, mettermi a sragionare così.
Mi do uno scossone. Riacquisto la vista, la gente è la solita gente. Il traffico anche è il medesimo, stesso frastuono di motori. Persino il vento non ha un suono diverso.
A quest’ora avrei dovuto essere già a casa.
Che mi sarà saltato in testa di perdere tempo con i palazzi rossi, gli alberi viola o verdi, le fragole, le ciliegie, piazza Libertà.
La fermata del tram è proprio là, dall’altra parte della strada, direzione stazione. Faccio ancora in tempo a prendere il treno delle 18.50.
Finalmente mi sento di nuovo sicuro, in pace con me stesso e con il resto del mondo.
Che poi, il resto del mondo che sarà mai?
In pochi minuti rifaccio tutto il percorso al contrario e finalmente ecco la fermata FS, quella giusta. Attraverso di corsa l’atrio principale, fin sotto il display delle partenze.
Ecco, il treno è in ritardo!
Mi siedo sulla panchina, l’unica sul binario da cui partirò.
Ancora pochi minuti e tutto sarà come è sempre stato.
Sono un uomo metodico e noioso, ma sereno in fondo.
Mentre mi ripeto queste parole come un mantra rassicurante, mi si siede accanto una persona.
Non la guardo nemmeno, sono troppo impegnato nell’osservare le lancette del mio orologio.
«Non ci posso credere!» la sento esclamare all’improvviso, che quasi sobbalzo.
Mi giro a guardarla, per accertarmi che ce l’abbia con me: una donna.
Resto interminabili attimi a fissarla.
Anche le lancette del mio orologio si fermano.
Si ferma il mio cuore, si ferma il mondo, si ferma l’universo.
Io che resto senza parole, lei che pronuncia il mio nome: «Giorgio… sei tu?»
Il mio nome sulle sue labbra. Il tempo scompare. O ritorna.
Il tempo in cui l’ho amata, il tempo in cui l’ho perduta.
Voglio girare il mondo, mi aveva detto quell’ultima volta.
E adesso l’ho ritrovata, dopo il mio viaggio, dopo i suoi viaggi.
Proprio qui, aspettando un treno che non avrei preso mai se oggi fosse stato come ieri o come sempre.