di Denise Ciampi
Illustrazione di Serena Saia
Ti lascio andare: solo l’ombra si attarda nel campo visivo, prima di scomparire.
Rimango sotto la pensilina della biglietteria, nella quiete assolata del porto. Cominciano ad arrivare macchine e furgoni. Famiglie, uomini soli.
Sui portapacchi piccoli mobili, elettrodomestici e altri oggetti, legati con cinghie e teli colorati.
Forse tornando a casa ti sarai fermato a bere un caffè al bar della piazza, dove ieri sera abbiamo chiacchierato a lungo, trascurando rigorosamente le cose che contano.
Inizia l’imbarco dei mezzi, il mio camper è tra i primi.
I gesti bruschi del personale mi orientano verso la zona di sosta.
Al momento di lasciare il porto mi affaccio alla balaustra, come facevo da bambina, quando insieme ai miei genitori andavo in Sicilia per trascorrere le vacanze con i nonni.
Una ragazzina dai colori magrebini e dal capo scoperto si diverte a guardare il porto che si allontana e ride assottigliando ancora di più il taglio dei suoi occhi.
Vicino a lei c’è un bambino più piccolo che gioca, sorvegliato a distanza da una giovane donna.
Il vestito fucsia della bambina si gonfia come un piccolo paracadute.
Anche il mio abito raccoglie il vento e, mentre raggiungiamo il mare aperto, aderisce al corpo e si solleva in forme allungate che seguono lo stesso andamento dei miei capelli sciolti, divisi in ciocche dall’aria salmastra.
Ho la sensazione di perdere la mia forma.
Anche la pelle cambia: si ispessisce, per una scorza invisibile e fresca, impastata dal vento con acqua e sale.
Indossa una gonna bianca, ben stirata; una camicetta, anche quella bianca e ordinata. La ragazza dell’equipaggio ha occhi chiari e grandi, che una volta devono averle dato un’aria ingenua.
Adesso no: sono gli occhi di un marinaio che scruta l’orizzonte, mentre fuma.
La sigaretta stretta tra il pollice e l’indice, rivolta verso l’alto, ad ogni boccata una smorfia, quasi di dolore. In quelle espressioni la pelle bruciacchiata dal sole si arriccia e si distende, con un ritmo lento che fa pensare al movimento di un mammifero marino.
Guardiamo entrambe la scia lasciata dalla nave: una traccia lunga e stranamente persistente di schiuma bianca, intensamente azzurra al centro. Eppure scomparirà, mi viene da pensare, e per un attimo vorrei che la nave fosse in grado di lasciare un segno indelebile, lungo quella rotta che da Civitavecchia ci porterà a Palermo, da dove – senza di me – proseguirà per Tunisi.
Ti lascio andare, e ancora una volta mi illudo che sia qualcosa di definitivo.
La ragazzina è ancora sul ponte: corre e gioca con il bambino di prima.
La giovane donna viene ad appoggiarsi alla balaustra, vicino a me e non molto distante dalla ragazza dell’equipaggio.
Distoglie la mia attenzione dalla scia.
Le dico qualcosa sui bambini: si somigliano, le chiedo se sono fratelli.
Ha lo stesso sorriso della bambina, avrà appena vent’anni.
Dice di sì; capisce l’italiano e lo parla, con qualche difficoltà.
Il velo chiaro che le copre la testa si muove, sollecitato dal vento e dai movimenti vagamente ritrosi del capo.
Le dico che viaggio con il camper, sorride e mi fa capire che, con tutto quello che hanno imbarcato, un camper avrebbe fatto comodo anche a loro.
Mi ricordo delle macchine e dei furgoni stracarichi di roba, mi spingo a chiederle che ne faranno di tutte quelle cose.
Sono regali, per i parenti e per gli amici.
Hanno comprato una televisione usata per un fratello di suo marito e un mobiletto per la casa dei suoceri.
Portano qualcosa a chi li ha aiutati a partire, si usa così.
Il bambino si sposta, corre su per le scalette e la madre lo segue.
Solo adesso mi accorgo che anche la ragazza dell’equipaggio se ne è andata. Mi è venuta fame.
Buffo avere una cucina e non poter cucinare.
Finisco al bar esterno, i panini sono come quelli dell’autogrill: mi sembra che l’unica differenza sia che costano di più.
Dopo aver mangiato mi dirigo verso il bagno.
In piedi, vicino ad una porta a vetri, ci sono la giovane donna e i due bambini. Noto che adesso il vestito fucsia della bimba è sgualcito dal viaggio, ho nostalgia del piccolo paracadute.
Mi viene spontaneo sorridere ai bimbi e fermarmi un attimo vicino a loro. Tu non hai figli? No, non ne ho. Sei sola? Sì, viaggio sola.
Intanto, oltre la porta, un uomo nordafricano fuma e guarda nella mia direzione.
Spiego alla madre che sono nata in Sicilia ma non ci torno da tanti anni, che voglio conoscere il posto da dove vengo.
Allora sei straniera anche tu…
Forse, non ci ho mai pensato.
Raggiungo davvero il bagno. Mi preparo per la notte, soprattutto ho bisogno di sciacquarmi la faccia. Tornando nella sala mi guardo intorno: i passeggeri sono sistemati ai tavolini o sui divanetti, quasi nessuno sta consumando; la sala è piena di voci che si intrecciano in lingue diverse, con misteriosi punti di contatto. Cerco con lo sguardo la donna e i bambini, ma di loro non c’è più traccia.
Si è infilata un cardigan sopra la divisa, forse non è in servizio.
È appoggiata alla balaustra: sembra attratta da qualcosa, nell’acqua. Traffico un po’ intorno al camper e continuo ad osservarla cercando di non dare nell’occhio.
Buonanotte, mi dice.
Ha un tono gentile, che oggi pomeriggio avrei faticato a immaginare. Rispondo e, per pudore, mi infilo subito nel veicolo.
Sarà la stanchezza, ma penso che non mi stupirebbe se, domani, qualcuno raccontasse di averla vista tuffarsi e scomparire a nuoto nella notte.
Continuo a rivolgerti questa cronaca silenziosa del mio viaggio, anche adesso, che con gli occhi fissi al soffitto dell’abitacolo, cerco di prendere sonno.
Quante parole ancora dovrò pensare, prima di trovare un linguaggio capace di riempire il silenzio? Qui, in mezzo al mare, tra lingue e dialetti nati per comunicare, l’incomunicabilità mi affligge anche di più.
Nel dormiveglia il mio sguardo si confonde con quello della ragazza dell’equipaggio.
Sento in sottofondo una musica araba.
La ragazza mi guida tra le ombre profonde del mare.