di Davide Paciello
Illustrazione di Francesca Bosco
Mi siedo alla banchina del tram.
Fa caldo e ho paura di sudare e puzzare, cerco di non pensarci.
Domenica scorsa ero al parco per beccarmi con un amico che, a sua volta, si doveva beccare con un amico e così via. Alla fine mi ero ritrovato in mezzo ad un nutrito gruppo misto di ventenni con cui, dall’alto dei miei trent’anni, non sentivo alcun bisogno di entrare in confidenza.
Stappai una birra per giustificare il mio esser uscito di casa, ma non me la godetti: gente della mia età spuntò con chitarre e persino un sax. Immediatamente si sparse la puzza di Wonderwall nell’aria.
Un tempo avrei amato queste cose, ma ora vedevo solo degli adulti che da ragazzini sognavano di essere rock star mentre ora nascondevano il disagio di non ricordare più accordi e movimenti delle dita.
Guardo l’ora.
Il tram è in ritardo e una versione giovane di me è seduta al mio fianco.
È il me che non scopava e che amava le jam improvvisate, le bevute con sconosciuti e i film impegnati. Alza lo sguardo dalla sua lettura, la Nausea di Sartre, e mi fa: la vita finisce a trent’anni.
Una frase che mi ripetevo spesso sperando che a 30 anni sarei stato un adulto autonomo e invece mi trovo schiacciato tra la precarietà, lo sfruttamento e la consapevolezza di non aver combinato un cazzo nella vita.
Tuttavia è vero, la vita finisce a trent’anni.
Ho viaggiato abbastanza per sapere che i posti sono più belli in foto, ho amato abbastanza per sapere che l’amore è più una questione di tempismo che di spirito.
Le cose che dovevo scrivere le avevo scritte, i cibi prelibati assaggiati e le bevande scadenti bevute.
Tutto si era compiuto nell’inconsapevolezza.
Scruto i binari in cerca del mezzo, ma niente.
Ecco a che servono i figli, a riprovarci, a ricominciare da capo.
A guadagnare altri 13, 14 anni di novità prima che ti dicano: «non sono te, il tuo fallimento è irreversibile, ma il mio è ancora da vedere; ora tocca a me fallire e lo farò meglio».
Sarebbe comunque bello avere una prole o quanto meno una certa sicurezza economica per adottare un cane prima di essere troppo rincoglionito per occuparmene.
Vedo un tram all’orizzonte, spero sia il mio e mi metto in piedi, mi giro come a cercare il giovane me.
«La vita si è allungata – mi dice – ma qualitativamente non è tanto diversa: l’infanzia scorre lentamente, è densa, ricca di scoperte, poi tutto diventa veloce e ripetitivo».
Mi osservo: il suo futuro è il mio presente ed è orribile come lo temevo.
Il tram si avvicina, lento, ma inesorabile.
Forse dovremmo vivere fino ad un massimo di quarant’anni, una vita breve vi eviterebbe la disillusione.
Ci sposeremmo da adolescenti per amore e faremmo figli per gioco.
A 20 anni saremmo giovani adulti pieni di energie che lavorano per sostenersi e finanziare le proprie passioni. A 30, stanchi e sazi, ci ritireremmo in qualche concilio di anziani del villaggio o a vita privata per dedicarci ai nipotini dei nostri, impreparati, figli adolescenti.
Infine, a 40 anni massimo, ci congederemmo dalla vita in maniera dignitosa senza starci troppo a pensare.
Non è il mio tram che arriva.
Spero di non fare tardi a lavoro.
Potrei campare altri 60 anni e li passerei tutti a lavorare.
Un giorno mi sveglierò e mi chiederò cosa ne ho fatto della mia vita e mi resterà solo un grande tempo sprecato a sentirsi come Antoine che guarda il mare alla fine de “i 400 colpi”.
Stasera mi vedrò un film dove de Sica scorreggia e incolpa Boldi davanti una tipa priva di caratterizzazione…e vaffanculo alla Nouvelle Vague.