di Siliva Penso
Illustrazione di Liliana Brucato
Dal posto in cui mi siedo posso vedere le persone in faccia.
Di solito è per terra, con le gambe lunghe dritte, la schiena contro la porta automatica che resta chiusa.
È il modo migliore per osservare la gente che sfila entrando: triste, arrabbiata, agghindata, che non ha tempo, che perde tempo, che non si rassegna al passare del tempo.
A volte mi metto sulla poltroncina di plastica arancione, lì mi godo meglio il dondolio del vagone e sonnecchio.
Lo faccio quando ce l’ho col mondo, o dopo che qualcuno mi ha trattato male.
Così mi diverto a scrutare le espressioni schifate degli altri, gli sguardi imbarazzati che si incrociano tra loro, trovando, risarciti, approvazione quando di solito le identità di ognuno sono chiuse, sigillate, proiettate verso il proprio telefonino. C’è una certa soddisfazione beffarda a vedere il tramestio dei pensieri preoccupati dietro le fronti, che macinano idee e si impongono di non sedersi più sui sedili se ci si mette la gente come me.
Già, ma com’è la gente come me?
Umana direi.
Ma anche senza tetto, senza casa, barbone, clochard, barbaro, sporco, puzzolente.
Come volete voi: io sono tutte queste cose.
Certo, sono anche altro.
Ma è nascosto bene sotto la sporcizia, il disagio, gli occhi cerchiati di borse nere.
Perciò nessuno lo vede.
Invece, da quando io sono questo qua, a loro li guardo sempre, prima no.
Prima era tutto un vortice di impegni e sacrifici e cose da fare.
Ma c’erano anche i momenti belli, mi pare.
Ora il tempo è una linea piatta ininterrotta e va per conto suo.
Io lo srotolo osservando il viavai dei corpi che si spostano, oscillano, perdono l’equilibrio, appisolano il mento sul palmo della mano, raccontano urlando al telefono delle coliche del marito, sbraitano contro le ingiustizie ricevute al lavoro, dai fidanzati, dalla compagnia telefonica.
L’altra notte c’era una coppia che si baciava sui sedili.
Tanto erano presi che la metro era diventata la loro stanza.
«Sono giovani», ha detto una signora all’amica, come per scusarli. Loro erano vestite tutte eleganti, chissà qual era la meta. È bello fantasticare, immaginare dove potrebbero andare, chi incontreranno, amici, amanti? Cosa troveranno quando lasceranno il vagone, cosa li aspetta nella vita vera, fuori dal dondolio rumoroso delle gallerie?
Il sabato sera è il più bello, la metro è un pullulare di allegria e aspettative, è un’altra vita nella vita sotto la città, che viaggia veloce verso feste e incontri e teatri e cinema e luci nella notte che brillano sui marciapiedi. Gli amici, in circolo intorno al palo centrale dello scomparto, si battono pacche sulle spalle dei giacchetti jeans, hanno gli occhi lucidi di riso, sono innamorati del mondo e nei gruppetti c’è sempre un ragazzetto che si accosta a una ragazzetta e fa il simpatico, lei a volte ricambia la simpatia, a volte no, è scorbutica sapendolo, lo fa apposta, il ragazzetto talvolta si scoraggia torna al sicuro nel branco dei maschi, altre volte dribbla, la prende alla larga, cerca prima di far colpo sulle amiche.
Il lunedì mattina nell’aria c’è una tristezza lugubre, l’aspettativa lascia il posto alla rassegnazione, alla rabbia di alcuni che vogliono litigare per forza, a quelli che entrano come furie travolgendo tutti, che rubano il posto a sedere con scatti ferini e occhi da predatori. C’è anche la categoria con l’ansia, tipi che si mettono davanti alle porte molte fermate prima della loro e chiedono a tutti «Che scende alla prossima?».
Il venerdì pomeriggio si sentono più sospiri che parole, c’è uno strano mesto silenzio, le persone sono stanche, i libri rimangono aperti e gli occhi persi in chissà quali orizzonti ciechi, le dita scorrono sugli schermi senza vedere niente.
Ogni giorno in certe ore stabilite, che chiamano di punta, la metro diventa un container e dentro ognuno stipa il proprio corpo come può, come una merce ci si addossa gli uni agli altri. Io sto tranquillo, intorno a me c’è sempre spazio. A volte quelli più vicino parlano di me, sono le solite frasi con le stesse intonazioni, una sinfonia metallica e monotona sulla quale si può quasi tenere il tempo, come se fosse una logora canzone trita e ritrita che, con versi stonati e gracchianti, rimbomba dai vecchi altoparlanti della stazione: «Che vergogna», «Ci vorrebbe più controllo…», «Basta con questo degrado, non si può più neanche prendere una metro!», «Andrebbero arrestati questi qui e buttata la chiave! », «Insopportabile questa puzza, già ci tocca andare a lavorare…».
Lavorare.
Anche io lavoravo, o almeno così ricordo, come fosse un sogno ormai. Sembrano mille invece era solo un anno fa.
Avevo un lavoro, sì, ora ho solo uno scatolone e sono un niente perché niente possiedo: così, almeno, impone questa società, questa esistenza attuale. L’esistenza è fluida, non c’è, scivola via.
Vivo di elemosina.
Elemosino spiccioli e sguardi…e guardo.
Guardo la vita che non ho: la vita degli altri.